Plasticità, tracce e identità: ripensare la complessità dell’uomo neuronale

di Antonino Bondì

 
 
 
1. Che tu sia il tuo cervello! La forza sociale delle neuroscienze: breve ricognizione.
 
Nella storia delle neuroscienze, l’idea d’associare lo studio delle regole e dei processi del funzionamento cerebrale alla questione dell’identità soggettiva, è a lungo sembrata priva di interesse teorico. Fino agli anni ’60, l’ipotesi stessa di introdurre la nozione di soggetto all’interno dello studio del funzionamento cerebrale suonava come una boutade dal vago sapore dadaista; peggio ancora: come la proposta di uno scienziato pretenzioso da non prendere troppo sul serio. La neurobiologia, infatti, fino a quell’epoca si era occupata in maniera esclusiva di meccanica cerebrale, articolandosi sotto il profilo disciplinare in due grandi blocchi e direzioni di ricerca, correlati ma distinti: da un lato gli studi dedicati ai disturbi motori e sensoriali, con particolare attenzione alla visione, all’audizione, ecc.; d’altro lato, il lavoro d’analisi delle patologie cognitive, confluito nel campo della già allora consolidata psichiatria biologica.[1] Trattare il soggetto da un punto di vista neurobiologico, come ha osservato il sociologo e storico delle scienze Alain Ehrenberg,[2] era considerato un maldestro tentativo di costruire una «neurometafisica dell’organismo».[3] Tuttavia, nel giro di pochi anni, si è assistito a un’accelerazione nel campo delle neuroscienze cognitive, al punto che già nel corso degli anni ottanta, queste diventano discipline d’eccellenza nello studio dei rapporti fra mente e mondo, e in quello dei rapporti fra mente ed esperienza.
Per confermare questa ricostruzione storica, basterebbe dare un’occhiata a come è cambiata l’agenda scientifica, e all’importanza assunta da temi di ricerca quali la «neurobiologia del soggetto»,[4] il «self», o la «coscienza». Non è un caso se in anni recenti, autori come Pierre Magistretti e François Ansermet, rispettivamente un neuroscienziato e uno psicanalista, hanno insistito sulla profonda connessione fra la rivoluzione epistemologica prodotta dalle neuroscienze e la valorizzazione teorica del tema dell’«unicità del soggetto» e della sua imprevedibilità. Come vedremo fra poco – e ciò sarà l’oggetto di riflessione del presente contributo – in questa partita svolgerà un ruolo chiave il concetto di plasticità, e in particolare di plasticità neuronale; questa, scrivono Magistretti e Ansermet, «dà conto del soggetto, della sua scelta, della sua risposta, sempre singolare, imprevedibile».[5]
Torniamo però ancora un istante alla ricostruzione storico-sociologica di Ehrenberg. Secondo lo studioso,  nonostante tale evoluzione – tutta interna al paradigma neurocognitivo[6] – sarebbe possibile reperire una rappresentazione o un modello dell’essere umano ben preciso. Anzi: la storia stessa delle neuroscienze segnerebbe l’emergere di una antropologia filosofica alternativa e la formazione di un punto di vista inedito sul concetto di uomo (e di umanità). Questa pretesa «nuova antropologia» avrebbe inoltre l’obiettivo d’eliminare le ultime scorie ideologiche di un «racconto del sé» tipico dell’epoca moderna, la cui massima espressione sarebbe rappresentata dall’epistemologia post-strutturalista e relativista. L’ipotesi interpretativa di Ehrenberg si appoggia in maniera esplicita su quell’atteggiamento d’opposizione esplicita (o addirittura di malcelato disprezzo), che non pochi filosofi ed epistemologi d’orientamento neurocognitivo avrebbero esibito nei confronti delle scienze sociali (in particolare le teorie di provenienza strutturalista).[7]
Lo studioso aggiunge che le ragioni di questa lotta fra modelli antropologici alternativi non andrebbero rintracciate nel terreno dello scontro fra idee, ma ricondotto ad un più globale mutamento delle condizioni sociali e storiche, e alle sfide che questo mutamento comporta:
 
in un contesto globale in cui la sofferenza psichica e la salute mentale sono diventate fra le preoccupazioni maggiori delle nostre società, attraversando le imprese, le relazioni professionali, la disoccupazione, l’educazione, la famiglia e addirittura la salute fisica delle popolazioni, i problemi che sollevano le relazioni fra il cervello, la mente e la società non lasciano indifferente l’opinione pubblica. Ci sono in effetti alcune sfide decisive quanto il nostro benessere individuale e collettivo, come la presa in carico delle psicosi, il modo in cui dobbiamo educare e istruire i nostri figli, trattare una molteplicità di devianze e di atti di delinquenza, favorire le emozioni democratiche come l’empatia, e dunque la fiducia degli uni verso gli altri, e tanto altro ancora.[8]
 
Certo affascinante, la proposta di Ehrenberg rimane confinata in un quadro d’analisi strettamente sociologico e non consente di cogliere davvero la dirompente forza propulsiva che le neuroscienze hanno apportato alla riflessione contemporanea. La tesi del sociologo può essere riassunta così: l’antropologia che emerge dal quadro contemporaneo, e di cui le neuroscienze sarebbero uno dei controcanti epistemologici, è il riflesso di rappresentazioni culturali dell’uomo, inteso come individuo razionale autonomo. Si tratterebbe di una Weltanschaung che la neuroscienza avrebbe ereditato dalle teorie economiche di orientamento neoclassico, e fatto trasmigrare nell’immagine dell’uomo neuronale.
Non possiamo, in questo contributo, esaminare nel merito questo genere di interpretazioni. Ci interessa mettere a fuoco, a partire dal paragrafo seguente, le concezioni dell’umanità che trovano formulazione a partire dal dialogo fra campi disciplinari eterogenei, e che generano problemi nuovi connessi a sfide sociali inedite.
 
 
2. L’uomo neuronale: il problema del vivente e l’animale plastico.
 
Lo abbiamo appena ribadito: qui s’intende indagare, più modestamente, su alcuni concetti che dal territorio delle neuroscienze sono migrati nel cuore della riflessione puramente filosofica, contribuendo a rimettere in discussione alcune forme di dualismo ontologico: quello fra corpo e mente, fra comportamento biologico e comportamento simbolico, fra corporeità ed esperienza.
Da questo punto di vista, rispetto alle ricostruzioni di taglio prevalentemente storico e sociologico, è preferibile convocare la riflessione che sul tema ha proposto il filosofo Francis Wolff.[9] L’idea di Wolff è a prima vista semplice: ci sarebbe un rapporto di circolarità virtuosa fra il modo in cui l’essere umano rappresenta se stesso e la porzione di mondo che può effettivamente conoscere tramite i saperi positivi. Wolff rintraccia quattro figure dell’umanità: si tratta di quattro configurazioni concettuali che definiscono alcuni tratti ontologici dell’animale umano, di volta in volta valorizzati nel corso di diverse epoche.
Ciò che il filosofo chiama «l’animale politico», «l’uomo classico», «l’uomo strutturale» e quello «neuronale», definirebbero per così dire delle griglie concettuali a partire dalle quali si sono prodotte specifiche ontologie ed epistemologie. Non si tratta di figure culturali dai confini cronologici netti, né di rappresentazioni ideologiche corrispondenti a una forma di storia progressiva e lineare del concetto di umanità; parliamo piuttosto di orizzonti interpretativi che posizionano l’uomo nel quadro della molteplicità dei saperi e ne interrogano le implicazioni ontologiche, ma anche politiche, morali, estetiche, ecc.[10]
Così, per esempio, «l’animale politico» d’Aristotele occupa il proprio posto nel cosmo in quanto animale fra gli animali, definito dalla propria capacità ragionativa e da un’esistenza politica: questa posizione ne farebbe un essere pienamente naturale, descrivibile in termini monisti. Allo stesso modo, «l’uomo neuronale», tipico della nostra epoca, trova la propria collocazione ontologica all’interno della grande storia del vivente, la cui espressione epistemologica più avanzata è rappresentata dagli approcci naturalizzanti, anch’essi definibili in termini monisti. L’idea stessa di umanità non consisterebbe in una serie di rappresentazioni dell’essere umano che si superano l’un l’altra, ma in un insieme di soluzioni che possono combinarsi in modi eterogenei: per questa ragione ogni epoca riesce a interrogarlo in modo sempre diverso.[11]
Wolff pare cogliere in modo efficace il portato euristico e lo statuto filosofico di concetti che provengono dal campo delle neuroscienze. In effetti, al di là della storia delle idee, egli sottolinea come la comprensione di queste figure comporti un’interrogazione filosofica sulle conseguenze morali, politiche e sociali che l’armamentario concettuale di un’epoca produce e solleva. Se, per esempio, l’animale politico aristotelico viene concepito in quadro monista e naturalista, consentendo pertanto ad Aristotele di reputare ‘naturali’ pratiche sociali come lo schiavismo e la dominazione maschile, allo stesso modo, i problemi che genera l’epoca dell’uomo neuronale hanno a che vedere con il rapporto di manipolazione del vivente, di cui le biotecnologie sono una delle espressioni più clamorose e le cui implicazioni etiche e politiche rimangono ancora da esplorare.[12]
In questo contesto, diventano chiare le ragioni per cui osservare la dirompenza dei concetti provenienti dalla ricerca neuroscientifica, che secondo lo storico della filosofia Frédéric Worms, sarebbe dovuta alla centralità che ha assunto la nozione di «vivente» nella filosofia contemporanea.[13] Assisteremmo a una specie di riversamento di concetti provenienti dalle scienze del vivente all’interno del discorso propriamente filosofico; e ciò ad opera degli stessi scienziati! Una prova a sostegno di questa diagnosi sarebbe da rintracciare nella recente mole di libri pubblicati da scienziati – che un tempo avremmo chiamato duri –, i cui titoli risuonano come eminentemente filosofici.[14] Qualche malizioso storico della scienza potrebbe tuttavia commentare che non di riversamento si tratta, ma di semplice ritorno all’alveo originario da parte dei concetti filosofici, dopo una permanenza più o meno lunga nei territori delle scienze empiriche o sperimentali.
Ironia della storia a parte, quel che conta è la necessità di comprendere – e Worms ha ragione – le sfide squisitamente filosofiche che le neuroscienze e le scienze naturali pongono nel contesto contemporaneo, analizzando l’emersione di un quadro problematico nuovo e di nuovi strumenti concettuali. Invece di parlare d’età dell’uomo neuronale, è allora più prudente sostenere che l’epoca attuale tende a ridefinire la nozione di umanità a partire dalla griglia interpretativa che forniscono le neuroscienze, e in particolare a partire dal ruolo che il cervello gioca nella definizione del vivente:
 
di fatto, si tratta di problemi nuovi, sia che la loro formulazione sia dovuta agli scienziati, sia che nasca da una loro riflessione su principi filosofici nel corso del loro lavoro, sia che la si debba ai filosofi in quanto tali. È questo il caso del cervello, o della «cerebralità», che in particolare Catherine Malabou ha mostrato quale radicale tipo di cambiamento comporti nella nostra rappresentazione dell’uomo e di noi stessi; e ciò attraverso la nozione di «plasticità».[15]
 
Il vivente che si identifica con il cervello: più che uno slogan, una trasformazione concettuale che segna l’irruzione delle neuroscienze in ogni campo del sapere tradizionale umanistico, fino al cuore della filosofia speculativa.[16] In questo quadro, la nozione di plasticità costituisce la vera innovazione concettuale che le neuroscienze consegnano alla definizione dell’uomo come animale neuronale, vale a dire plastico.
 
 
3. Fra processi universali e creazione di singolarità: meditazioni neuropsicanalitiche.
 
Cosa s’intende, dunque, per animale plastico? E, ancora più specificamente, cosa per plasticità? Perché questa sembra giocare un ruolo tanto importante nel ridisegnare la fisionomia del concetto di intelligenza umana (ma anche artificiale)? Come la plasticità reintegra nella visione dell’umano di cui è portatrice, la sensibilità, le emozioni corporee, così come più profondamente gli aspetti legati alla fragilità esistenziale dell’animale umano? Abbiamo prima richiamato un’osservazione generale di Ansermet e Magistretti: il concetto di plasticità neuronale consentirebbe di dare il giusto peso al soggetto umano in quanto sistema complesso.
In effetti, il concetto di soggettività è concepito come lo spazio biopsichico in cui ha luogo l’imprevedibile e in cui prendono forma le risposte immediate sulla base di scelte; grazie alla plasticità neuronale, il soggetto “unico” può essere visto come dotato di capacità di riparazione e di reazione rispetto alle pressioni indeterminate dell’ambiente e ai traumi che queste pressioni possono procurare o generare.[17]
Questa prima definizione, forse troppo irenica da un punto di vista antropologico, merita di essere approfondita. In effetti, si può in prima approssimazione concepire la plasticità neuronale come la capacità sinaptica di modificare l’efficacia del cervello per effetto dell’esperienza, o in altri termini, come la «capacità che ha il cervello di essere modificato dall’esperienza».[18] Quest’ultima lascia continuamente tracce nel reticolo neuronale e produce, nel corso del tempo, continue modifiche microstrutturali dei circuiti sinaptici. Da questo punto di vista, concludono i due studiosi, non è un abuso linguistico sostenere che «grazie ai meccanismi di plasticità, il soggetto si costruisce attraverso l’esperienza, aprendo la via all’emergenza della singolarità»;[19] anzi, «grazie ai meccanismi di plasticità, l’esperienza lascia una traccia che si presenta sotto forma di un insieme di sinapsi facilitate».[20]
 
Sotto il termine plasticità neuronale, allora, si fanno convergere l’insieme dei funzionamenti attualmente conosciuti, che sono implicati «nei processi cellulari e molecolari alla base della memoria».[21] Si tratta di un insieme di processi universali, di natura deterministica, che rappresentano una delle condizioni di possibilità per produrre l’unicità dell’esperienza singolare,[22] con il suo carico di metamorfosi permanente. Vengono al proposito in mente le osservazioni di Oliver Sacks, secondo il quale la neurobiologia attuale starebbe vivendo un’età della sottigliezza, che non solo consentirebbe di riformulare un nuovo quadro intellettuale anche per la psichiatria, ma permette di affermare che il condizionamento da parte dell’esperienza, delle interazioni e delle culture individuali, è costitutivo delle funzioni più elementari del cervello e della mente.[23]
Del resto, una delle idee di fondo della neurobiologia contemporanea è che una qualunque azione del soggetto, di natura percettiva o esperienziale, produce nel cervello, e fa memorizzare nel corso del tempo, circuiti sinaptici sotto forma di tracce. Ciò comporta, secondo Catherine Malabou, il riconoscimento di un «legame essenziale» fra vita cerebrale ed esperienza soggettiva, che obbliga a ripensare profondamente la natura stessa dello psichismo: questo diventa impensabile «indipendentemente dal lavoro cerebrale che tesse la base biologica del nostro sé e determina così la possibilità elementare, originaria, di essere qualcuno».[24] Caso emblematico di questa relazione profonda fra vita cerebrale ed esperienza soggettiva sarebbe rappresentato dalle malattie mentali. Per sostenere il suo argomento, Malabou richiama una riflessione del neurobiologo Joseph Le Doux, per il quale:
 
Le malattie mentali sono ora largamente riconosciute come «disturbi del cervello» (…) indipendentemente da ciò che si può pensare dell’orientamento biologico della psichiatria attuale, occorre riconoscere due elementi. L’essenza di ciò che siamo, è codificato nel nostro cervello, e i cambiamenti che vi si producono rendono conto dei cambiamenti del pensiero, dell’umore e del comportamento che sopraggiungono con le malattie mentali. La questione fondamentale non consiste nel sapere se queste malattie mentali sono realmente d’essenza neuronale, quanto piuttosto nel conoscere la natura di questi cambiamenti che sono all’origine dei problemi mentali, e in quale maniera il trattamento deve agire.[25]
 
Nel caso del trattamento delle malattie mentali e delle discipline che se ne fanno carico (vale a dire neuroscienze, psichiatria e neuropsicoanalisi), non si tratta di assegnare ai disturbi mentali delle cause neurofisiologiche o funzionali, come indurrebbe a credere un orientamento riduzionista, ma di «studiare i processi cerebrali che sottendono le attività mentali, in particolare gli affetti, per vedere come ‘cervello e mondo interiore’ sono intimamente connessi».[26] È in questo circuito relazionale e dinamico fra cervello e mondo interiore che si può misurare il risultato della nozione forse più interessante dal punto di vista filosofico, vale a dire il concetto di traccia (intesa come luogo di giunzione della vita neuronale e della vita psichica).
La questione dell’attivazione di tracce sinaptiche nel cervello in relazione all’esperienza percettiva e pratica, sarebbe all’origine di quello che Ansermet e Magistretti chiamano il paradosso felice che ci restituisce la visione dell’umano propria delle neuroscienze. In che consiste tale paradosso? Il concetto di traccia (psichica e mnestica) dà conto dei fenomeni e dei processi di plasticità, vale a dire di quei processi che consentono riscrittura, rimodellamento, riparazione e creazione di realtà interiori legate a stati somatici, ma anche a rappresentazioni, nonché a risposte motorie, comportamentali, emotive e più largamente linguistico-culturali. Ora, tale affermazione comporta un paradosso che riguarda il rapporto fra traccia e plasticità: da un lato la traccia, in quanto iscrizione cerebrale, è un processo neurofisiologico di natura determinista, «in cui tutto si iscrive, tutto si conserva, implicando unidea di continuità»; daltro lato, «i meccanismi della plasticità introducono a una discontinuità in cui tutto può sempre trasformarsi».[27]
Proviamo a seguire nel dettaglio l’argomento di Ansermet e Magistretti, evitando di attardarci su elementi tecnici, per i quali si rimanda alla letteratura di riferimento.[28] Punto di partenza è il legame diretto fra esperienza (motoria, percettiva, pratica) e la traccia memorizzata degli insiemi di circuiti sinaptici facilitati. Se la plasticità neuronale costituisce l’insieme dei meccanismi che consentono al soggetto di re-iscrivere costantemente esperienze diverse, rimaneggiando peraltro le tracce mnestiche e neurali precedentemente accumulate, si pongono allora almeno due domande a proposito della riattivazione dei circuiti sinaptici. Una prima questione riguarda la produzione di immagini mentali;[29] la seconda, invece, fa riferimento al problema della frontiera fra somatico e psichico. In altri termini, ci si interroga su come il concetto di plasticità consenta di ripensare la pulsione. Vediamo.
Nella letteratura psicoanalitica, da Freud in poi, la nozione di pulsione è definita come un vero e proprio concetto-limite alla frontiera fra somatico e psichico: essa comprende le associazioni possibili fra stati somatici e rappresentazioni. L’attivazione di rappresentazioni psichiche ha luogo attraverso impulsi provenienti da stimoli esterni, che generano o inducono una qualche forma di stato somatico che gli è associato. L’associazione fra stato somatico e rappresentazione produce a sua volta una particolare tensione che culmina in una spinta omeostatica: tale spinta – che si identifica con la pulsione – tende a riequilibrare il sistema che presiede ai nostri comportamenti e alle scelte. La pulsione, allora, emerge da questa tensione fra stato somatico e rappresentazione, in quanto «determinazione inconscia a effettuare una certa azione»;[30] così facendo, la spinta pulsionale «sfocia nella scarica, dunque nel piacere, perché la pulsione attiva un sistema endogeno di ricompensa».[31] I meccanismi di plasticità rappresentano in questa prospettiva tutti quei processi grazie ai quali si costituiscono le realtà interiori del soggetto, tanto consce che inconsce, associate a stati somatici.
Il punto rilevante consiste nel tipo di azione specifica della pulsione, che si trova a parassitare l’azione percettiva o motoria del soggetto e che, in questo modo, lascia una serie di tracce che definiscono l’intera vita psichica:
 
l’attivazione della spinta omeostatica, o pulsione, potrà venire a parassitare la risposta del soggetto e così modularne l’atto. Questa modulazione potrà essere negativa, addirittura distruttrice, quanto positiva e creatrice (…). La realtà inconscia, costituita dalle rappresentazioni associate a marcatori somatici, è parte integrante della vita psichica del soggetto. Il modello che proponiamo implica un soggetto costituito da una realtà interna cosciente, o che richiama la coscienza, e una realtà interna inconscia: le due sono costituite a partire da tracce associate a marcatori che riflettono gli stati somatici che vi sono legati grazie all’esperienza.[32]
 
Uno degli intenti di Magistretti e Ansermet è di mostrare che, malgrado le differenze, neuroscienze e psicanalisi trovano alcuni punti di convergenza: entrambe, per qualificare il ruolo e lo statuto della plasticità cerebrale, tematizzano – seppur in modo diverso – la nozione di traccia.[33] Questa svolgerebbe una funzione di regolazione omeostatica della natura eccessiva del vivere, vale a dire di quell’insieme di sollecitazioni incontrollabili e imprevedibili che animano le spinte pulsionali del soggetto. Tanto nella psicanalisi freudiana che nella neurobiologia, ritroviamo uno stesso modello dinamico: attraverso la sua azione nel mondo, il soggetto crea iscrizioni delle proprie azioni, in quanto egli stesso le percepisce; per questa ragione, stato somatico e traccia iscritta devono sviluppare un tipo di relazione.
In Progetto di una psicologia,[34] Freud analizza il caso, per lui paradigmatico, della soddisfazione quale esempio del rapporto fra traccia e stato somatico. L’animale umano, per definizione neotenico e incompleto, appena nato non riesce a scaricare l’eccitazione che lo abita, la trama pulsionale incontrollata dei propri stati somatici. La traccia psichica, allora, interviene tramite l’azione dell’altro per equilibrare un tale eccesso pulsionale dalle conseguenze potenzialmente distruttive — ed infatti può essere fonte di angoscia, errore, paura. A colmare questo stato di costitutiva angoscia proveniente dall’eccesso pulsionale, gioca un ruolo fondamentale l’azione specifica dell’altro – la madre o l’ambiente parentale primario – attraverso forme di risposta. Tale rispondere consente alle pulsioni di scaricare l’eccitazione in eccesso, e così passare da stati spiacevoli o angoscianti a stati di piacere (e viceversa). Riprendendo lo schema pulsionale freudiano, Ansermet e Magistretti sostengono che la traccia abbia una funzione omeostatica, trattando così quel che essi chiamano «l’eccesso del vivente».
Questo rapporto tensivo di salvezza parassitaria (o parassitismo salvifico) fra traccia e stati somatici, che consente di passare da stati d’angoscia a stati di piacere (e viceversa), è emblematico nel caso della relazione costitutiva fra linguaggio e vivente. Guardare al rapporto fra stati somatici e tracce rappresentazionali che il linguaggio mette in scena e contemporaneamente iscrive nel cervello, consentirebbe di rivedere l’idea di natura umana sotto una prospettiva diversa,[35] permettendo di ripensare anche alla natura stessa del linguaggio umano. Questo, infatti, non andrebbe più concepito come un ingrediente necessario ad alcune funzioni ritenute più o meno essenziali, come ad esempio le funzioni espressive, rappresentazionali e comunicative. Al contrario, il linguaggio andrebbe osservato da subito in quanto elemento fondamentale che svolge «una funzione di trattamento del vivente nel legame piacere/dispiacere».[36] In virtù di questa scelta epistemologica, il punto di vista neuropsicanalitico preferisce prendere uguali distanze tanto dalle prospettive innatiste in linguistica – di derivazione chomskiana – che da quelle culturaliste. Le prime, che fanno del linguaggio innanzitutto il risultato di una funzione cognitiva, vengono abbandonate in virtù di una critica alla loro premessa di fondo, vale a dire all’ipotesi di una esclusività originaria di tale funzione cognitiva. Anche le tendenze culturaliste, dominanti in scienze sociali, sono rifiutate in quanto pensano al linguaggio in termini di istituzione convenzionale da ascrivere al dominio del simbolico, laddove per simbolico ci si limiterebbe al campo delle sole esperienze culturali e codificabili. Lo scenario proposto da Ansermet e Magistretti è suggestivo e fa spazio alla pulsione come dimensione connaturata – e paradossale! – interna e al contempo esterna al linguaggio:
 
All’inizio è il grido: il grido del vivente è un grido fuori senso, fuori linguaggio. Questo viene trasformato in appello, in domanda, attraverso la risposta dell’altro che fa entrare il soggetto nel mondo del linguaggio che gli preesiste. Ne viene fuori un rapporto, complesso da pensare, fra il vivente e il linguaggio che possiamo definire come parassitismo: il linguaggio funziona, paradossalmente, come ciò che potremmo chiamare un parassita salvatore, attraverso l’associazione dello stato somatico a una traccia. Così il linguaggio parassita il vivente e, reciprocamente, il vivente parassita il linguaggio (…). Questo parassita salvatore che è il linguaggio porta con sé di colpo tutto ciò che caratterizza il linguaggio, vale a dire l’equivoco significante, l’errore, il malinteso, lo slittamento di senso, che s’introduce in questo modo nell’intersezione profonda fra la lingua e il vivente.[37]
 
Da un punto di vista teorico, questo genere di proposte consente di inaugurare una direzione di ricerca che muta in maniera considerevole le concezioni scientifiche sul linguaggio e la visione che è stata dominante fino ad anni recenti, anche all’interno della filosofia del linguaggio. In particolare, la storiografia delle idee linguistiche più recenti ha messo in rilievo come in molte teorie del linguaggio ha esercitato una profonda influenza un immaginario scientifico legato alla razionalità strumentale e all’ideologia della persona.[38] Di conseguenza, il linguaggio – in quanto dispositivo tecnologico creatore di legami socio-simbolici – è stato slegato dalla sua componente affettiva, salvo poi costruire ogni tipo di passerella (ora ermeneutica ora descrittiva) per ricucire ciò che era stato scisso, sulla base di una presunta priorità ontologica del parlare come calcolare. La prospettiva neuropsicoanalitica,[39] invece, colloca al cuore del proprio dispositivo esplicativo e d’indagine l’universo affettivo (nelle sue tensioni) e la dimensione equivoca e slittante del linguaggio, giacché entrambe le dimensioni giocano il ruolo di reciproci parassiti salvatori, indissolubilmente legati.[40]
 
 
4. Le sfide della plasticità: verso una nuova ontologia delle forme?
 
Una tale mutazione, tuttavia, non si restringe al solo dominio delle rappresentazioni del linguaggio e delle relazioni che questo intrattiene con l’universo affettivo e corporeo. Si ha come l’impressione di essere di fronte a una mutazione che si potrebbe definire al contempo epistemologica ed antropologica. Dal punto di vista epistemologico, siamo nel paradosso felice prima esposto, a proposito del rapporto fra determinismo dei processi e singolarità unica e imprevedibile del soggetto e dei suoi atti. Su un tale paradosso, del resto, continuano a ragionare quegli approcci in scienze sociali e in scienze della cultura che adottano strumenti provenienti dalle teorie della complessità e dei sistemi dinamici non lineari, con l’obiettivo di coniugare la necessità analitica di descrizione delle forme culturali «emergenti» e i tessuti intensivi non globalmente formalizzabili.[41]
Lasciamo di nuovo la parola a Magistretti e Ansermet, che riassumono questa sfida epistemologica della plasticità in maniera esemplare:
 
la questione del determinismo deve essere rivisitata alla luce del fenomeno della plasticità, che obbliga a pensare al contempo determinismo e impredicibilità. Come pensare il fatto che contemporaneamente tutto si conserva e tutto può trasformarsi? Per abbordare questa contraddizione, bisogna introdurre la questione del tempo, vale a dire l’iscrizione diacronica delle tracce, che è ciò a cui introduce la plasticità. L’iscrizione diacronica coesiste così con la possibilità di nuove associazioni o riassociazioni sincroniche delle tracce, che produce in un istante del nuovo, del diverso. Si darebbe, in buona sostanza, del non-determinismo diacronico dovuto alla discontinuità che risulta dalla riassociazione sincronica delle tracce. La nozione di plasticità obbliga così a ripensare il rapporto fra diacronia e sincronia, fra struttura ed evento, dando accesso al cambiamento, alla discontinuità, e al cambiamento al di là di ciò che è iscritto così come al di là di una struttura data.[42]
 
C’è però un altro punto che rende più ampia questa sfida, superando il campo della riflessione epistemologica per spostarsi in territori diversi, come abbiamo visto a inizio del nostro viaggio. L’introduzione del tema della plasticità cerebrale, in effetti, ha profondamente trasformato la visione dell’umano, perché ha posto in maniera inedita le relazioni fra corporeità ed esperienza: a condizione di concepire la prima come  movimento/spostamento, vale a dire come l’insieme delle interazioni neurali con l’ambiente; e la seconda, l’esperienza, come ciò che si esprime in termini d’apprendimento, abitudini ed influssi ambientali.
Se inquadriamo sotto questa angolatura i rapporti fra filosofia e neuroscienza, il ruolo del concetto di plasticità diventa chiaro: il paradosso della coesistenza fra determinismo e imprevedibilità si lega a quella necessità di fare spazio, in forma nuova, al concetto di evento. Tutta la filosofia «cerebralista» di Malabou è dedicata a comprendere l’articolazione fra plasticità ed evento come luogo dell’imprevedibile e della risposta esistenziale a questo. Malabou sostiene che fare reale spazio concettuale all’evento vuol dire soppesare l’irruzione sulla scena del presente di ciò che è potenzialmente imprevedibile eppur accaduto.[43] Per questa ragione, parlare di plasticità cerebrale vuol dire riconsiderare alcune antinomie classiche della filosofia a proposito della rappresentazione dell’umano: ragione vs emozione, forma vs sostanza, automatismo vs autonomia, ripetizione meccanica vs azione libera. Da qui, l’importanza della plasticità come concetto-chiave della nostra epoca, con ricadute filosofiche ma anche antropologiche, etiche, politiche, ed estetiche. Scrive Malabou:
 
il concetto di plasticità comporta una dimensione tanto estetica (scultura, malleabilità), quanto etica (sollecitudine, cura, aiuto, riparazione, soccorso) e politica (responsabilità nel doppio movimento della ricezione e della donazione di forma). È dunque inevitabile che all’orizzonte delle descrizioni oggettive della plasticità cerebrale compaiano questioni che riguardano la vita sociale e l’essere-insieme. Facciamo precipitare la formulazione, riducendola a un’alternativa: la plasticità cerebrale permette di pensare, a titolo di modello, una moltitudine d’interazioni nelle quali i partner esercitano gli uni sugli altri degli effetti di trasformazione attraverso le esigenze di riconoscimento, di non-dominio e di libertà? O bisogna, al contrario, considerare che tra determinismo e polivalenza, la plasticità cerebrale costituisca la giustificazione biologica di un tipo d’organizzazione economica, politica e sociale in cui conta soltanto il risultato dell’azione in quanto tale, l’efficacia, l’adattabilità — una flessibilità dinanzi a ogni prova?[44]
 
Ironia della sorte, l’ultima di questo viaggio a tratti vagabondo: Malabou fa notare che la serie di domande sopra enunciate, che si fondano sulla naturalizzazione del senso che le scienze cognitive e le neuroscienze ci hanno consegnato, riprendono un tema tipico dell’acerrimo nemico strutturalista. In effetti, il concetto di plasticità si trova al cuore del pensiero di alcuni fra i più brillanti fenomenologi (Merleau-Ponty), strutturalisti (Lévi-Strauss) e post-strutturalisti (Deleuze). Malabou racconta come il concetto di plasticità nasca in questa temperie filosofica, per approfondire i legami segreti che esistono «fra unità formale e articolazione, pienezza di una forma e possibilità della sua dislocazione».[45] Per spiegare – in conclusione – la tensione fra distruzione e riparazione che sembra una delle cifre dell’emotional turn dominante oggi nelle scienze socio-antropologiche, nonché in quelle che studiano la nostra interazione cerebrale con il mondo: che poi, è pur sempre un passaggio attraverso la pelle.
 
 
 
 

[1] L. Colucci D’Amato, U. Di Porzio, Introduzione alla neurobiologia, Milano, Springer-Verlag, 2011.
 
[2] A. Ehrenberg, Se définir par son cerveau. La biologie de l’esprit comme forme de vie, «Esprit», 1, 2015, pp. 68-81.
 
[3] Ivi, p. 68.
 
[4] D. J. Siegel, La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, Milano, Cortina, 2013.
 
[5] P. Magistretti, F. Ansermet, Plasticité et homéostasie à l’interface entre neurosciences et psychanalyse, in Neurosciences et psychanalyse, a cura di P. Magistretti e F. Ansermet, Paris, Odile Jacob, 2010, p. 28. Per una presentazione al pubblico italiano del lavoro di Magistretti e Ansermet, rimandiamo a F. Ansermet, P. Magistretti, A ciascuno il suo cervello. Plasticità neurale e inconscio, Torino, Bollati Boringhieri, 2008.
 
[6] Per paradigma neurocognitivo, lo studioso si riferisce all’insieme di ricerche in ambito cognitivo a partire dalla rivoluzione cognitiva della psicologia negli anni 1950 fino, almeno, all’esplosione delle neuroscienze. Di recente ha esposto questa sua ricostruzione storico-epistemologica in A. Ehrenberg, La meccanica delle passioni. Cervello, comportamento, società, Torino, Einaudi, 2019.
 
[7] Si fa qui riferimento a una sorta di pretesa koyné anti-relativista che caratterizzerebbe, secondo Ehrenberg, la comunità dei neuroscienziati. Al lettore non nascondiamo che ci pare una caricatura quella che lo studioso presenta. Tuttavia, per un approfondimento di questo dibattito dal punto di vista dell’antropologia cognitiva, e dei rapporti fra scienze dell’uomo e neuroscienze, rimandiamo a G. Lenclud, L’universalisme ou le pari de la raison. Anthropologie, Histoire, Psychologie, Paris, Seuil, 2013; e a M. Bloch, L’anthropologie et le défi cognitif, Paris, Odile Jacob, 2013.
 
[8] A. Ehrenberg, La meccanica delle passioni, cit., p. 69. Corsivo nostro.
 
[9] F. Wolff, Notre humanité. D’Aristote aux neurosciences, Paris, Fayard, 2010.
 
[10] Ivi, pp. 40-45.
 
[11] Ivi, p. 221.
 
[12] Per approfondire, rimandiamo a M. De Carolis, La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Bollati Boringhieri, 2004; R. Marchesini, Post-Human: verso nuovi modelli di esistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2002.
 
[13] F. Worms, Le nouveau problème du vivant et la philosophie française contemporaine, «Cités», 4, 56, 2013, pp. 119-131.
 
[14] Worms prende a campione alcune pubblicazioni recenti di scienziati in diversi campi: dai Bailly e Longo in matematica fino a Prochiantz e Atlan in biologia ed embriogenesi, passando per l’epistemologia naturalista di J.C. Ameisen, dall’eloquente titolo La scultura del vivente.
 
[15] F. Worms, Le nouveau problème, cit., p. 121.
 
[16] Per una riflessione sul tema, rimandiamo a: J.-P. Dupuy, Le lien obscur entre les sciences cognitives et l’antihumanisme, «Cités», 4, 54, 2013, pp. 103-117; e anche Y. Ch. Zarka, Je pense, donc je suis un cerveau, «Cités», 4, 60, 2014, pp. 3-12.
 
[17] F. Ansermet, P. Magistretti, A ciascuno il suo cervello. Plasticità neurale e inconscio, cit., p. 12.
 
[18] F. Ansermet, P. Magistretti, Plasticité et homéostasie, cit. p. 17.
 
[19] Ibidem.
 
[20] Ibidem.
 
[21] F. Ansermet, P. Magistretti, Gli enigmi del piacere, Torino, Bollati Boringhieri, 2012, p. 112 (edizione elettronica).
 
[22] Usiamo l’espressione unicità dell’esperienza singolare in una accezione forte, vale a dire di un tipo di esperienza che è singolare per una specie che è potenzialmente simbolica e capace di comportamento intenzionale. Da questo punto di vista, è chiaro che la plasticità neuronale, che non è prerogativa umana, ne è comunque una delle condizioni di possibilità. Bisognerà e bisognerebbe interrogarsi – vasto programma che esula da questo articolo – se sia anche una condizione sufficiente di questo tipo di esperienza singolare intesa in senso pieno.
 
[23] O. Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Milano, Adelphi, 1986. Al proposito, cfr. anche A. Lurija, Un mondo perduto e ritrovato, Milano, Adelphi, 2015.
 
[24] C. Malabou, Trace psychique et trace synaptique parlent-elles la même langue, in Neurosciences et psychanalyse, cit., p. 53.
 
[25] J. Le Doux, Neurobiologie de la personnalité, Paris, Odile Jacob, 2003, p. 322.
 
[26] C. Malabou, Trace psychique et trace synaptique, cit., p. 54. Corsivo nostro.
 
[27] P. Magistretti, F. Ansermet, Plasticité et homéostasie, cit., p. 27.
 
[28] La letteratura scientifica e divulgativa sul tema è talmente vasta da rendere illusorio ogni tentativo di appiglio bibliografico. Rimandiamo agli studi ormai classici di Antonio Damasio, sulla teoria dei marcatori somatici e sul ruolo dell’emozione nella costruzione del sé: A. Damasio, L’Errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano, Adelphi, 1995; Emozione e coscienza, Milano, Adelphi, 2000; Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, Milano, Adelphi, 2003. Per una panoramica puntuale del quadro neurobiologico contemporaneo, nonché per una discussione epistemologica interna allo sviluppo delle neuroscienze da un punto di vista interno alla disciplina, rimandiamo a: F. Caruana, A. Borghi, Il cervello in azione, Bologna, Il Mulino, 2016; F. Caruana, M. Viola, Come funzionano le emozioni. Da Darwin alle neuroscienze, Bologna, Il Mulino, 2018.
 
[29] Argomento che qui non prenderemo qui in esame.
 
[30] F. Ansermet, P. Magistretti, Gli enigmi del piacere, cit., p. 96.
 
[31] Ivi, p. 85.
 
[32] F. Ansermet, P. Magistretti, Plasticité et homéostasie, cit. p. 21.
 
[33]  Non possiamo qui addentrarci in una disamina del concetto di traccia in psicanalisi. Come è noto, in una famosa lettera inviata da Freud a Fliess nel dicembre del 1896, il padre della psicanalisi la definì come il «segno della percezione». Sul concetto di traccia in Freud, cfr. J. Derrida, Freud et la scène de l’écriture, in L’écriture et la différence, Paris, Seuil, 1967, pp. 318-328. Cfr. anche J. Birman, Écriture et psychanalyse: Derrida lecteur de Freud, «Figure de la psychanalyse», 1, 15, 2007, pp. 201-218.
 
[34]  S. Freud, Progetto di una psicologia e altri scritti 1882-1899, Torino, Bollati Boringhieri, 2002.
 
[35] Il tema, che noi non possiamo trattare nel dettaglio, è stato affrontato ampiamente da: E. Laurent, Usage des neurosciences pour la psychanalyse, in Neurosciences et psychanalyse, cit., pp. 283-297.
 
[36] P. Magistretti, F. Ansermte, Plasticité et homéostasie, cit., p. 25.
 
[37] Ivi, pp. 24-25. I corsivi sono nostri.
 
[38] Per questo legame fra teoria del linguaggio e antropologia della persona che è presente nell’epistemologia delle teorie del linguaggio e anche nelle teorie della cognizione distribuita, mi permetto di rimandare a A. Bondì, Pour une anthropologie sémiotique et phénoménologique. Le sujet de la parole entre cognition sociale et valeurs sémiolinguistiques, «Intellectica», 63, 2015, pp. 125-149. Cfr. inoltre T. Ingold, Marcher avec les dragons, Bruxelles, Zones Sensibles, 2013. 
 
[39] Nel quadro di questo articolo non possiamo che limitarci a tratteggiare la direzione di ricerca che l’orientamento neuropsicoanalitico suggerisce, rimandando a nuove ricerche per un approfondimento del modello dei parassiti salvatori.
 
[40] Si tratta di un dispositivo in cui la dimensione affettiva presenta una tensione dinamica fra piacere e dispiacere: il lettore più smaliziato potrà riconoscere il clin d’oeil ad un adagio aristotelico dell’Etica Nicomachea. Sul rapporto fra linguaggio e dimensione sensibile dell’esperienza, cfr. F. Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio, Roma-Bari, Laterza, 2003.
 
[41] Per una riflessione su complessità, formalizzazione e antropologia semiotica, ci permettiamo di rimandare a: A. Bondì, V. De Luca, Formas y compljidad cultural: notas epistemólogicas para una antropología semiótica, «Topicos del Seminario. Revista de Semiótica», 43, 1, 2020, pp. 35-63.
 
[42] P. Magistretti, F. Ansermet, Plasticité et homéostasie, cit., p. 27. Corsivo nostro. 
 
[43] C. Malabou, Ontologie de l’accident. Essai sur la plasticité destructrice, Paris, Léo Scheer, 2009, pp. 7-15, (tr. it., Ontologia dell’accidente. Saggio sulla plasticità distruttrice, Milano, Mimesis, 2019).
 
[44] C. Malabou, Que faire de notre cerveau. Le temps d’une question, Paris, Bayard, 2004.
 
[45] Id., La plasticité au soir de l’écriture: dialectique, destruction, déconstruction, Paris, Leo Scheer, 2006.
 


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FILOSOFIA , NEUROSCIENZE , UOMO NEURONALE


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Filosofia

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