Lo spettatore nella dinamica delle emozioni

di Peppino Ortoleva

 

When Carlini was convulsing Naples with laughter, a patient waited on a physician in that city,
to obtain some remedy for excessive melancholy, which was rapidly consuming his life.
The physician endeavored to cheer his spirits, and advised him to go
to the theatre and see Carlini. He replied, ‘I am Carlini’
(Ralph Waldo Emerson, The Comic, 1843)[1]

 

1. Sentire ed e-movere

«Le sensazioni hanno per noi i nomi seguenti: visioni, audizioni, percezioni olfattive, sentir freddo, sentir caldo e inoltre i cosiddetti piaceri e dolori e desideri e paure e altre, di cui infinite sono quelle prive di nome e numerosissime, invece, quelle che ce l’hanno».[2] Il passo del Teeteto di Platone parla di sensazioni e percezioni ma anche di quelle che noi definiremmo oggi emozioni, tra cui una delle più note e studiate, la paura. Del resto il confine tra le sensazioni in senso stretto e quell’ambito più ampio che chiamiamo sentimenti o, appunto, emozioni è difficile da tracciare in modo rigoroso. Ci sono infatti percezioni che danno luogo quasi immediatamente a reazioni di tipo emotivo: dal disgusto all’eccitazione; e d’altra parte ci sono sentimenti che condizionano il come si percepisce, con la vista l’udito o altri sensi, e favoriscono il concentrarsi dei sensi sull’uno o l’altro oggetto. È un’esperienza comune quella per cui la paura può annebbiare i sensi, o l’attrazione amorosa può focalizzare non solo l’attenzione ma addirittura richiamare quasi per intero la capacità di vedere su una sola persona. Se così è, il passo platonico ci aiuta a ragionare, oltre che sulla percezione in senso stretto, anche sui sentimenti, su quelle “emozioni” cha hanno dato luogo negli ultimi decenni a un settore di ricerca in rapidissima crescita. Certo, non tutti “i cosiddetti piaceri e dolori e desideri e paure” di cui parlava Socrate sono esplicitamente trattati dalla recente letteratura (storiografica o meno) sulle emozioni, ma il piacere, il dolore, il desiderio sono sicuramente tra le principali reazioni affettive umane, non meno del disgusto, della rabbia, della sorpresa, e della paura appunto, che sono più di frequente citati in quella letteratura.
Del passo platonico comunque non ci colpisce solamente l’insistenza sulla difficoltà di separare nettamente tra loro i diversi aspetti del sentire (un termine del resto che si applica insieme, non casualmente, sia al percepire sia al vivere emotivamente). Forse ancora di più dovrebbe darci da pensare la frase: “infinite sono quelle prive di nome e numerosissime, invece, quelle che ce l’hanno”. La realtà del sentire, ammonisce Socrate, è fatta di una grandissima varietà di possibili esperienze,  molte delle quali siamo abituati a etichettare con appellativi precisi (spesso ingannevolmente precisi verrebbe da aggiungere), mentre ce ne sono tante altre che non sappiamo definire: di queste anzi non sapremmo  calcolare neppure la precisa quantità, del resto sono “infinite”. Alla diffusa tendenza e classificare rigorosamente le emozioni umane in un numero limitato (fino alle sei che ricorrono in molta letteratura psicologica recente),[3] le parole di Socrate rilette oggi sembrano contrapporre  un modo di pensare diverso, anzi decisamente contrario, per cui sensazioni ed emozioni sono straordinariamente varie, e in gran parte dei casi sfuggenti: inclassificabili. Più che una serie limitata di entità distinte ci invitano a osservare un universo molteplice e sconfinato, in parte troppo soggettivo per essere pienamente condiviso attraverso quello strumento essenziale ma limitato di comunicazione e scambio che è il linguaggio verbale, in parte troppo mutevole per poterlo fermare e fissare in un singolo momento. Questo fluire incessante, di cui abbiamo tutti esperienza, passa non solo dalle sensazioni alle emozioni e viceversa, ma anche da un’emozione all’altra, dalla gioia alla tristezza (o dal piacere al dolore secondo la terminologia classica), dal desiderio alla paura, fino a quelle peculiari e complesse percezioni di sé che alcuni autori chiamano in inglese self-conscious emotions: come la vergogna o l’orgoglio.[4] E passa da stati d’animo persistenti e riconoscibili, come quelli che ho appena ricordato, ad altri che restano transitori e indefinibili: del resto uno degli aspetti più tipici dell’emotività umana è il sentire in alcuni momenti forme di disagio rese ancora più tormentose proprio dal fatto che è difficile dare loro un nome (o forme di esaltazione rese tanto più inebrianti dal fatto di non poterle identificare con precisione).
La vita interiore delle persone, per quanto possa in alcuni momenti subire il peso dominante di un singolo affetto, di un impulso prevalente e perdurante, è per sua natura e in generale mobile, dinamica: come si passa di continuo da un ambiente all’altro e da una relazione all’altra così si passa da un’emozione all’altra. Per cui raramente è appropriato il parlare di stati d’animo, molto più spesso si dovrebbe parlare di moti d’animo. Quando davvero qualcuno è totalmente e a lungo posseduto da un sentimento solo il rischio è che cada nel patologico, cosa che come spesso capita  può essere segnalata da un’espressione popolare quanto acuta: “fissato”.
Del resto, parlando di emozioni troppo spesso ci si dimentica che nella radice stessa della parola c’è il movimento: «dal tardo latino e-movere» ci ricorda il Grande Dizionario della Lingua Italiana,[5] anche se il termine sembra esserci arrivato per una via indiretta, dal francese cinquecentesco. Bollato dagli antichi pedanti come “gallicismo” è sempre dal francese che la parola pare avere raggiunto anche altre lingue, tra cui l’inglese. Fin dalla sua origine, che non è classica come si potrebbe immaginare ma come per parecchie altre espressioni del nostro uso risale al primo Medioevo, il termine fa quindi riferimento appunto a un moto, che può nascere da uno stimolo, può dare luogo a una reazione di più o meno lunga durata, per poi cedere il posto, o sovrapporsi, ad altri movimenti interiori, ad altri sentimenti.
Comprendere questo carattere dinamico della vita emotiva è almeno altrettanto importante, ed è, a mio vedere, più urgente per la riflessione sul quadro dei sentimenti umani di quanto lo possa essere l’approfondire con l’uno o con l’altro mezzo (la psicologia, la storia delle idee, l’analisi delle espressioni letterarie) lo studio delle singole emozioni. Non potrò  in questa sede passare in rassegna quella vasta e sicuramente per molti aspetti suggestiva letteratura che va sotto il nome di history of emotions; credo di potere dire però che troppo spesso questa si fonda su una classificazione degli affetti e appunto dei sentimenti che mira a farne delle realtà “in sé”, anche per renderle oggetto di una storia propria e distinta, e di una sottodisciplina autonoma. I percorsi storici tra le emozioni, o all’interno di una di esse, che vengono così ricostruiti rischiano però di separarle dal vissuto delle persone, mentre è proprio e solo in quel vissuto che esse esistono.[6]
La tendenza a soffermarsi sulle diverse emozioni come se esistessero le une separate dalle altre (e non in un continuum e in un interrotto sovrapporsi e alternarsi) si spiega in parte con la tendenza, anzi l’esigenza, riconoscibile anche in culture ed epoche molto lontane tra loro, a riconoscere e denominarle come entità distinte. E a classificarle. È di questa classificazione che parlava Socrate nel passo che abbiamo citato all’inizio, ma per indicarne i limiti: l’ampiezza di quello che nella serie dei nomi rientra, e soprattutto l’ancora maggiore e indeterminata vastità di ciò che ne resta escluso. D’altra parte, la tendenza, l’esigenza di dare un nome alle emozioni non nasce solo dalla riflessione degli umani su se stessi, ma anche e forse soprattutto da possibili finalità pratiche: di educazione, di controllo, di auto-controllo. Se questo è vero, tra l’emozione “definita” nella lingua e in diversi tipi di discorso e quella interiormente vissuta esiste un rapporto complesso, di tensione oltre che di corrispondenza.
I nomi attribuiti ai sentimenti non solo possono essere vari, storicamente condizionati, e mutevoli (cosa che generalmente la history of emotions riconosce, e alla quale dedica anzi molta riflessione), ma più che un compito descrittivo assumono spesso un compito strumentale e performativo, tendono a bloccarli per comprenderli ma anche e soprattutto per dominarli, in se stessi e negli altri, e anche per regolarli. I nomi possono così assumere il ruolo di nascondere la dinamicità delle emozioni, in modo non dissimile da quello che fa la maschera con il volto dell’attore: ne “mostra”, accentuandolo e in parte falsandone, il senso proprio mentre ne occulta la vita. Se c’è un campo nel quale si deve evitare di confondere il nome con la cosa, è proprio questo. Se c’è un campo nel quale la fissità parmenidea delle idee dovrebbe essere temperata dall’eracliteo fluire del vivere, è proprio questo. Il rischio altrimenti è che a etichette nate da esigenze comprensibili ma limitate di controllo si attribuisca una verità in sé, e che si sottraggano le emozioni ai processi vitali che le animano, facendone oggetti affascinanti ma privi di sangue. Come le maschere senza gli attori.
 
 
2. Le fabbriche delle emozioni: lo spettacolo e l’interiorità
 
Questa premessa può fare meglio comprendere i miei propositi nel riflettere sulle emozioni dello spettatore. Il mio fine, infatti, non è di classificare o di sviscerare alcuni singoli sentimenti, tra i moltissimi che la varietà degli spettacoli coltiva e stimola, ma di riflettere su una dinamica, anzi su un insieme di dinamiche. L’umanità conosce una grande varietà di spettacoli: diversi per genere, diversi anche per il tipo di piacere che promettono, e che possono rivolgersi a pubblici almeno in parte diversi: dall’apparentemente ingenuo divertimento infantile offerto dalle capriole dei saltimbanchi all’apparentemente “adulta” eccitazione propria della pornografia. È importante ricordare anche il variare degli spettacoli lungo il tempo e la storia: mutamenti che dipendono dai media che li veicolano, dalle norme che li regolano, oltre che da mutamenti sociali e culturali di più ampia portata. Ma al di là di queste differenze ci sono alcuni tratti che li accomunano, ed è su questi che intendo qui concentrarmi. Ogni spettacolo stimola nello spettatore non una sola emozione ma una successione di reazioni psicologiche, non solo intensifica la sua vita affettiva come quella percettiva (e in questa intensificazione sta una delle attrattive dell’andare a teatro, al cinema, a un concerto, allo stadio), ma la rende più tumultuosa di quanto accada spesso nella realtà; ed è anche nel succedersi rapido di sensazioni e sentimenti che sta parte del piacere, parte del resto della loro stessa intensità. Il fatto che si tratti di emozioni costruite, “prodotte”, non le rende meno mutevoli, semmai di più. Inoltre non dobbiamo dimenticare che ogni spettacolo è generalmente accompagnato, circondato, da altri movimenti, anch’essi emotivamente carichi: quelli che lo spettatore compie nel passare dalla “vita reale” a quella in qualche modo “altra” del teatro, del cinema, dello stadio, o anche del televisore che pure è collocato nella quotidianità dello spazio domestico; e quelli in senso contrario che lo riportano alle sue attività ordinarie.
Proprio la sua artificialità (mai però del tutto programmabile), fa del mondo degli spettacoli, nella sua varietà ma anche in alcuni tratti unificanti che lo attraversano, un vero e proprio laboratorio della vita emotiva, un luogo privilegiato di analisi della loro dinamica: in particolare per quanto riguarda gli spettacoli di massa, che stanno a quelli di epoche precedenti come l’industria sta all’artigianato. Proprio in quanto laboratorio ci dà un’occasione di studio, diversa da quella offerta da molte altre fonti, ma comunque storicamente situata, sui percorsi emozionali degli esseri umani: gli spettacoli stabiliscono sistemi di relazioni, tra chi “tiene” la scena e il pubblico, e anche tra i membri del pubblico stesso; producono emozioni in qualche misura “fabbricate” ma proprio in quanto tali rispondenti a tecniche e modelli più noti e prevedibili rispetto alle emozioni totalmente “spontanee”, e quindi per certi aspetti più facili da studiare. Proprio in queste loro caratteristiche quindi gli spettacoli possono aiutare a riflettere storicamente e anche psicologicamente sulle dinamiche dell’universo delle emozioni, sfuggendo al dilemma tra la tendenza a una semplificazione eccessiva e il rischio, che sarebbe altrettanto grave, di arrendersi di fronte alla sua complessità.
In quanto laboratorio dei sentimenti, l’universo degli spettacolo apre spiragli importanti su diversi aspetti della vita affettiva e su diversi degli stimoli che la muovono: prima di tutto la produzione delle emozioni, che è il fine e la professione di chi fa spettacolo; in secondo luogo, e più sottilmente la dialettica tra le emozioni di chi sta sulla scena, o al centro dello stadio, o dietro/davanti alla macchina da presa e quelle del suo pubblico; e poi la complessità di questi sentimenti, che spesso sono programmaticamente ambivalenti, e oscillanti, e rimandano ad alcuni meccanismi profondi che nascono nell’infanzia. Per non parlare delle più misteriose tra le emozioni dello spettatore, a cominciare dal riso, e dalla commozione, che spesso è del tutto diversa (ma non per questo meno sentita) di quella che si prova nella vita “vera”. Senza dimenticare, ancora, che nell’esperienza dello spettatore il rapporto tra le sensazioni nel significato stretto del termine e le emozioni è intensificato rispetto alla vita “reale”, in quanto i sensi, essenzialmente la vista e l’udito, sono i veicoli attraverso cui si assorbe in modo concentrato un insieme di informazioni al fine di venire colpiti e appunto di vivere una vita emozionale intensificata. E che i moventi per assistere agli spettacoli sono essi stessi di tipo affettivo: la ricerca di un piacere, il desiderio di rifuggire a quella fondamentale, ma poco studiata, “emozione passiva” che è la noia. In questo breve articolo non potrò però occuparmi di tutti questi temi, e mi concentrerò soprattutto sulla costruzione delle emozioni degli spettatori.
Nel 1913, sulla rivista americana McClure’s apparve un articolo a firma di due dei massimi autori di spettacoli di varietà del tempo, due “maghi di Broadway”, come si diceva allora e si sarebbe detto ancora a lungo: George M. Cohan e George J. Nathan. Il titolo era The Mechanics of Emotion,[7] mentre McClure’s era una rivista a larga circolazione che nell’America di quegli anni aveva un notevole rilievo, unitamente ad altre pubblicazioni simili, nella formazione dell’opinione pubblica colta: anche per questo, nonostante la brevità e il tono relativamente leggero, vale la pena di considerare l’articolo con attenzione. «Lo spettatore» sostenevano i due autori «viene a teatro con uno scopo ben definito, provare delle emozioni»: un’affermazione che da un lato conferma la tesi alla base dell’industrializzazione e della commercializzazione (sia detto senza dare alla parola implicazioni moralistiche) della cultura, per cui il compito del teatro, del cinema, degli altri media è «dare al pubblico ciò che desidera», dall’altro fa appunto delle emozioni una merce, anzi la merce principale, di questo singolare mercato. Alla domanda del pubblico, secondo Cohan e  Nathan, è possibile rispondere in modo relativamente sicuro: ci sono dei “germi o bacilli dell’emozione” sui quali è possibile fondare una «scienza completa del groppo in gola» e anche della risata e della suspense, perché «se siamo persone normali, piangiamo tutti per le stesse cose, ridiamo per le stesse cose, rabbrividiamo per le stesse cose: sono effetti semplici, così grezzi che, in circostanze normali, ci indigniamo al solo pensiero di lasciarcene condizionare. Ma il commediografo che sa il fatto suo è capace di manipolarli come vuole». L’articolo procede poi in un rapido elenco di possibili “germi” del pianto, del riso, del brivido. Tra i primi c’è il bambino che nel pieno di una frattura tra i genitori sospira “stasera mi metterò a letto da solo”, o altre situazioni relative a bambini abbandonati o ad amori spezzati per l’incomprensione reciproca. Tra i secondi vengono ricordate situazioni ancora più “meccaniche” come «un personaggio che cammina su un piede fratturato o dolente di un altro personaggio, e lo fa saltare per il dolore» o «un uomo o una donna che appoggia il gomito su un tavolo, ma il gomito scivola all’improvviso e il personaggio si trova a cadere violentemente».
Può sembrare che la riflessione dei due commediografi sulle emozioni degli spettatori sia terribilmente semplicistica, che dia una rappresentazione delle emozioni che più tardi si sarebbe definita “pavloviana”: del resto erano loro stessi ad avvertire i lettori che avrebbero parlato di effetti apparentemente fin troppo grezzi e fin troppo semplici. Ma se poi confrontiamo l’elenco da loro proposto delle situazioni “che fanno ridere” con quelle che negli anni immediatamente successivi avrebbero reso Fatty Arbuckle, Buster Keaton e soprattutto Charlie Chaplin popolari in tutto il mondo siamo colpiti dalle coincidenze: basta ricordare quanto l’umorismo della deliziosa comica chapliniana The Cure (in italiano Charlot fa una cura, 1917) si basi proprio sulla scena ricorrente di un gottoso a cui viene calpestato il piede fasciato, esattamente quella descritta quattro anni prima da Cohan e Nathan; mentre la scena della persona che si appoggia su un tavolo e scivola si può trovare in tutta la storia del cinema comico fino a tempi recenti: inclusa la celeberrima sequenza di Ninotchka di Lubitsch (1939) nella quale Melvyn Douglas fa finalmente ridere Greta Garbo con la sua spettacolare caduta. L’individuazione di alcuni stimoli di base che producono, se non in tutto, in buona parte del pubblico effetti analoghi non è in effetti semplicistica come potrebbe apparire: è vero che esistono meccanismi relativamente elementari capaci di stimolare reazioni prevedibili. I limiti del ragionamento dei due commediografi americani  stanno piuttosto altrove: da un lato, nel ridurre la “meccanica delle emozioni” al pianto, al riso, e a quello che viene descritto col nome di “brivido”, come se esaurissero il quadro delle reazioni affettive che gli spettacoli, teatrali cinematografici televisivi ma anche circensi o altro, possono stimolare (e nel non tener conto della possibilità di stimolare quelle stesse reazioni con costruzioni narrative più complesse);  dall’altro, nel non chiedersi che cosa muove le persone a voler provare delle emozioni, diverse e in qualche senso aggiuntive rispetto a quelle della vita reale. I due “maghi di Broadway” danno per scontato che gli spettatori abbiano uno “scopo ben definito” che li spinge a cercare e desiderare gli spettacoli, ma non si chiedono da che cosa nasca un simile desiderio.
Proviamo a collocare le reazioni psichiche degli spettatori in un quadro più articolato. Quelle delle quali parlavano Cohan e Nathan, e sulle quali costruivano la loro “meccanica”, possono essere definite le più dirette: la commozione, il riso, la suspense. I due autori non avevano dubbi a definire queste reazioni come “emozioni”. Possiamo chiederci se il termine sia usato propriamente. Certo, nessuna delle tre è esplicitamente trattata in tanta storiografia, e anche psicologia, delle emozioni, ma è difficile negare che di quello si tratti. È così per il pathos che può produrre, nei loro termini, un “groppo alla gola” o indurre decisamente al pianto, per quella peculiare sofferenza su cui si soffermava Agostino,  finendo con l’arrendersi al suo mistero: «Come avviene che a teatro l’uomo cerca la sofferenza contemplando vicende luttuose e tragiche? e che, se pure non vorrebbe per conto suo patirle, quale spettatore cerca di patirne tutto il dolore, e proprio il dolore costituisce il suo piacere? Strana follia, non altro, è questa».[8] E lo stesso si può dire anche per quel fenomeno peculiare che viene chiamato appunto suspense, e che pure viene spesso associato a reazioni fisiche come il batticuore e il “brivido”. In entrambi i casi, ha scritto Edgar Morin, «l’assenza o l’atrofia della partecipazione motoria... è strettamente legata alla partecipazione psichica e affettiva».[9] La potenza di entrambe le emozioni sta nell’agitazione per quanto accadrà congiunta con l’impotenza di influire in alcun modo su quanto accadrà, e sta anche in uno dei princìpi cruciali di gran parte degli spettacoli, l’essere abbastanza credibili da produrre forti sentimenti, e al tempo stesso abbastanza evidentemente fittizi da non indurre lo spettatore ad alzarsi dal proprio posto per intervenire, per aiutare l’afflitto o fermare l’assassino. Più misterioso è il fenomeno della terza emozione primaria da loro indicata, il riso, che è tra i piaceri tra i più ricercati dal pubblico, del teatro del cinema e di molte altre forme di spettacolo, ed è una reazione psichica e fisica insieme tra le più potenti e difficili da controllare. Sono tre reazioni immediate, possiamo dire tre “emozioni dirette”, delle quali i due commediografi descrivono per così dire la tecnica ma non la scienza, alcuni dei possibili strumenti per stimolarle ma non l’essenza e le cause.
 
Esistono però anche altre reazioni altrettanto dirette di cui i due “maghi di Broadway” non fanno cenno. Prima fra tutte è quell’insieme di fenomeni che possiamo raggruppare sotto l’espressione vaga, che è “eccitazione”, una parola che in sostanza equivale quasi letteralmente ad agitare, smuovere. E-movere.  Tra queste ha un ruolo evidente l’eccitazione erotica: quella più di base che in inglese si traduce con arousal, e che viene prodotta non solo dallo spettacolo propriamente pornografico ma anche spesso dal gioco delle allusioni; e anche l’eccitazione più sottile, tra il desiderio e il sentimento amoroso, che è un ingrediente fondamentale di tutta la cultura di massa moderna. Ma si può parlare di eccitazione anche per altre situazioni, e per altre forme di coinvolgimento degli spettatori: ad esempio le reazioni scatenate da tanti spettacoli violenti, “dal vero” o proiettati su uno schermo. Questi spettacoli fanno presa su un misto di paura, di istinto di autodifesa, e di impulsi più difficili da riconoscere e forse anche da accettare, legati al desiderio di sopraffazione, al fascino-repulsione prodotto dalle esibizioni cruente. Ritroviamo una riflessione su questa emozione ancora in  Agostino, che la descriveva e la analizzava criticamente nella sua forma più estrema forse di tutte, quella carica di sangue e di morte vissuta dal pubblico dei ludi gladiatorii. È il celebre racconto dell’esperienza del suo amico Alipio, convinto di sapere evitare il fascino del circo e che invece ne fu preso contro la propria volontà fino a subirne l’effetto quasi fosse quello di una droga:
 
Vedere il sangue e sorbire la ferocia fu tutt’uno, né più se ne distolse, ma tenne gli occhi fissi e attinse inconsciamente il furore, mentre godeva della gara criminale e s’inebriava di una voluttà sanguinaria. Non era ormai più la stessa persona venuta al teatro, ma una delle tante fra cui era venuta, un degno compare di coloro che ve lo avevano condotto. Che altro dire? Osservò lo spettacolo, gridò, divampò, se ne portò via un’eccitazione forsennata, che lo stimolava a tornarvi non solo insieme a coloro che lo avevano trascinato la prima volta, ma anche più di coloro, e trascinandovi altri.[10]
 
Un brano nel leggere il quale non si sa quanto ci colpisca la lontananza della nostra sensibilità da quel tipo di spettacoli, e quanto la familiarità, comunque, dei meccanismi psichici descritti dal filosofo. Quanto ne siamo fuori e quanto ci siamo, ancora, dentro. Ed è da sottolineare la profondità dei processi psichici personali e sociali evocati dal filosofo: “non era ormai più la stessa persona”, ma una delle tante.
Pianto, riso, brivido, eccitazione, ma l’elenco delle reazioni dirette dello spettatore è tutt’altro che esaurito. Alla lista andrebbero aggiunte ad esempio le tante diverse emozioni legate alla musica, della quale Denis Diderot diceva «ha la virtù di colpire più direttamente l’anima».[11] Però non mi soffermerò su questo tema, sull’influsso emotivo della musica (uno dei più cari alla recente e spesso eccessivamente deterministica esplorazione delle neuroscienze) perché richiederebbe una trattazione specifica, e assai ampia. Del resto non solo il quadro delle emozioni legate alla musica è vastissimo e solo in parte esplorato, ma le possibili forme di presenza della musica in spettacoli di molti diversi tipi di spettacolo rendono il quadro ulteriormente complesso.
 
3. La dinamica dell’identificazione, qualche cenno
 
Al di là di queste emozioni “dirette”, poi, esiste tutta un’altra varietà di sentimenti possibili: perché al cinema come a teatro, o davanti alla televisione, possiamo sentire anche invidia o frustrazione, rabbia o anche un’emozione peculiare come l’imbarazzo, perfino la vergogna, possiamo attraversare tutta la gamma dei sentimenti umani. I processi che lo rendono possibile non sono (relativamente) elementari come quelli descritti da Cohan e Nathan ma sono altrettanto efficaci. Dobbiamo ora provare ad affrontare, per quanto schematicamente, quel fenomeno noto quanto articolato che viene spesso designato come “identificazione” dello spettatore. A rendere complesso e difficile da esplorare questo universo non è soltanto l’enorme varietà dei sentimenti messi in gioco ma anche il fatto che qui le reazioni stesse di ogni spettatore sono maggiormente diversificate rispetto a quelle che abbiamo definito le emozioni dirette. I sentimenti di coloro con cui si identifica agiscono in lui anche e soprattutto in quanto fanno risuonare esperienze personali, passate e presenti: prolungano il suo vissuto e contribuiscono a dargli senso. Per fermarci all’esempio più banale, una storia d’amore vista al cinema può essere sentita come direttamente propria da chi è in quel momento preso da una relazione sentimentale, con anticipazione idealizzante da chi non ne ha mai vissute, con nostalgia da chi in quel momento soffre la propria solitudine. La dinamica delle emozioni che nascono dall’identificazione, in generale, appare meno lineare, assai più “dialogica” tra lo spettatore e lo spettacolo di quanto non lo sia (o forse semplicemente non lo sembri) quella del riso o della suspense. Ma questo non vuol dire che non si possa, e non si debba, cercare di coglierne i movimenti di base, che del resto sono oggetto di discussione da oltre un secolo, per esempio nella psicologia del cinema.[12]
Nel mio libro Il secolo dei media  ho provato a offrire una spiegazione dei processi di identificazione in una forma di spettacolo peculiare ma seguitissima. Mi riferisco alla partecipazione dei tifosi agli spettacoli offerti dagli sport di massa come, nel caso più popolare in Italia, il calcio,[13] che si fonda su una “divisione del lavoro” tra giocatori e pubblico, e che si fonda sulla logica stessa del gioco al quale gli uni e l’altro prendono parte, simultaneamente ma con ruoli molto diversi. Riprendendo e sintetizzando il noto modello interpretativo della ludicità proposto da R. Caillois,[14] possiamo dire che caratteristico di ogni tipo di gioco è l’essere un’attività libera; «separata» nel senso che si svolge entro i confini di uno spazio distinto e circoscritto e in tempi propri; incerta nei risultati; improduttiva; soggetta a regole chiare e condivise; e connessa a un proprio universo immaginario. Mentre però nella gran parte dei giochi personalmente e direttamente praticati, da bambini e adulti, queste caratteristiche si presentano unite, negli sport spettacolo e specificamente in quelli nei quali i giocatori sono professionisti, come appunto il calcio o il basket, la boxe o le corse ciclistiche, si verifica una separazione: alcune di tali caratteristiche diventano prerogativa di chi sta in campo, altre di chi segue il match, ai bordi dello spazio di gioco o da lontano per esempio in televisione. Per coloro che giocano per mestiere, parlare di attività «improduttiva» non ha senso, anche perché se uno arriva ai massimi livelli può essere tra le persone più pagato in assoluto. Per loro, in particolare per i professionisti dei giochi di squadra, il coinvolgimento in una sfera immaginaria condivisa è limitato e condizionato: possono (e devono) aspirare alla vittoria, ma non possono diventare “tifosi”. Possono essere comprati e venduti (e quindi sono tutt’altro che “liberi”), la bandiera dell’avversario potrà domani essere la loro, quella attuale potrà essere loro «nemica» dall’oggi al domani. D’altra parte chi gioca per mestiere è tenuto a operare in uno spazio distinto e circoscritto, e a sottostare (e molto rigorosamente) alle regole. In sintesi, tra le caratteristiche della ludicità individuate da Caillois spettano allo sportivo professionista solo quelle che possiamo definire più oggettive, più esteriori. Mentre quelle più personali, la scelta libera e improduttiva, la passione per i colori di una squadra o per i propri campioni, sono più tipiche degli appassionati.
A unire i due poli di questa ludicità divisa è da un lato la comune tensione (una forma peculiare di suspense) per l’incertezza dei risultati, perché di tutte le caratteristiche della ludicità l’imprevedibilità dell’esito è la sola comune a giocatori e pubblico; dall’altro proprio la complementarità, che finisce con lo stabilire, per usare un’espressione semplificante ma efficace, una sorta di delega. Il piacere dello spettatore è legato al fatto che il giocatore per definizione “gioca per lui”, l’importanza e la visibilità (e i redditi) del professionista derivano dal fatto che migliaia di persone non si limitano a seguire con interesse le sue gesta ma “vincono” con le sue vittorie e “perdono” con le sue sconfitte. È un meccanismo di identificazione meno elementare di quanto sembri, proprio perché alla base c’è non una semplice empatia ma una dialettica tra ciò che separa e ciò che unisce. Non casualmente tra le regole più rigide degli sport spettacolari c’è il divieto dell’“invasione di campo”, e d’altra parte la tensione tra quel che avviene appunto nel campo e i sentimenti/comportamenti dei tifosi (tra l’assistere allo spettacolo, il gridare il proprio sostegno, la tendenza ricorrente a replicare sugli spalti contro i tifosi avversari l’agone che avviene nello spazio di gioco) è cruciale nella vita emotiva degli stadi, mentre per chi assiste da lontano possiamo parlare di una delega ulteriore, ai giocatori ma anche al pubblico presente. Mentre altre regole rigidissime sorvegliano quell’incertezza degli esiti che è il brivido dello spettacolo sportivo, punendo con sanzioni durissime fino all’esclusione a vita chi manipola i risultati, con le combine delle scommesse come con l’assunzione di sostanze che rendono impari la competizione. 
Che cosa succede invece quando l’identificazione si stabilisce non tra chi “gioca” e chi partecipa al gioco per delega, ma tra il pubblico e le figure immaginarie, come avviene di fronte a un dramma o a una commedia, al teatro o al cinema? Nelle celebri righe della Poetica, Aristotele scriveva: «La mimesi (mimeisthai) è congenita fin dall’infanzia all’uomo, che si differenzia dagli altri animali proprio perché è il più portato alla mimesi, e attraverso l’imitazione si procura le prime conoscenze; dalla mimesi tutti ricavano piacere».[15] La mimesi come strumento di conoscenza e come piacere insieme. È un piacere ludico, che nasce nell’infanzia (del resto in diverse lingue giocare e recitare si dicono con una stessa parola) ma che nasce da un processo articolato e complesso. Lo spettacolo, teatrale o filmico, imita esternamente la vita, “mette in scena” un universo che non è reale ma lo sembra. Ha sul palcoscenico l’evidenza fisica di persone come noi che agiscono mentre le guardiamo, che esibiscono gioia e sofferenza, ira e desiderio, in uno spazio che continua il nostro e insieme ne è separato. Ha sullo schermo la potenza e l’evidenza, magica e tecnologica insieme, del “doppio”, che riproduce il reale fino ad apparirgli identico, come fa il cinema secondo l’intuizione ancora di Morin, e insieme crea un universo fantasmatico, di ombre, sempre come fa il cinema. Ma riflettiamoci attentamente: la mimesis di cui stiamo parlando non è una sola. È duplice: al primo processo imitativo, esteriore nel teatro e meccanico nel cinema, se ne affianca un altro, interiore, per forza del quale lo spettatore copia dentro di sé (se l’azione emotiva dello spettacolo riesce) l’universo affettivo che vede in scena. È facendo appunto riferimento a questa doppia mimesis che possiamo definire il processo di cui stiamo parlando, che possiamo mettere in luce la dinamica alla base del fenomeno chiamato “identificazione” con un termine suggestivo ma troppo spesso usato in modo vago e solo apparentemente intuitivo.
Anche questa duplice imitazione è fondata su una sorta di divisione del lavoro,[16] sebbene diversa da quella in atto negli spettacoli sportivi lucidamente. Per comprenderla vale la pena di tornare al Paradosso sull’attore di Denis Diderot: da un lato l’attore che «si è agitato senza sentire niente», come il Carlini del passo di Emerson che ho posto in epigrafe, dall’altro lo spettatore che «ha sentito senza muover[si]». Nel teatro sono all’opera, continua Diderot, «sensibilità diverse che si concertano tra loro per ottenere il più grande effetto possibile, che si sintonizzano, che si indeboliscono, si rafforzano, si sfumano per formare un tutto unico»:[17] dove colpisce da un lato l’insistere sulla concertazione e sulla sintonizzazione, sul lavoro mirante a creare una simultaneità tra lo spettatore e lo spettacolo, dall’altro la ricerca di un “tutto unico”, che dovrebbe probabilmente essere definito piuttosto come un effetto unitario, risultante dalla tensione tra i due poli separati e complementari, del pubblico e della scena. Se per quanto riguarda il teatro le tesi del pensatore francese sono state e sono tuttora oggetto di discussione, è indubbio comunque che valgano per le ombre che si agitano negli schermi cinematografici e televisivi, che “non sentono nulla” per definizione, ma a fabbricare le quali ha contribuito la “sensibilità” di professionisti il cui compito primario è proprio concertarsi e sintonizzarsi con le emozioni del pubblico.
 
 
4. Il dopo e il prima
 
Fin qui ho parlato, sommariamente, delle emozioni che prova lo spettatore mentre assiste allo spettacolo: queste sono in effetti l’oggetto generalmente studiato dalle teorie del teatro e del cinema. Ma la durata emotiva dell’esperienza, nell’interiorità degli spettatori come nei loro scambi relazionali, non si esaurisce nel tempo spesso breve in cui assistono allo spettacolo. Esiste un “dopo”, che comprende il momento della fine[18] e l’allontanamento dal luogo dove ha sede lo spettacolo, e poi ci sono risonanze e ricordi spesso difficili da rintracciare dentro l’interiorità dei singoli, ma che sono anche alla base di attività sociali. Parlo dei commenti, e anche dei racconti, con i quali chi ha seguito uno spettacolo prolunga la sua esperienza oltre a condividerla. Soffermiamoci un momento sui commenti: per limitarci a un solo mezzo, il cinema, vale la pena di ricordare che l’esperienza spettatoriale dell’andare a vedere un film in compagnia, ma di seguirlo poi individualmente, trova alla fine dello spettacolo un momento di congiunzione (e in fondo, un senso) appunto nel discutere insieme quello che si è visto, e nello scambiarsi non solo valutazioni ma anche le emozioni, a partire dal ricordarsi a vicenda i momenti e le sequenze che più hanno colpito. È qui che la contraddizione tra la socialità dello spettacolo e la solitudine dello spettatore trova, se non una soluzione, un parziale rimedio. E ora veniamo ai racconti: «vedendo un film, magari, mi sono trovata nei panni di un personaggio; ho voglia di raccontarlo per ritrovarmi in quel personaggio». La testimonianza, che raccolsi molti anni fa, di una (allora) studentessa[19] sottolinea che non solo l’emozione connessa al film perdura, ma può esistere un consapevole desiderio di farla perdurare: di usare un mezzo diverso, la parola, per ritrovar[si] in [un] personaggio. «Il bisogno di raccontare», commentavo ancora in quell’articolo, «è complementare all’esperienza del film come a quella del sogno: da un lato, per dare un senso a quello che altrimenti rischia di essere un puro accumulo di sensazioni-emozioni, dall’altro, e forse soprattutto, per distanziarsene, ‘rivivere’, ma anche elaborare e poter più serenamente accantonare». Solo che, rifletteva quella giovane donna, «anche se mi piace tanto raccontare ai miei amici i film che ho visto, ho deciso di smettere, di non raccontarli più. Mi sono accorta che li annoio; mi sono accorta che mi annoiano, se sono loro a raccontarmeli». L’esperienza dello spettatore è difficile da trasmettere. Per chi il film non l’ha visto (ma le cose non cambiano molto se si tratta di un dramma o di una serie TV) il rischio è sempre l’ “emozione passiva” che può sommergere tutto: la noia.
Nell’epoca del web il prolungamento verbale (questa volta più spesso “scritto” che orale, ma di quel tipo di peculiare scrittura immediata e volatile che circola in rete) può insieme moltiplicarsi e assumere nuove regole. I commenti possono diventare oggetti di uno scambio anche tra sconosciuti, come avviene su You Tube, per cui guardare e commentare sono spesso parte letteralmente della stessa attività: commenti però che sembrano spesso non tanto destinati a prolungare e fare ulteriormente risuonare dentro di sé l’esperienza filmica (o musicale, il canale è lo stesso) quanto a far sentire la propria voce, e infatti i giudizi, positivi o negativi, assumono in molti casi toni perentori se non decisamente gridati, e più che il piacere di una visione o di un ascolto finiscono con il prolungare l’ego di chi li pronuncia. Ma si impongono anche nuove regole, a cominciare da quella che vieta il cosiddetto spoiling: per cui raccontare (i film, le serie come i romanzi) è vietato non tanto per il rischio dei annoiare ma per quello di togliere il piacere di seguire la storia. In un universo che di spettacolo è saturo le emozioni dello spettatore vanno più che mai tutelate.
Oltre a quelle che seguono, e prolungano, lo spettacolo possiamo parlare di esperienze affettive che lo precedono, che in qualche modo lo preparano? Qui entriamo in un campo più soggettivo ancora, e che resta generalmente nel regno del non detto. È vero però che il mondo delle emozioni è fatto anche di anticipazioni, di attese più o meno incerte e di desideri. Ed è vero che tra le emozioni dello spettatore la meno studiata, ma non per questo la meno importante, si colloca prima. È quell’impulso che spinge le persone a desiderare di dedicare tempo, denaro, energia (prima di tutto psichica) a storie che sanno immaginarie, come avviene a teatro o davanti a uno schermo. O a mondi separati dal proprio, e che almeno in teoria dovrebbero essere puramente ludici, come avviene con gli sport di massa.
 
Possiamo interpretare il desiderio di assistere a uno spettacolo come l’altra faccia di quell’emozione passiva che chiamiamo noia. Chiarisco rapidamente che cosa intendo con l’espressione emozione passiva. Giacomo Leopardi scriveva: «Se non fosse la tendenza imperiosa dell’uomo al piacere la noia, questa affezione tanto comune, tanto aborrita, e tanto frequente, non esisterebbe. E infatti per che motivo l’uomo dovrebbe sentirsi male, quando non ha male nessuno?».[20] Vero, ma forse è vero anche il contrario: che la noia sia “un’affezione tanto aborrita” perché contiene una sua forma di sofferenza, altrimenti non parleremmo appunto di affezione, e che per quanto possa sembrare paradossale questa sofferenza nasca non da una specifica esperienza ma, semplicemente, dal vuoto. Per questo parlo di “emozione passiva”: e alla noia si risponde cercando appunto e semplicemente di colmare il vuoto, di vivere altri sentimenti, piacevoli prima di tutto in quanto attivi; lo spettacolo risponde alla sofferenza derivante da una vita emotiva mancante o insufficiente con un’attività affettiva intensificata: artificialmente ma non per questo meno efficacemente, e non meno autenticamente.
Inoltre, nell’universo dello spettacolo, e in particolare in quello dello spettacolo industrializzato, le attese possono essere coltivate, in un’azione complementare tra la passione soggettiva dello spettatore e la costruzione sistematica dell’industria. Questo avviene con il divismo, che offre al pubblico la novità di storie diverse ma insieme la continuità della presenza fisica, e insieme simbolica, delle star, la cui presenza condiziona le attese dei fan. E meccanismi in parte analoghi sono all’opera per gli sport spettacolari e i loro tifosi, che amano i loro campioni in modi solo in parte diversi da quelli che agiscono nel divismo cinematografico. Diversa ma non meno efficace è la logica alla base del sistema dei generi, secondo la regola enunciata con la massima limpidezza oltre settant’anni fa da Robert Warshow: «Si va a vedere ogni singolo esempio della formula con aspettative molto precise, e l’originalità è bene accolta solo nella misura in cui è capace di rafforzare l’esperienza attesa, senza introdurre alterazioni di fondo».[21] Divismo e generi anticipano le singole esperienze spettatoriali, spingono il pubblico a cercare nuovi spettacoli in un difficile s sempre rinnovato equilibrio tra il nuovo e il sempre uguale, e finiscono con il dar vita un mondo parallelo dal quale si può uscire e rientrare passando da un film all’altro, e a maggior ragione da una puntata all’altra. Tutte le storie a puntate, letterarie, televisive o a fumetti distendono per così dire nel tempo alcuni dei loro nuclei affettivi, e la forza di un personaggio sta in un processo identificativo che si rafforza con il consumo di storie diverse, nella “maschera” che si è costruita con il tempo.
Ma le continuità di interpreti e di generi non sono i soli meccanismi che favoriscono l’attrazione e l’attesa nei confronti dei uno spettacolo. Se posso offrire un ricordo personale, durante l’infanzia mi è capitato più volte, nell’attesa dell’inizio di un film, di sperimentare un vero e proprio brivido, una sensazione intensa e in parte incontrollabile, di eccitazione e anche di leggera ansia, che includeva l’attesa di un piacere e insieme il timore dell’ignoto. Nel modo insieme elementare e denso di significato di molte esperienze infantili, quel brivido parlava della tensione profonda che può accompagnare il vivere lo spettacolo, e prima ancora il prepararsi a viverlo: tra l’eccitazione di un desiderio e il timore di una delusione, tra la promessa di uscire dalla noia e la minaccia di ricadervi. Delle emozioni dello spettatore, la più intima, la più difficile da riconoscere, e una delle più potenti.

 


[1] R. Waldo Emerson, The Comic, in The Complete Works, Vol. VIII, Letters and Social Aims, Boston, Houghton Mifflin, 1904. 
 
[2] Platone, Teeteto (Dialoghi filosofici, a cura di G. Cambiano, Torino, UTET, 1981). Uno dei fini del dialogo è evidenziare l’inaffidabilità delle sensazioni quali fondamenti della conoscenza, per cui si può pensare che l’insistenza di Socrate nel sottolinearne la mutevolezza e l’incertezza sia condizionata da una tesi preconcetta. Ma come spesso accade in Platone la verità delle sue asserzioni va al di là degli scopi stessi da cui il dialogo è mosso.
 
[3] Parlo delle emozioni di base che furono classificate da Paul Ekman negli anni Sessanta e che continuano a essere alla base di molte analisi delle emozioni, anche, ma non solo, nella popular psychology. La duratura fortuna di questo schema sta nell’idea che si possa ricondurre tutta la vita emotiva a poche nozioni elementari, “primarie”, e che tutto il resto sia effetto di combinazioni, quindi derivativo. Le sei emozioni “primarie” sono rabbia, paura, sorpresa, disgusto, gioia, tristezza.
 
[4] Si veda J.L. Tracy, R.W. Robins, J.P. Tangney, J.J. Campos (eds.), The Self-conscious Emotions. Theory and Research, New York, The Guilford Press, 2007.
 
[5] Grande Dizionario della Lingua Italiana, vol. V, p. 136. Il dizionario, pubblicato originariamente da UTET, Torino, in 21 volumi, è ora consultabile on line grazie all’Accademia della Crusca.
 
[6] La “storia delle emozioni”, le cui origini vengono spesso fatte risalire a un articolo di P.N. Stearns, C.Z. Stearns, Emotionology: Clarifying the History of Emotions and Emotional Standards, «American Historical Review», Oct. 1985, pp. 813-836. Ma le cui fondamenta erano state poste dalla storiografia francese, prima da alcune intuizioni di L. Febvre e poi dalle ricerche di P. Ariès sull’infanzia e sulla morte (ma anche sui sentimenti connessi) e dal lavoro di J. Delumeau sulla paura in Occidente apparso nel 1978, è cresciuta rapidamente, negli ultimi trent’anni, soprattutto negli Stati Uniti. Per una sintesi, sistematica anche se non priva di forzature, si veda B.H. Rosenwein, R. Cristiani, What Is the History of Emotions, Cambridge, Polity Press, 2017.
 
[7] L’articolo è apparso nel numero di novembre 1913 del mensile, pp. 69-77.
 
[8] Agostino, Confessioni, III, 2.
 
[9] E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, R. Cortina, 2016, p. 98. L’edizione originale del libro è del 1956.
 
[10] Agostino, Confessioni, VI, 8.
 
[11] Si veda P. Quintili, Rousseau et Diderot, ‘frères-amis” en musique, in Journée d’études. Rousseau, Diderot et la musique, Clarens, Publications de la Fédération Jean-Jacques Rousseau, 2012, (ebook).
 
[12] Alcuni dei primi, e già interessantissimi, dibattiti in materia si trovano in S. Alovisio, L’occhio sensibile. Cinema e scienze della mente nell’Italia del primo Novecento. Con una antologia di testi d’epoca, Torino, Kaplan, 2019.
 
[13] P. Ortoleva, Il secolo dei media, Milano, Il Saggiatore, 2009, cap. 10.
 
[14] R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Milano, Bompiani, 2000.
 
[15] Aristotele, Poetica, 1448 b.
 
[16] Riprendo qui i temi sviluppati in P. Ortoleva, Una specie di transfert. Spettacolo e spettatore, da un antico dibattito all’esperienza filmica e televisiva, in R. Fanciullacci, C. Vigna (a cura di), La vita spettacolare. Questioni di etica, Napoli, Orthotes, 2013, pp. 39-58. Rinvio a quel testo anche per alcune considerazioni sul dibattito, millenario e ripetitivo, sulla “falsità” e sulla presunta natura manipolatoria delle emozioni dello spettatore, da Tertulliano a Debord, che qui tralascio per ragioni di spazio.
 
[17] La traduzione è mia da Paradoxe sur le comédien, in Oeuvres complètes de Diderot, texte établi par J. Assézat et M. Tourneux, vol. VIII, Paris, 1875-77, pp. 361-423.
 
[18] Sulla conclusione dello spettacolo e le emozioni che l’accompagnano si sofferma una delle più antiche e note teorie sulle emozioni del pubblico, quella catarsi o purificazione di cui parla la Poetica di Aristotele e che è stata oggetto nei secoli di numerose (e spesso semplicistiche) interpretazioni. Ho scelto di non discutere il tema in questa sede perché trattarla adeguatamente richiederebbe un ampio spazio e non vorrei aggiungere alle altre l’ennesima lettura superficiale.
 
[19] È tratta, come alcune delle osservazioni che seguono, da P. Ortoleva, Raccontare i film, apparso in origine nel 1983 in «A qualcuno piace d’essai», rivista dell’Associazione torinese dei cinema d’essai, e parzialmente ripreso con lo stesso titolo da S. Alovisio in L. Barra, G.C. Galvagno (a cura di), Media-storie, Roma, Viella, 2020, pp. 9-15.
 
[20] G. Leopardi, Zibaldone, Milano, Mondadori, 2014, vol. V, pp. 143-144.
 
[21] R. Warshow, Il gangster come eroe tragico, in P. Ortoleva, Il gangster come eroe mitico. Rileggendo Robert Warshow, «Fata Morgana», 29, “Mito”, 2016, pp. 317- 340.

 


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Arte e spettacolo

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