Sull’uso politico dell’emozione: Humboldt, l’estetica, la politica

di Franco Farinelli

 

 

Ha spiegato Daniel Siegel (Siegel 2001, p. 123) che un’emozione è un fenomeno dinamico, creato all’interno dei processi cerebrali di valutazione dei significati, che risente direttamente delle influenze sociali. Vale sia dal punto di vista dell’ontogenesi, cui Siegel si riferisce, che della filogenesi: al punto che sarebbe del tutto legittimo scrivere una storia politica dell’emozione. In funzione della quale si ricostruiscono qui di seguito i lineamenti di fondo di un episodio esemplare (per grado di autocoscienza e rilevanza delle conseguenze), che riguarda le origini della società borghese europea tra Sette ed Ottocento, e più precisamente la “Prussia tra riforme e rivoluzione” di cui Reinhardt Koselleck ha ricostruito esemplarmente la vicenda.

Il concetto di paesaggio entra a far parte dell’analisi geografica per iniziativa di Alexander von Humboldt, il principale rappresentante, insieme con Carl Ritter, dell’Erdkunde, cioè della geografia storico-critica di marca protoborghese. Nel secondo volume della sua principale opera, il Cosmos, apparso a Berlino nel 1847 dunque alla vigilia dei moti che condurranno la borghesia al potere, Humboldt traccia la storia dei modelli che hanno governato la visione del mondo da parte dell’umanità. E tutta la ricostruzione ruota intorno al valore strategico rivestito dall’ opzione originaria che corrisponde, in termini cognitivi, al modello del paesaggio. Al riguardo Humboldt distingue tre stadi della conoscenza, tre tappe della relazione cognitiva dell’uomo con il proprio ambiente, che specificano non soltanto la storia della stirpe umana nel suo complesso ma anche la storia del singolo individuo. Il primo stadio è  quello dell’impressione (Eindruck) che sorge nell’animo umano come manifestazione originaria, come sentimento primigenio al cospetto della grandiosità e della bellezza della natura: appunto un’emozione, la cui forma si esprime nel concetto di paesaggio, corrisponde al mondo inteso come un’armonica totalità di tipo estetico-sentimentale cui ogni analisi razionale è (ancora) estranea, e che dunque riguarda soltanto la facoltà psichica del soggetto. Eindruck è parola composta, semplice soltanto in apparenza. Druck vale impressione, come quella dei caratteri tipografici sul foglio di carta bianco, si riferisce alla stessa analogia che, da Aristotele al libretto rosso di  Mao Tze Dong passando per tutto l’empirismo inglese del Settecento, accomuna  prima  l’anima e poi la mente (Hobbes 2001, p. 549; Locke 1985, p. 9) alla tabula rasa. Per Humboldt il termine investe la sensibilità del soggetto che guarda: la sua anima è il foglio su cui si stampano i caratteri che compongono i lineamenti paesistici. Uguale importanza riveste l’altra metà del termine, il prefisso Ein. Esso significa “uno”, ma in realtà ha una duplice funzione. Per un verso si riferisce alla singolarità, all’individualità del soggetto che guarda. Allo stesso tempo, esso segnala l’attitudine di questi ( il superbo attore razionale della società borghese colto nel suo stato nascente) a ridurre ad unità il cumulo delle impressioni emotive, in maniera tale che fin dall’inizio, e seppure soltanto sul piano estetico ed emozionale, l’ambito cognitivo si configuri come una totalità, come un tutto predisposto alla rivelazione “ dell’ordine nascosto sotto la pelle dei fenomeni”, come Humboldt amava ripetere.

Sarà compito dello stadio successivo, quello dell’Einsicht, vale a dire del vero e proprio esame, disarticolare l’originaria totalità emozionale e avviarne la traduzione in termini scientifici. Il prefisso del termine, in apparenza identico a quello che contrassegna il primo stadio, esprime in realtà un significato del tutto opposto al precedente. Sicht vuol dire qui “vista”, sguardo strettamente  riferito all’elaborazione riflessiva, al pensiero razionale. E l’unicità espressa dal prefisso non riguarda il soggetto ma l’oggetto, investe la concentrazione del pensiero su di un unico elemento tra quelli presenti, sotto forma di totalità, nell’emozione di partenza. Nello stadio intermedio, che è quello dell’analisi scientifica, non vi è più né paesaggio (sentimento, emozione, impressione estetica) né di conseguenza totalità, ma soltanto la fredda e razionale dissezione, la calcolata anatomia delle singole componenti. L’eclissi della totalità é però temporanea, riguarda soltanto il secondo, cioè l’intermedio, dei livelli di conoscenza. Essa viene compitamente ristabilita nel terzo e ultimo stadio, quello che Humboldt identifica con il concetto di Zusammenhang, appunto di totalità costituita dallo stare insieme (Zusammen) in un rapporto di mutua interdipendenza di tutti gli elementi analizzati. Si tratta della sintesi, del punto d’arrivo, del termine ultimo del procedimento conoscitivo, in cui, in virtù della mediazione costituita dall’esame analitico, al suo interno la totalità emozionale originaria viene trasformata e ripristinata, non più sul piano estetico e dell’impressione sentimentale ma su quello scientifico. In tal modo per Humboldt lo sviluppo di ogni conoscenza si configura come la traduzione in termini finalmente scientifici di un’impressione aurorale, quella prodotta dal paesaggio, che in quanto emotiva non ha nulla di scientifico: ma senza la quale, senza il cui impulso, tutta la scienza sarebbe impossibile (Humboldt 1845, pp. 4-6, 8-10, 17-20, 24, 61, 66-7). Nel linguaggio della scienza contemporanea lo Zusammenhang di Humboldt corrisponde alla complessità, alla complessità globale: meta finale, in termini cognitivi, di un processo fondato sulla trasformazione dell’uomo di gusto in osservatore della natura, secondo un movente politico che proprio dall’emozione paesaggistica traeva inizio.

Ancora all’indomani del congresso di Vienna (e l’esempio è soltanto uno tra i tanti possibili) Carl Gustav Carus (Carus 1985, p. 186), romanticamente, definiva il paesaggio «un determinato stato d’animo» riprodotto per mezzo di una «raffigurazione della corrispondente atmosfera nella vita della natura»: dunque un sentimento, anzi una relazione tra due distinte ma affini impressioni emozionali, quella nell’anima e quella sulla tela. La pittura era il suo mezzo, la vissuta esperienza della comunione con la vita della Terra (Erdlebenerlebnis: Brion 1988, p. 20) era la sua mira e il suo significato. Il suo ambito era «il regno dell’apparenza estetica» (Mehring 1957, pp. 164-68), il suo referente era la pubblica opinione, già intesa come l’organo della «riflessione comune e pubblica sui fondamenti dell’ordine sociale» (Habermas 1971, specie pp. 119, 125). L’intenzione di Humboldt era appunto quella di strappare il soggetto di tale riflessione dal proprio atteggiamento contemplativo per dotarlo invece di un sapere in grado di garantire la conoscenza e perciò la manipolazione del pianeta. L’emozione paesaggistica fu il veicolo di tale mutazione strutturale dell’atteggiamento borghese non verso il mondo ma piuttosto verso la sua gestione. Così il concetto di paesaggio definitivamente si mutò, per la prima volta, da concetto estetico in concetto scientifico, passò dal sapere pittorico e poetico (l’unico concesso ai borghesi dal dominio aristocratico) alla descrizione geognostica del mondo, si caricò di un significato del tutto inedito e rivoluzionario dal punto di vista della storia e della storia della conoscenza. Proprio il carattere estetico della cultura borghese imponeva, per la trasformazione del sapere artistico in scienza della natura, la mediazione della visione: perciò proprio il modello del paesaggio viene scelto e adoperato da Humboldt come il veicolo più adatto ad assicurare il transito dei protagonisti della dimensione pubblica letteraria verso il dominio della conoscenza scientifica politicamente orientata.

Sorprendentemente, proprio la nervosità di tale dichiarato progetto è finora del tutto sfuggita, anche ad un lettore attento e raffinato come Hans Blumenberg. Il quale arriva addirittura a trovare  commovente, perché ingenua, la discrepanza tra il testo e le illustrazioni relative al resoconto del grande viaggio alle regioni equinoziali (oggi si dice tropicali) dell’America compiuto da Humboldt alla fine del Settecento: mentre il testo salvaguarderebbe la “forza dell’impressione”, i disegni risulterebbero di una «toccante ingenuità giardinesca», e «ciò che più sorprende l’osservatore è come i due viaggiatori europei Humboldt e Bompland attraversino chiacchierando la foresta vergine diretti al pasto che un selvaggio ignudo sta apprestando con una scimmia alla griglia - in perfetta tenuta da boulevard con un cilindro in testa». L’ironia di  Blumenberg (Blumenberg 1984, p. 294) appare qui in ritardo, tanto in ritardo da rovesciarsi in franca incomprensione: essa investe l’effetto e non si accorge invece di quanta ironia sia intenzionalmente e programmaticamente già insita nella causa, crede di potersi applicare in maniera critica all’esito senza accorgersi dell’arguzia deliberatamente depositata nel movente, vale a dire nella strategia di cui le immagini di Humboldt sono specchio e insieme calcolato risultato. Ogni modello ha sempre qualcosa di sinistro (Canetti 1986, p. 225), perché rimanda sempre ad un metamodello la cui natura risulta invariabilmente polemica e ostile. E nel caso dell’ingresso del modello del paesaggio all’interno del discorso scientifico, che proprio con tali immagini avviene, il sinistro è appunto annidato nel modello del modello stesso: che è (e proprio di questo Blumenberg non s’avvede) esattamente e consapevolmente la forma particolare di emozione che corrisponde al Witz, alla battuta, al gioco di parole, al motto. E questo non soltanto perché Humboldt è un formidabile e brillante campione dell’aristocratica Salonkultur, di una cultura essenzialmente orale e anzi improntata alla Zungenfertigkeit, alla prontezza verbale della dimostrazione di spirito (Beck 1959, pp. 12-3). E nemmeno soltanto perché la prima cosa che Humboldt (Humboldt 1845, p. 4)  assicura al lettore di cui, ancor prima di Baudelaire comprende la pigrizia, è il “piacere (Genuss) della Natura”, il godimento. Ma prima, e più puntualmente ancora, per una serie di motivazioni d’ordine squisitamente tecnico, come si ricavano dalla «più importante opera di semantica» (Todorov 1977, p. 316) del primo Novecento: il saggio di Freud sul motto di spirito.

Come per Freud (Freud 1989, p. 29) ogni tecnica arguta, anche per Humboldt il concetto di paesaggio si fonda sul doppio senso, sull’ “impiego molteplice dello stesso materiale”, vale a dire su quel che Marx avrebbe chiamato il “doppio carattere” del termine: che in area germanica, nella specifica forma della Landschaft, almeno a partire dall’epoca moderna vale, informano i fratelli Grimm (Grimm 1885, coll. 131-2, a.v.) come contrada o tratto di paese e insieme come artistica rappresentazione figurativa della contrada stessa. E, allo stesso tempo, anche nella strategia humboldtiana imperniata sull’uso del concetto di paesaggio è «l’allusione il fattore che determina la complessità». Più precisamente si tratta di un caso esemplare di «doppio senso con allusione», ovvero di «condensazione senza sostituzione», cioè di un doppio senso che scaturisce da un unico termine: una stessa parola esprime due significati diversi, e uno di questi significati (il più usuale e frequente, vale a dire quello di natura estetica e letteraria) risulta prevalente, mentre il secondo (più remoto e da raggiungere: e si tratta dell’accezione oggettuale, materiale e  anzi scientifica di paesaggio) resta sullo sfondo. Anche in questo caso però «una parola suscettibile di varie interpretazioni» consente al lettore di «trovare il passaggio da un pensiero all’altro», poiché ( proprio come accade nelle frasi spiritose) ne risulta «un’impressione complessiva, nella quale non possiamo dissociare la parte svolta dal contenuto concettuale da quella del lavoro arguto» stesso. Come scrive Freud (Freud 1989, pp. 36, 37, 47, 84, 86, 89, 94): «Invero in ogni allusione si omette qualcosa, cioè i passaggi mentali che portano all’allusione»: ed è proprio in tale omissione, che riguarda l’intento dell’allusione stessa, che si nasconde la natura critica e interessata del modello, in questo caso appunto del paesaggio. Il quale è «un motto ostile» perché «al servizio dell’aggressione», e come ogni «motto tendenzioso», volto cioè alla «ribellione contro l’autorità» e alla «liberazione dall’oppressione», richiede la presenza di tre persone: chi dice il motto, il bersaglio, il destinatario. Vale a dire, nel nostro caso: Humboldt, il nobile che lavora per l’avvento al potere della borghesia; il dominio aristocratico-feudale, nella forma di ciò che Humboldt stesso (Humboldt 1845, pp. 17 e 18) chiama il suo «rozzo ammasso di dogmi fisici», la sua «rozza ed imperfetta empiria»; il rappresentante infine delle «più alte classi popolari», che sono anche le «classi colteı», perché «dotate di una distinta educazione letteraria». E come osservava, finemente, Cesare Segre (Segre 1990, p. 142): in realtà il Witz si costituisce sempre sulla base di una doppia aggressività, al cui interno la prima forma (quella che appunto, nel nostro caso, corrisponde alla semplice estensione semantica del concetto di paesaggio), ammantata di giuoco e apparentemente inoffensiva dal punto di vista sociale, serve di copertura all’altra. E qui “copertura” allude non soltanto all’aspetto enigmatico e obliquo dell’aggressione stessa, ma anche alla distrazione che il giuoco sulle forme può produrre rispetto all’aggressività diretta socialmente orientata. Così, a ben considerare, la forma complessiva del meccanismo arguto (il funzionamento originario del concetto geografico di paesaggio) riesce perfettamente analoga a quella che Reinhart Koselleck (Koselleck 1976, pp. 118-119, 194) ha chiamato, sul piano della storia politico-istituzionale, la strategia borghese della «presa indiretta del potere»: staccarsi dallo Stato assoluto come società civile, «in un primo tempo per sottrarsi alla sua influenza, ma in un secondo tempo per occupare lo Stato in modo apparentemente apolitico proprio sulla base di tale distacco». E anzi, poiché è proprio la società civile l’interlocutore di Humboldt, e il concetto di paesaggio funziona come momento (certo non secondario) della complessiva elaborazione della presa indiretta stessa, l’analogia risulta essere in realtà una vera e propria identità.

Dal punto di vista del congegno, l’impressione paesistica obbedisce così a puntino, nel suo  esercizio humboldtiano, a quella che Arthur Koestler (Koestler 1989, p. 35) ha chiamato la “logica del riso”, fondata sulla “bisociazione” di un evento mentale con due matrici abitualmente incompatibili, in maniera cioè che esso entri in “simultanea vibrazione” su due lunghezze d’onda. Non vi è però bisogno, a rigore, di scomodare l’intenzione di Humboldt (quella appunto che dell’ampiezza e della natura di tale bisociazione rende conto) per accorgersi che nemmeno in questo caso il paesaggio corrisponde ad oggetti ma, proprio come per i romantici, ad una modalità cognitiva: la sentimentale «impressione della Natura» (Natureindruck) che per la gnoseologia humboldtiana appunto rappresenta il grado iniziale del processo della conoscenza scientifica. E la “vibrazione” di cui Koestler parla è l’immediata traduzione, sul piano del procedimento cognitivo, di quello che sul piano figurativo è ormai d’uso chiamare, con espressione goethiana, la “nebulosa chiarezza”: la bruma che in lontananza avvolge le cose, e che appunto contrassegna la dipendenza della descrizione letteraria dai quadri di Lorrain e degli altri paesisti dell’epoca (Hard 1969).  Ma che anche, tornando per un momento ad Humboldt politico della conoscenza, è appunto metafora dell’intenzione progettuale, di ogni intenzione progettuale: sempre all’orizzonte ma mai raggiunta, e perciò indeterminata nelle sue meno prossime forme. Si chiedeva Wittgenstein (Wittgenstein 1971, p. 183), e la risposta ancora manca: «che cosa accade se le immagini cominciano ad oscillare?». Come dire: che cosa accade se si è costretti ad ammettere che anche la più salda delle rappresentazioni si fonda sull’impulso emotivo?

È quel che lo sviluppo della neurobiologia e delle scienze cognitive vanno sempre più affermando, concorrendo allo smantellamento delleredità cartesiana per cui il dato emozionale precederebbe, nella sua natura squisitamente soggettiva, ogni idea di cultura e di società. Una demolizione che continua, tra lambito fisico e psichico, lungo il tragitto inaugurato tra Sette e Ottocento, al confine tra quel che è scientifico e quel che è politico, dallimpresa pratica e teorica di Humboldt. Così per Antonio Damasio (Damasio 2000a, p. 145) se «l’emozione è un insieme di mutazioni in uno stato corporeo connesso a specifiche immagini mentali che hanno attivato un altrettanto specifico sistema cerebrale», il sentimento di un’emozione è «l’esperienza di tali cambiamenti nella misura in cui vengono giustapposti alle immagini mentali alle origini del ciclo». Anche per Humboldt il problema era la sostituzione dell’immagine aristocratico-feudale del mondo con quella borghese,  vale a dire il transito politico da una cultura all’altra. E tale sostituzione passa, per Humboldt, attraverso la nascita di una specifica forma di coscienza, che proprio dalla  emozione  paesaggistica nasce. Ancora per Damasio (Damasio 2000b, p. 206) la genesi della coscienza obbedisce al concorso di due meccanismi: la generazione della descrizione per immagini cerebrali della relazione tra organismo e oggetto e l’intensificazione dell’immagine dell’oggetto causativo, messo in posizione saliente in un contesto spazio-temporale. Di nuovo un processo che collima in ogni passaggio con le fasi del progetto humboldtiano, se soltanto alla società si sostituisce il singolo soggetto, e al corpo collettivo quello individuale. Per Humboldt la socialità è il prodotto dell’immersione in dinamiche originate, se non proprio regolate,  per via emotiva. Che è quanto riscopre ai giorni nostri Paul Dumouchel (Dumouchel 2008, pp. 26, 37, 52, 76, 83ss., 95, 99-100), per il quale non soltanto senza emozioni non vi sarebbe nessuna coordinazione intraspecifica tra gli agenti umani, ma lo stesso errore o la stessa verità circa le proprie emozioni resta un’attitudine affettiva, sebbene dotata di una certa struttura cognitiva. In altri termini: le emozioni sono costitutive delle relazioni sociale molto complesse caratteristiche della nostra specie, momenti salienti di un processo di coordinazione strategica ( che precede sia la cooperazione che la competizione) costitutivo degli stessi agenti che coordinano, nel senso che è proprio tale processo d’interazione che ci permette di agire. Insomma: le emozioni sono sociali perché richiedono l’apporto dell’altro, azioni di coordinazione che non possono essere compiute da chi li avvia. Il che spiega a dovere la personale storia di Humboldt, l’esito della sua parabola esistenziale e il suo finale scacco politico, e insieme illumina fino in fondo la natura di quella società civile, di quell’opinione pubblica cui si rivolgeva. Ma lascia aperto un problema: perché la storia della neurobiologia ricapitola e specifica la storia della cultura e della politica europea?

 

 

 

 

Riferimenti bibliografici

 

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