Emozioni come costruzioni morali del discorso

di Saverio Bafaro

 
 
 
Una espressione di una emozione diviene un’affermazione (spesso implicita)
sulla maniera in cui le cose sono o, più significativamente,
il modo in cui dovrebbero essere.
(F. G. Bailey, 1983)
 
Il fondamento della moralità non è nella conoscenza (di ciò che bisogna o non
bisogna fare, dei principi a cui attenersi interagendo con gli altri),
ma nei sentimenti, in una intrinseca motivazione ad aiutare gli altri
e ad evitare di danneggiarli, la quale nasce dalla partecipazione
emotiva alla loro condizione (empatia), dal gioire o soffrire
per le loro gioie o per i loro dolori.
(M. Hoffman)[1]
 
 
1. Introduzione
 
Il concetto di ‘emozione’ necessita di un’analisi attenta e aggiornata sia per via della grandissima centralità che riveste nella vicenda umana che per un insieme molto vasto di risvolti pratici.  
Su un piano generale, grande presenza ha rivestito il dibattito circa il comportamento emotivo, in forte fermento abbiamo assistito alla diatriba tra i fattori socialmente determinati e appresi e la controparte innata dell’agire emotivo. Watson (1930) notava come l’emozione è un sistema reattivo ereditario che produce cambiamenti nel corpo, specie nei sistemi viscerali e ghiandolari. Damasio (Damasio 2000) ha ulteriormente chiarito la fondamentale distinzione tra emozione[2] e sentimento:[3] Gli studi di Paul Ekman (Ekman 1971) sulle display rules dimostrano la compresenza, insieme alle emozioni universali e primarie,[4] di un insieme articolato e complesso di regole sociali in base alle quali vengono esibite le emozioni, regole culturalmente apprese che determinano il controllo e la modificazione delle espressioni emotive a seconda della circostanza.
La questione centrale dell’aspetto storico ed ecologico della manifestazione delle emozioni necessita una crescente garanzia se si vuole procedere in una più aderente descrizione ed analisi del fenomeno emotivo. Le ragioni sono facilmente intuibili: i contesti storico-culturali rappresentano la “matrice produttiva” dei discorsi a tema emotivo e, di conseguenza,  l’ambiente più appropriato per il loro studio. La messa in figura del contesto e della contestualità dell’espressione discorsiva ruotante attorno al tema emotivo fornisce, altresì, un ancoraggio circoscrivibile, “naturale” e spontaneo, luogo di elezione, proprio per queste sue caratteristiche, dello studio delle emozioni e dei sentimenti espressi nel farsi del linguaggio e della comunicazione.
La prospettiva teorica e metodologica qui proposta si affida allo studio etnologico dei contesti, per far emergere la natura intrinsecamente qualitativa dell’espressività linguistica a sfondo emotivo opportunamente indagata con i metodi qualitativi della ricerca psicosociale, in primis l’Analisi delle Conversazione e l’Analisi del Discorso.[5]
 
 
2. La Scuola storico-culturale
 
Vygotskij e Luria riconoscono importanza centrale, per lo sviluppo mentale, alla dimensione culturale. I processi cerebrali si vanno formando risentendo dell’interazione continua dei processi sociali che li sostengono e stimolano. Il loro sviluppo prende forma «nel corso del lungo sviluppo storico, che siano sociali come origine e gerarchiche e complesse come strutture, e che siano tutte basate su un complesso sistema di metodi e mezzi» (Luria 1977, p. 35).
Delle molte funzioni psicologiche,[6] ne esiste una che ha un ruolo principe e si erge come suprema nell’interagire, supervisionare e, in un certo senso, “capitanare” le altre: essa è il linguaggio umano.
Le azioni possono essere sia di tipo “manipolativo” (uso “manuale” di oggetti del mondo esterno), che “mentali” (mondo interno con l’ausilio di strumenti esterni) (Luria 1977; Vygotskij 1966; 1974). Tra questi “utensili” culturalmente apparsi e formatisi il linguaggio si contraddistingue ulteriormente e si rende particolarmente importante per via della sua capacità di favorire la nascita, la formazione e il consolidamento di nuovi “nodi” neuropsicologici, ovvero di interconnessioni non solo tra aree cerebrali diverse, ma tra il cervello e l’ambiente,[7] dimostrando, così, come la socialità sia connaturata all’uomo sin dalla nascita e abbisogna di un ambiente nel quale poter agire, articolarsi, “trasformarsi” in maniera sempre più complessa.
 
 
3. La psicologia culturale di Bruner
 
Bruner parla di «acts of meaning», ovvero di “azioni”, quelle tipicamente umane, intermediate dal ruolo centrale del modellamento culturale nel processo della costruzione del “significato”. La ricerca del significato, all’interno della propria cultura di appartenenza, è la causa che muove e orienta l’agire umano (Bruner 1992). L’etnopsicologia si applica, nella sua attività di attribuzione di significato, attraverso il “comprendere” i sistemi di esperienze delle persone, il loro bagaglio di conoscenze, di credenze e desideri. Egli afferma come «il pensiero umano è essenzialmente di due tipi ‒ argomentativo il primo e narrativo, descrittivo e contemplativo il secondo».[8] Le intenzioni dell’uomo seguono percorsi più “musicali” e meno razionalistici in uno scambio in fieri tra mente e ambiente storico, tra sé e cultura «in un’incessante interazione di contrappunto»[9] dove poter costruire collaborativamente nuovi mondi possibili.
Oggetti di studio divengono quell’insieme di stati intenzionale degli “agenti” sociali responsabilmente e reciprocamente coinvolti nell’esprimere i loro atti pubblici consistenti, in gran parte, nelle attività dell’affermare un certo significato, del credere, del desiderare, del sentire, dello scegliere, dell’avere un certo impegno morale. Il significato è inscritto e rintracciabile nella trama (o fabula), ovvero nell’intera “sequenza” delle frasi di una narrazione (a prescindere dalla loro veridicità), e nel modo di raccontare che è anche un modo per giustificare[10] una particolare prospettiva. Va analizzato «il discorso in sé, identificando le parole rivelatrici, le espressioni che contraddistinguono un soggetto, le forme grammaticali del racconto» (Bruner 1992, p. 118)[11] . L’intreccio che si intesse e presenta all’interlocutore è formato non secondariamente dagli atteggiamenti “emotivi” che hanno permesso di costruirlo, si ricorda un evento, ad esempio, per giustificare retoricamente come mai si provava quel tipo di emozione.
Per Bruner «la storia viene prima del discorso, ma non è da esso indipendente. Astraiamo la storia dal discorso, ma una volta che la storia è stata estratta serve da modello per il discorso futuro».[12] E questo “modello” è un mezzo per render conto di particolari circostanze di vita, per esprimere un vuoto di tipo simbolico relativo al vissuto della persona in questione, come può essere una mancanza affettiva o una perdita.
Le nostre vite sono costantemente costruite e ricostruite autobiograficamente mediante l’incontro attivo, concreto e articolato con il mondo, e da questo incontro ottengono crescita e scambio, facendo emergere un senso di Sé[13] coordinato tra un’attenta “documentazione” dell’esperienza passata, presente e futura (Bruner 2001, 2003).
 
Il discorso possiede tre macrofunzioni che si possono influenzare reciprocamente: il discorso come scaffolding,[14] come negoziazione di significati, e come transfer di rappresentazioni culturali (Bruner, Haste 1987) che interrela il dominio “intrapersonale”,[15] “interpersonale”[16] e “sociostorico”[17] al fine di perseguire, tramite la condivisione dei concetti e delle pratiche, una forma di adattamento sociale in cui un ruolo di primo piano è giocato dalle intenzioni del linguaggio che direzionano e orientano il discorso verso un certo tipo di azione sul mondo.
 
 
4. La concettualizzazione dell’emozione come pratica sociale
 
Già Skinner (Skinner 1953) sosteneva che i nomi delle emozioni servono a classificare il comportamento in relazione alle varie circostanze che influenzano la sua probabilità di verificarsi, vedendo nell’emozione un “impulso” (drive) dotato di una sua complessità e non semplicemente una “mera risposta”.
Per Wittgenstein (Wittgenstein 1967) si possono chiamare con lo stesso nome molte cose diverse che hanno in comune una «somiglianza di famiglia». La rete di significati che viene tessuta dai vari usi di una parola è, di fatto, ciò che rende significativo il termine. Per “uso” non si intende solo l’occorrenza discorsiva di quell’espressione emotiva, ma anche la capacità di rievocare una situazione denotata da quella precisa parola, per considerarne un nucleo significativo di componenti che ricorrono insieme con frequenza e poter riconoscere, così, delle situazioni-tipo.[18]
L’emozione in quanto accadimento specifico e circoscritto in una precisa situazione occorrente differisce dallo “stato d’animo”, meno specifico, più legato all’umore (mood) caratterizzato da una particolare variazione nell’intensità dei sentimenti (es. malinconia o irritazione), più assimilabile a quello che Morris (Morris 1989) chiama frame of mind.
Ekman (Ekman 1984) scorge difficoltà a differenziare le emozioni a partire unicamente dal linguaggio,[19] e rilancia l’importanza delle distinzioni culturali e sociali delle parole per via del loro forte legame con il contesto linguistico.[20]
Il significato delle emozioni deriva dalla nostra esperienza quotidiana producendo una grande variabilità tra gli individui, tuttavia, sulla base dell’accordo linguistico intersoggettivo ci si può comprendere (Davitz 1969). Questo fa meglio intendere come i nomi delle emozioni si collochino, di fatti, nella classe del lessico soggettivo (Plutchik 1994) e lì vanno approfonditi.
Per Kovecses (Kovecses 1986; 1988; 1990) c’è comprensione delle emozioni attraverso il linguaggio a patto di considerare insieme sia le manifestazioni del vissuto cosciente che il linguaggio usato sotto forma di figure retoriche e frasi ricorrenti.[21]
 
Ortony (Ortony 1987; 1988) nota come il lessico affettivo contiene termini che si riferiscono direttamente alle emozioni o che si limitano ad alluderle e implicarle, e come il contesto linguistico (in cui questo secondo tipo di parole sono usate) modifica sostanzialmente la loro caratteristica.[22]
La felicità o la tristezza avvengono in presenza o perdita di un oggetto amato, la paura in presenza di un pericolo, la rabbia in presenza di un rivale, il disgusto in presenza di un cibo nocivo. Questi segnali vengono modulati dalle valutazioni cognitive, quando c’è consapevolezza delle emozioni, ma se il contenuto valutativo non raggiunge la coscienza, le emozioni possono essere provate senza ragione apparente (Johnson-Laird, Oatley 1988; D’Urso, Trentin 2001). Si possono distinguere parole che denotano: emozioni fondamentali,[23] emozioni che includono informazioni proposizionali sulle cause o sull’oggetto dell’emozione,[24] emozioni complesse derivate dalla valutazione di sé.[25] Tuttavia sussiste sempre una certa “opacità” tra esperienza emotiva e nome che si attribuisce, e questi due processi possono non coincidere. Etichettare le proprie o altrui emozioni è un procedimento articolato in cui, per quanto non legate da un rapporto arbitrario o accidentale, emozioni provate, concetti categorizzatori e referenti linguistici si influenzano e rimandano reciprocamente. La non corrispondenza tra vissuto emotivo di una persona (ciò che sente) ed etichetta linguistica (ciò che dice) rimanda alla complessità dell’esperienza emotiva, ne esprime solo una parte, ne accetta o nega alcuni aspetti.[26] L’etichettamento delle emozioni ha delle implicazioni morali, alcuni sentimenti possono rimandare a una disapprovazione sociale e comportare delle “sanzioni” (Frijda, Zammuner 1992).
Bamberg propone una via costruttivista nel delineare il ruolo del linguaggio nel mediare e concettualizzare le emozioni e la loro condivisione sociale. Il linguaggio non è “specchio” delle emozioni ma mezzo per contribuire a far capire le emozioni.[27] Egli crea una sorta di metateoria a partire dagli apporti di tre autori: Anna Wierzbicka, Rom Harré e Nancy Stein.
Per Wierzbicka (Wierzbicka 1995) ogni lingua adopera una classificazione su base semantica delle espressioni emotive, dei significati relativi alle etichette particolari che si è soliti operare per riferirsi alle emozioni.[28] Le espressioni facciali, dotate di una “base iconica” funzionale alla loro comprensione, rientrano in un dominio concettuale che governa il discorso, da investigare attraverso un «metalinguaggio semantico naturale» su base innatista, come equipaggiamento della specie umana. Esistono delle espressioni linguistiche universali, come la seguente gamma di espressioni verbali: pensare, volere, dire, sentire, sapere, bene, male che sono indipendenti dalla cultura di appartenenza dei parlanti ed esprimono dei significati condivisi da tutti. Le espressioni facciali (emotions), tuttavia, e qua si palesa la loro relazione con la cognizione umana, esprimono anche dei sentimenti (feelings) tanto che a un termine emotivo si lega uno scenario cognitivo in maniera tale da permettere di fare dei distinguo tra le emozioni stesse e di rinvenire a degli “universali”.
Per Harré bisogna concepire le emozioni come parte di interazioni per cui il focus diventa: «il modo in cui le persone usano le emozioni dal punto di vista del vocabolario, in cui commentano, descrivono e rimproverano le persone per le espressioni emotive e i sentimenti»,[29] così come vengono esposte le emozioni in quella situazione, cosa esse significano in quanto atti discorsivi. Le emozioni sono espressioni significative e intenzionali come giudizi morali o estetici che esprimono valutazioni in quella particolare situazione discorsiva. Un esempio di giudizio morale può essere fornito dalle espressioni di rabbia che esprimono il giudizio del parlante, secondo il quale l’azione di un’altra persona è una trasgressione contro colui che è visto e sentito arrabbiato (Harré, Gillet 1996). Oggetto della sua indagine è la modalità in cui viene costruito un mondo referenziale, all’interno delle relazioni contingenti tra parlante e ascoltatore. In questo senso ha poco significato chiedersi “cos’è la rabbia?”, bisogna, invece, domandarsi: “come viene usata la parola rabbia?”. Il linguaggio e la struttura valoriale di una società rappresentano le effettive determinanti delle esperienze emotive. Come viene usata discorsivamente l’emozione ci dice come si posiziona quella persona nel suo mondo e ci dà informazioni sul suo ambiente di appartenenza. L’analisi linguistica del lessico emotivo non può prescindere dall’ordinamento morale dentro il quale le espressioni prendono forma, significato, funzione sociale e regole. Le emozioni, come sintetizzerebbe Armon-Jones (Armon-Jones 1986) sono da considerarsi forme speciali di azione sociale costruite per interiorizzare credenze, regole, valori di cui sono un riflesso e un sostegno.
Per Stein le emozioni sono schematicamente organizzate, sono forze motivazionali per gli individui che le “sentono” e vi “reagiscono” in certi contesti. La conoscenza degli obiettivi, dei piani e delle conseguenze sono il prerequisito per produrre significati e poter riflettere sulle nostre stesse azioni e per «regolare e coordinare le relazioni tra le persone»;[30] rispetto a questo, il linguaggio si inserisce con la sua funzione rappresentazionale.
In termini più propriamente lessicali, un termine non mostra direttamente il suo significato, e un resoconto di un evento triste oppure felice non rivela direttamente cosa “tristezza” o “felicità” significhino. Quel significato, ancora una volta, è da ritrovare nell’uso.[31] I riferimenti alle emozioni[32] sono indicativi di come una persona vuole essere capita e «quei mondi degli attori e degli eventi all’interno dei quali viene fissato il riferimento alle emozioni, non è indipendente. Essi sono versioni prodotte nelle situazioni discorsive per scopi discorsivi».[33]
 
 
5. Il discorso a contenuto emotivo
 
Seguendo Edwards e Potter (Edwards, Potter 1992) nel discorso naturale, parlare di eventi e avvenimenti viene progettato in modi particolari «per fare inferenze sulla vita e sulla cognizione».[34]
La psicologia discorsiva dell’emozione affronta il come le persone parlano dell’emozione, se le attribuiscono a loro stesse o se le attribuiscono ad altri, e come le persone usano le categorie emotive quando parlano di altre cose.[35] Il discorso a contenuto emotivo è una parte molto rilevante delle descrizioni disposizionali e degli stati mentali, oltre che, evidentemente, delle narrazioni circa le attività umane. La proprietà di “giustificare narrando”, facendo resoconti ha una rilevanza pervasiva nella condotta umana e assume le forme di produzioni di storie, versioni di eventi, descrizioni di circostanze fisiche, stati mentali e disposizioni.[36] Il discorso sull’emozione è una possibilità di parlare dell’emozione rispetto a come viene concepita e definita dal parlante, e come viene formulata rispetto a emozioni alternative, a stati non-emozionali e alla condotta razionale. Il discorso a contenuto emotivo è, in effetti, ricco e vario, pieno di contrasti e alternative e particolarmente utile per fare descrizioni delle azioni umane e delle relazioni interpersonali. Esso permette di fare emergere scenari cognitivi, in quanto troviamo in essa delle spiegazioni basate sulle teorie che i parlanti hanno delle emozioni, rese coerenti all’interno di costruzioni conversazionali e narrative gestite retoricamente.
Parlare delle emozioni non include solo parlare dei termini relativi all’emozione stessa come ‘rabbia’, ‘sorpresa’, ‘paura’, ma si può trasformare nella creazione di metafore più complesse e in una gestione di un insieme di risorse discorsive guidate da operazioni cognitive più sofisticate e generali.[37]
La teoria cognitiva dello script, da distinguere dalla teoria discorsiva della script formulation di Edwards,[38] si riferisce alla conoscenza generale (prototipica) estratta dall’esperienza, relativa a “cosa fare” e “cosa aspettarsi” in situazioni-tipo come ‘andare al ristorante’, ‘andare al cinema’, ‘fare shopping’ (Nelson 1986; Schank, Abelson 1977; Shaver et al. 1987). Nella formulazione dello script gli eventi possono venir descritti in maniera schematica, come istanze di qualche modello generale, o come anomalie o eccezioni in funzione della dicibilità, interazione, narrazione e valutazione che inferenzialmente, e tramite le azioni ricorrenti, danno particolari sullo stato disposizionale degli attori, del loro carattere morale e della loro personalità.
 
 
6. Le emozioni come discorso morale
 
Sia la modalità di concettualizzazione che di manifestazione linguistica delle emozioni viene rispecchiata dai giudizi che le persone esprimono quando devono valutare il proprio stato emotivo, stimare la somiglianza dei termini affettivi, etichettare diverse situazioni emotive o espressioni facciali (Russell 1980; 1991). Esiste e sussiste, dunque, un “soggetto giudicante”, inserito nel suo mondo quotidiano di esperienze che usa una teoria implicita su come funzionano le emozioni.
Nel fare chiarezza su come le parole che si riferiscono alle emozioni e su come possono venire usate in maniera intellegibile, inscrivendosi in uno scenario che, seppur partendo da un legame dell’emozione (emotion) con il corpo, lo ridisegna come sentimento (feeling) più legato, cioè, a caratteristiche culturali (norme, aspettative e possibilità di farne resoconto) e morali, seguiamo White (White 1990): la retorica delle emozioni si inscrive nel discorso morale in maniera tale da disvelare quali possono essere le interpretazioni e le valutazioni degli eventi culturalmente contesi; se l’emozione viene trattata dai parlanti in maniera esplicita o implicita; se si tratta, rispetto al rapporto tra parlante ed emozione stessa, di una relazione vicina o lontana; se l’emozione viene inserita all’interno di una narrativa o meno; qual è il significato e l’effetto della situazione interattiva specie se avviene in un contesto ritualizzato e istituzionalizzato. Il discorso a tema emotivo non solo rappresenta ma crea la realtà sociale.
Da un punto di vista etnopsicologico, e quindi del significato ordinario, diventa particolarmente importante indagare il ruolo delle emozioni nel mediare l’azione sociale. Più in particolare i modelli di senso comune dei processi sociali assumono la forma di script che rappresentano le emozioni sopraggiungenti nelle situazioni sociali nella catena di ragionamento del tipo:
 
evento sociale (action) – emozione – risposta (response)
 
Nel concetto in lingua inglese ‘anger’ (rabbia) il modello culturale di senso comune di questa emozione segue tipicamente da una violazione morale che tende a infrangere il Sé, portando a un desiderio di punizione per cui il prototipo, in questo caso, si configurerebbe nel modo seguente:
 
‘trasgressione’[39] – ‘anger’ – punizione.[40]
 
Quest’ultima azione discorsiva implica una certa pericolosità in quanto si muove al confine di possibili sanzioni sociali, attribuzioni dell’evento alla sfortuna e così via. Anche se si tratta di una forma semplificata, svuotata dalle informazioni del contesto sociale che nelle varie occorrenze vanno adattate allo schema discorsivo con i contenuti emotivi contingenti del parlato-in-interazione, contestualizzando via via i significati emergenti e specifici, è importante in quanto fa emergere le inferenze che rendono il discorso sulle emozioni un’espressione basata sul ragionamento morale in termini, ad esempio, di desiderabilità o indesiderabilità, questo permette, a sua volta, di valutare e di creare la realtà sociale con notevoli implicazioni comportamentali e relazionali.
Per un’altra espressione emotiva, l’inglese ‘sad’ (triste) si astrae questo schema:
 
danno alle relazioni intime[41]– ‘sad’ – tentativo di riparazione/riconciliazione.[42]
 
Si tratta di una trasformazione o di un “districamento” retorico dell’emozione trattata nel discorso che spesso la si trova tra i narratori che cercano attenzione. Il danno alle relazioni intime o, comunque, percepite come significative da parte del parlante, si riferisce a un’azione che ha “ferito” il parlante, nel senso che ha creato una violazione dei ruoli. Ancora, tale danno richiede una distinzione tra vari tipi di trasgressione e la sua risposta ha implicazioni di vario tipo.
L’espressione inglese ‘shame’ (vergogna) produce, invece, lo schema:
 
antecedente sociale di un certo tipo – ‘shame’ – movimento di ritiro ed evitamento.
 
In ogni caso, l’espressione emotiva può essere orientata maggiormente verso un certo antecedente evento sociale o maggiormente verso la richiesta frequentemente “tra le righe” (deducibile discorsivamente) di quel tipo di risposta esplicitata verso quel tipo di evento, e indipendentemente da quale emozione o sentimento vengono trattati nel corso del discorso.
 
 
7. Implicazioni pratiche e applicazioni nei contesti sociali
 
Le considerazioni presentate fin qui posseggono una vasta gamma di possibili applicazioni pratiche in contesti sociali di varia natura e forniscono spunti per concertare una circolarità fruttuosa tra teorie e prassi concrete. Di seguito presento alcuni impieghi in ambiti specifici dell’interazione umana, con particolare attenzione al mondo professionale e agli utenti a cui le pratiche sono destinate e attorno ai quali si co-costruiscono le interazioni.
In ambito psicopedagogico si può considerare l’impiego degli albi illustrati in bambini della scuola dell’infanzia non ancora alfabetizzati alla lettura[43] (Bafaro, 2008). I bambini hanno fatto emergere la capacità di strutturare la narrazione per immagini sulla base della trama,[44] facendo emergere capacità di: mimare col corpo;[45] fare inferenze (ovvero attribuzioni di relazioni tra elementi) su: stati interni[46] caratteristiche,[47] intenzioni,[48] motivazioni[49] dei personaggi; empatizzare/immedesimarsi con loro;[50] arguire/indovinare relazioni parentali tra i personaggi;[51] utilizzare metafore e analogie creative a commento delle immagini;[52] conoscere lo schema della fiaba inventando formule linguistiche tipiche;[53] utilizzare un registro emotivo nel parlato congruo con il “clima” della narrazione (es. gioioso se il libro era ironico e divertente).
In un laboratorio sul tema delle emozioni per due preadolescenti con Disabilità Intellettiva Lieve (Bafaro 2011), in una produzione scritta, prima, e letta, poi, a partire dal tema “azioni che fanno rabbia” così viene verbalizzato: «Mi dà fastidio quando mi prendono in giro, mi comandano, mi fanno fare le cose, mi chiamano poco, non mi rispondono al cellulare, quando il ragazzo russo mi vuole menare e quando non riesco a farmi gli amici e riesco poco a dialogare». Il ‘quando’ inserisce la scena nel contesto scolastico in cui i compagni violano ripetutamente le aspettative e i bisogni del preadolescente. Nelle ultime due espressioni si tematizza la difficoltà e frustrazione nel non riuscire ad allacciare amicizie e a parlare con loro. In sequenze di interazione a interpretazione e commento di materiale fotografico che mostrava alcune emozioni umane si sono potuti esprimere discorsi per parlare delle emozioni, tali ragionamenti si configurano come una «attività sociale e un processo co-regolato»[54] in cui l’adulto e/o l’altro pari co-costruiscono attivamente le loro ipotesi, deduzioni e scenari, facendo emergere, insieme al ragionamento, indizi del ‘sentire’ (proprio e di altri), con immedesimazioni con la scena, immaginando “pensieri emotivi”[55] dentro il  ricordo di una situazione-tipo.[56] Di poco più in là, nella stessa conversazione, viene argomentata una teoria sofisticata sulle emozioni: la non corrispondenza tra il vissuto dello stato interno e privato e la manifestazione esterna e pubblica.[57]
    In ambito della comunicazione medico-paziente (Orletti, Fatigante 2013) avviene una continua negoziazione dei significati tra esperto (il medico) e colui/colei che esperisce i sintomi nel proprio corpo (il paziente). La conversazione naturale fa emergere istanze e bisogni degli assistiti più generali, non necessariamente pertinenti alla visita in corso. In una interazione tra ginecologo e gestante[58] la domanda iniziale della paziente (P) innesca dei consigli “aperti” da parte del dottore (D) che necessitano ulteriori approfondimenti sotto forma di domande al fine di tutelare la salute della donna che cerca non solo un parere esperto, ma anche una rassicurazione a una preoccupazione su una abitudine personale (la guida). La conversazione appare particolarmente co-negoziata: è il medico torna più volte con domande per indagare le intenzioni della donna di voler guidare, risolvendo con dei consigli basati sull’evidenza medica e sul buon senso della vita quotidiana.
In ambito della psicoterapia si può lavorare sulle metafore portate in seduta dai pazienti (es. «bollire per la rabbia»)[59] chiarendone il contesto e le modalità in cui si manifestano. Esiste un naturale script, chiamato “ciclo di contatto” (Ginger & Ginger 2004) applicabile non solo ai bisogni di base per meglio descriverli fenomenologicamente, ma anche alle emozioni stesse.[60] La sequenza sociale sottostante questo “schema automatico”, spesso negletta dalla coscienza e dal ricordo o resa non congrua con l’espressione corporea, può essere ricostruita nei suoi “pezzi mancanti”. L’esperienza emotiva, una volta “destrutturata”, riportata a quell’insieme di indizi corporei che la contraddistinguono, ridisegnata cognitivamente con il referente linguistico più adeguato e col significato più personale, verrà riconosciuta, individuata e la si confronterà più consapevolmente con altre esperienze passate o presenti per evidenziarne analogie o differenze e gestirne le successive azioni.
Molti altri esempi di una forte e determinante presenza dell’emotività nel linguaggio umano possono essere riconosciuti in ambito retorico, più in particolare politico, persuasivo e concernente l’attività creativa.[61]
 
 
8. Conclusioni
 
Il focus sulla conversazione e sul discorso umani ha permesso di testimoniare come i partecipanti all’atto di parola siano co-attori impegnati in un flusso potenzialmente costante e continuo di negoziazioni e aggiustamenti reciproci, in cui la sfera dell’opinione “privata” dei partecipanti si rende intellegibile e pubblica nell’atto stesso di parlare di sé all’altro, coinvolgendo insieme processi cognitivi ed emotivi.
Le emozioni come costruzioni linguistiche, sono costrutti grammaticali che rappresentano dei building blocks sui quali si basa l’azione reciproca tra linguaggio, emozioni e concetti sulle emozioni stesse. All’interno dell’arena della conversazione, uno spazio potenziale e crescente di reciproca influenza e convergenza, la “competenza emotiva” richiede una capacità complessa di sintonizzazione con l’altro e di adattamento alle regole conversazionali e del contesto più allargato.
L’orientamento discorsivo vede la conoscenza delle emozioni sia come prodotto di pratiche culturali, che come il loro punto di partenza, in questo senso, l’interesse verso le ‘emozioni’  non può attestarsi, dunque, solo come spazio meramente teoretico, ma è da indagare ulteriormente per poter agire e trasformare le pratiche sociali, riflettendo e intervenendo sull’importanza degli scambi reali tra persone,[62] considerato che proprio all’interno di essi le emozioni emergono e vengono sostenute e giustificate.
Le fondamentali competenze umane di socializzazione e scambio emotivo rischiano un depauperamento notevole se pensiamo a come vengano “sacrificate” mediante l’utilizzo massivo della comunicazione scritta e a distanza, tipica della nostra era.[63] È invece il corpo del parlante, il “luogo” aggregato, vivo e pulsante della sua emotività che chiede di venir ritrovata.
Narrare di sé e ascoltare l’altro sono un bisogno antropologico troppo spesso negato nei nostri tempi. Lì si trova il pluralismo delle visioni, la polifonia, la differenza, la collaborazione, il piacere, e non ultimo, l’azione etica di definire e collocare sé stessi nella società come agenti intelligenti che vogliono mettere insieme sentire e rappresentare.
 
 
Riferimenti bibliografici
 
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[1] Commento di Annalisa Berti su Martin Hoffman 1979 riportato in D’Urso, Trentin 2001, p. 119.
 
[2] L’emozione (emotion) è un cambiamento nell’equilibrio fisiologico dell’organismo che, fuoriuscendo, si rende immediatamente manifesta e comunicabile all’esterno nell’ hic et nunc dell’occasione e del contesto in cui quello stato viene esperito. Il corpo (e i suoi visceri) è il luogo dal cui interno parte la segnalazione di un cambiamento su base fortemente adattiva.
 
[3] Il sentimento (feeling) possiamo definirlo come una elaborazione percettiva, a livelli superiori, di un cambiamento del corpo, un “sentire”, un “avvertire” e un “riflettere su” l’emozione. Per un’analisi dell’emozione, invece, dalla prospettiva della psicologia culturale, si veda Ratner 2000.
 
[4] Le emozioni “di base” o “primarie” sono rabbia; paura; tristezza; felicità; sorpresa; disgusto. C’è chi più soventemente esclude la ‘sorpresa’ e attesta come emozioni basilari le cinque restanti.
 
[5] L’etnometodologia, disciplina che ha preso forma all’interno della microsociologia fenomenologica degli anni Sessanta (Garfinkel 1967). Essa si occupa dello studio delle “modalità” “popolari”, del ‘senso comune’ e delle “teorie ingenue” tipiche delle interazioni della vita quotidiana che permettono alle persone di orientarsi ed agire (Bailey 2006). Dall’applicazione di questa disciplina allo studio empirico dell’azione comunicativa umana otteniamo l’Analisi della Conversazione e l’Analisi del Discorso (Bonaiuto, Fasulo 1998). La prima studia il parlato-in-interazione così come spontaneamente si produce  e viene reciprocamente gestito turno dopo turno; la seconda è invece interessata ai “contenuti” e alla loro interpretazione, dando particolare risalto all’organizzazione del significato, ai temi e ai repertori linguistici. L’approccio discorsivo ha contribuito a fornire un nuovo quadro teorico per lo studio dei processi mentali, inclusa la psicologia delle emozioni, concettualizzati come proprietà del discorso. Psicologia culturale e psicologia discorsiva convergono nel riconoscere la priorità data ai segni pubblici e alla loro praticabilità sociale, piuttosto che a modelli mentali generali. In questo senso anche le emozioni, non vengono considerate come delle entità astratte, ma affermazioni linguistiche attraverso le quali si esprimono sensazioni ed espressioni emotive all’interno di un preciso e contingente contesto discorsivo che, a sua volta, acquista significato all’interno di uno scenario culturale.
 
[6] Tra le principali funzioni psicologiche rientrano la percezione, l’attenzione, la memoria, l’ideazione, l’affettività, la volontà e la coscienza
 
[7] La scoperta del funzionamento dei neuroni specchio (Rizzolatti, Sinigaglia 2006) ha ulteriormente dimostrato come il sistema del linguaggio derivi dal sistema dell’azione. Non è un caso che il verbo “afferrare” si riferisca sia alla manualità del pollice opponibile ‒ specifica dell’uomo e dei suoi cugini filogeneticamente più prossimi ‒ che al “cogliere” mentalmente una certa idea o concetto.
 
[8] Cit. in Bruner 1986, trad. it., p. 1.
 
[9] Ivi, trad. it., p. VIII.
 
[10] In inglese to account. Il verbo viene usato largamente nella psicologia discorsiva in lingua inglese. La parola ha molte e interessanti sfaccettature, il relativo sostantivo può riferirsi infatti a quattro nuclei semantici: 1) causa-ragione-motivo; 2) resoconto-rendiconto-relazione-narrazione; 3) descrizione; 4) importanza-valore-vantaggio. Quest’ultimo nucleo, in forma verbale, si trasforma in voci relative a valutazione come: considerare-stimare-reputare-ritenere.
 
[11] La forma narrativa riguarda l’agire umano in generale, pragmaticamente orientato, per cui si configura come attitudine a organizzare l’esperienza secondo le proprietà dell’intreccio narrativo. Da queste strutture si possono trarre grandi benefici come, ad esempio, strutturare più facilmente il ricordo di un certo stato emotivo da chiarire a se stessi e, parallelamente, da poter esibire all’ascoltatore con cui si condivide la rievocazione di quella trama.
 
[12] Bruner 1986, p. 143, trad. mia.
 
[13] Trattasi di un Sé “dialogo-dipendente”, situato in un preciso contesto, interpersonale (Bruner 1992, p. 100), continuamente aggiornato dalle transazioni che hanno per contenuto assunti e credenze su come si pensa funzionino le cose, scambi continui, riformulabili e rinegoziabili di fronte quello che Mead (Mead 1934) chiamava “Altro generalizzato”, ovvero quell’insieme di autorità interiorizzate volte a regolare il rapporto con la realtà.
 
[14] Letteralmente “scaffalatura”, concetto coniato da Bruner a partire dalla “zona di sviluppo prossimale” di Vygotskij (Vygotskij 1966, p. 129) per riferirsi a quell’insieme di aiuti, principalmente linguistici, forniti dall’adulto o dal pari al bambino nel sorreggerlo nella conversazione, passando da un contributo più consistente a uno che rende via via più autonomi e originali i contributi del bambino.
 
[15] Riflettere, consolidare e costruire individualmente.
 
[16] Interazione con l’altro, con una diade o con un gruppo.
 
[17] Simboli, metafore e codici comportamentali attesi e spiegati dalla cultura.
 
[18] Nell’uso della parola ‘paura’ si può far riferimento, nel rievocare l’esperienza specifica denotata dalla parola, a una situazione intensa e improvvisa in cui gli occhi sono sgranati, il corpo bloccato e retratto rispetto all’oggetto presente nel campo visivo che mette paura, si avverte freddo, si valuta, mentre sta accadendo, la potenziale nocività della situazione. Nel caso invece della ‘collera’ riaffiora nel significato del termine un senso di eccitazione e calore, le sopracciglia si aggrottano e si socchiudono gli occhi, il tono della voce sale inavvertitamente, si prova una maggiore e generalizzata tensione muscolare nel corpo che appare più proteso verso l’oggetto della collera.
 
[19] Egli procede in distinzioni/classificazioni di questo tipo: ‘paura’ (emozione) – ‘apprensività’ (stato d’animo) – ‘timoroso’ (tratto del carattere) – ‘stato ansioso’ (disordine affettivo); ‘rabbia’ (emozione) – ‘irritabile’ (stato d’animo) – ‘ostile’ (tratto del carattere).
 
[20] Anche qui potremmo ricavare uno “schema temporale” dell’emozione, in maniera simile a quanto farà White (cfr. infra) per cui l’emozione ‘sorpresa’ appare dopo un antecedente evento istantaneo, imprevisto e inaspettato che viola le aspettative di chi prova l’emozione, con susseguenti, aggiungerei io, sentimenti di piacevolezza o gioia o comunque di “realizzazione” della messa in sicurezza dell’organismo e “presa di coscienza” di quanto accaduto.
 
[21] Sono, più in dettaglio: metafore, metonimie, espressioni idiomatiche, proverbi e così via. Un esempio sono le espressioni costruite attorno alla ‘rabbia’: «scoppiavo di rabbia / la mia furia esplose / incanalare la collera / soffocare la rabbia / il sangue gli bolliva per l’ira». Prese insieme, queste manifestazioni linguistiche delle emozioni, rappresentano un modello esperienziale sottostante il vissuto caratteristico, una meta-conoscenza, una “teoria ingenua” (culturale). Nel caso della rabbia l’uso metaforico rimanda concettualmente a “qualcosa che viene smossa aumentando di calore, che può esplodere all’improvviso, che ha bisogno di un canale per non deflagrare impetuosamente”, situazione di cui si può investigare ulteriormente il quando e il come per illustrarne meglio lo scenario e aiutare a riconoscerlo.
 
[22] La caratteristica può consistere nell’essere o no “affettive”: essere (being) è considerata altra cosa da sentirsi (feeling), ad esempio, «mi sento abbandonato/colpevole» si riferisce a un vero e proprio stato emotivo, mentre lo stesso non è valido usando l’ausiliario ‘essere’, e quindi «sono abbandonato/colpevole». Questa distinzione dimostra come, presi di per sé, i termini ‘abbandonato’ e ‘colpevole’ non si possono considerare dei veri termini affettivi in quanto i buoni esemplari di parole emotive sono quelli che non cambiano anche se si modifica il contesto (come «sentirsi arrabbiati» o «essere arrabbiati»).
 
[23] Sono quelle emozioni provate senza la consapevolezza delle valutazioni su cui si basano (felicità: lieto, gioviale, festoso; tristezza: oppresso, tetro, pensieroso; paura: inquieto, insicuro, teso; rabbia: irritabile, suscettibile, insicuro; disgusto: schifiltoso, nauseato).
 
[24] Esempi di queste parole sono: contento, sollievo, piacere; addolorato, deluso, angoscia, umiliazione; spaventato, preoccupato, terrore; indignato, furioso, collera; disgusto, repulsione.
 
[25] Possono essere basate sul modello di sé, in questo caso parliamo di speranza e sconforto (in relazione agli scopi), orgoglio, noia (stati attuali), nostalgia e rimorso (comportamenti passati), o possono basarsi sulla relazione con gli altri: appartenenza, abbandono, amarezza, imbarazzo, odio di sé, riverire, pietà, offendersi, timore reverenziale, invidia.
 
[26] Per fare un esempio un uomo tradito dalla compagna può dire, in prima istanza: «sono geloso», potrà passare poi a un’altra versione voltata più verso un aspetto intrapunitivo: «sono umiliato/sfiduciato» o un aspetto comportamentale: «vorrei prenderli a schiaffi», oppure negare di sentirsi geloso e umiliato: «provo disprezzo per loro».
 
[27] Bamberg 1997, p. 310.
 
[28] Ad esempio, in inglese, vengono utilizzate le etichette verbali ‘anger’ e ‘sadness’ per riferirsi alle nostre corrispettive parole ‘rabbia’ e ‘tristezza’.
 
[29] Cit. in Bamberg 1997b, p. 311; trad. mia.
 
[30] Bamberg 2001, p. 58, trad. mia.
 
[31] Si rimanda, per questo concetto sostanziale, al classico di Wittgenstein (Wittgenstein 1967) e a Coulter (Coulter 1991) che provvede a inserire Wittgenstein in un quadro più vasto.
 
[32] Per esempio l’uso della prima persona “io”, della terza persona “lei/lui” o di una persona generalizzata “uno”.
 
[33] Bamberg 1997a, p. 220, trad. mia. Esempi di scopi discorsivi sono “incolpare” qualcuno, “salvarsi la faccia”, “provare empatia” che pongono l’accento sulla funzione interpersonale e pragmatica del linguaggio, indipendentemente dall’acquisizione della conoscenza dei concetti relativi alle emozioni, a loro volta, solo indirettamente legate alle sensazioni del corpo (Bamberg 2001, si veda nota a p. 69). A tal proposito, esiste una grammatica, nel senso di impiego strategico di costruzioni linguistiche, dell’ “essere arrabbiato” o dell’ “essere triste”.
 
[34] Ivi, p. 142.
 
[35] Edwards 1997, p. 170.
 
[36] Edwards 1997, p. 105.
 
[37] Queste risorse discorsive, in tema di emozione discorsivamente presentata, sono, ad esempio: emozione vs cognizione; emozione come irrazionale vs razionale; disposizioni vs stati temporanei; emozione come spontanea vs indotta dall’esterno; emozione come naturale vs morale; emozione come stati interni e privati (feelings) vs comportamenti visibili (espressioni emotive) (ivi, p. 194).
 
[38] Edwards 1997, p. 144.
 
[39] Rappresenta l’evento antecedente e sancisce un’azione dall’Altro da Sé.
 
[40] Bisogno simultaneo di un’azione correttiva che ripari le relazioni danneggiate, specie se si tratta di relazioni strette.
 
[41] Movimento dall’Altro da Sé.
 
[42] Risposta implicita e movimento dal Sé all’Altro.
 
[43] Lo studio ha impiegato un piccolo gruppo di bambini di 4 e 5 anni di età impegnati nella scelta e lettura per immagini, ad alta voce, di un picture book adatto alla loro fascia evolutiva: materiale librario con grandi illustrazioni e pochissimo testo in didascalia, per far prevalere in assoluto l’immagine e la sua “leggibilità” agli occhi dei bambini e far scatenare una sua “dicibilità” e “narrabilità” ai coetanei, compagni frequentati nello stesso anno della scuola dell’infanzia.
 
[44] La trama degli albi illustrati, per quanto breve in estensione e sviluppata nell’arco di poche pagine, corrisponde, tuttavia, a un vero e proprio intreccio, e, in quanto tale “complesso”, con varianti, eventi imprevisti, scatenanti un decorso inaspettato e inusuale dell’azione, in questo senso “tradiscono” la linearità più schematica, consueta e facilmente memorizzabile tipica dello script della vita quotidiana, più vicino, invece, all’ossatura più essenziale, prevedibile, concatenata e ordinata spazio-temporalmente di una storia, ovvero la fabula.
 
[45] Sgranare gli occhi, spalancare la bocca mostrando i denti e agitare le braccia allargando le dita; imitare l’ululato del lupo con la voce e la testa sollevata gli stati emotivi dei personaggi raffigurati, commentando a voce, in parallelo: “ha fame!”.
 
[46] “Non sembra pazzo [il lupo]?”, “la storia della nonna impazzita”, “così li lasciano da soli / e loro si arrabbiano”, “e i pulcini avevano paura”, “la vecchietta si mette paura e fa...(segue imitazione dell’immagine)”, “e la gallina si spaventa”.
 
[47] “È mangione”, “e l’uccellino è cieco”, “sono tutti e due indiani”, “ma questo c’ha la maschera” vs “questo è vero”.
 
[48] “Il lupo se ne va sulla cime di una montagna”, “la gallina che sempre becca”, “il laccio attorno alla capra / la capra cerca di scappare”, “poi decidono tutti e due di buttarlo di sotto”; “purtroppo non erano capaci a volare”, “ha fatto cadere le rape/il caffè”, “adesso fra un po’ si baciano sulla bocca/si stanno per dare un bacio sulla bocca”.
 
[49]  “Gli uccellini si erano stufati di aspettare che lui usciva dall’uovo perché gli dava fastidio”, “tutti c’avevano paura perché non sapevano tornare a casa”.
 
[50] "Poveracci”, “non fa ridere”, “io sono questo attaccato al filo...io sono il cane”, “A: ammazza quanto sei brutta con questi capelli così corti (mimando i capelli raccolti della vecchina raffigurata) / B: ma no, ce li ho lunghi”.
 
[51]X è il figlio/madre/zio di Y”.
 
[52] “Una montagna di banane”; “c’ha il biberon (riferito a una carota)”; “salgono sulla barca che era l’uccellino con l’uovo...poi salgono uno sopra l’altro come i vigili[del fuoco]), dimostrando come questa propensione retorica sia insita nell’uomo già nei primi anni e faccia del bambino un “metaforizzatore competente” (Gardner e Winner, 1982, cit. in Melogno, 2004, p. 4).
 
[53] In apertura la formula “Cera una volta”, o l’happy ending : “tutti felici”, o formule letterarie di chiusura della narrazione  come: “fine della storia”, o, ancora, passaggi “prevedibili” della trama sottostante : “A: guarda, ma è morto / B: certo, doveva morire / è cattivo quello”.
 
[54] Fatigante et al. 2015, p. 598.
 
[55] a) (foto con un bambino che con una mano tira un pugno su un libro e l’altra con palmo aperto sulla fronte mentre digrigna i denti) «A (preadolescente): forse sta pensando ‘ma quanto sono stupido’ / B (adulto-conduttore): come mai pensa che ‘sono stupido’? / A: ah, è perché è una cosa che faccio io, io me lo dico dentro». Più in dettaglio descrivendo la stessa immagine: «A: sì, ha anche l’espressione arrabbiata! / B: e che c’ha questa espressione? Cosa ti ha fatto pensare? / A: i denti, la bocca e gli occhi / B: e come sono? / A: uh, perché gli occhi sono più seri; anche il naso fa così (mimando il naso arricciato)». b) (foto compare una ragazza con le dita piegate attorno alla bocca e gli occhi sgranati): «A (preadolescente): per me di solito quando vedono i film stanno tutti così, tutti terrorizzati e c’hanno gli occhi (mima gli occhi sgranati) / B (adulto-conduttore): quindi è probabile, tu dici, che ti sembra terrorizzata / A: però nei film, che ne so, di polizia, quando fanno una rapina».
 
[56] Mentre, ad esempio, si vede un film poliziesco e si assiste a una rapina.
 
[57] Edwards 1997, p. 194: «A (preadolescente): la paura, certe volte, ce l’ha dentro ma non la fa dimostrare / B (adulto-conduttore): facci un esempio / A: uno che gli fai una domanda e non riesce tanto bene a parlare c’ha la paura dentro, non piange, però fa finta di non avere paura / B: uno ce l’ha dentro, però... A: ...non la fa sempre uscire, non la fa sempre vedere».
 
[58] Fatigante, Bafaro 2014, pp. 163-164: «P: e dottore, l’ultima domanda...Io fino a quando posso guidare? / D: fino a quando te la senti, certo gli ultimi mesi stai attenta perché anche un minimo tamponamento col pancione...insomma...puoi avere urti col volante, capito? Quindi... / P: mh / D: però, insomma, controindicazioni...fai grandi distanze? P: no, non tanto lunghe, di quindici chilometri... / D: Il pericolo è questo, puoi tamponare e quindi col pancione stai molto a contatto col volante, capito? Quindi qui a Roma soprattutto non è molto indicato / P: va bene / D: vedi tu ma, devi andare a lavorare? P: no, sto all’ispettorato da tre mesi perché ho avuto due minacce forti di aborto / D: e vabbe’ allora dove deve andare con la macchina? P: però porto mio figlio a calcio / D: e vabbe’ vedi un po’ / P: perché è un po’ lontano da casa / D: stai attenta, insomma».
 
[59] “Bollire” rimanda a un liquido che pian piano si riscalda fino ad agitarsi vistosamente e non poter più essere “contenuto”. La rabbia esprime l’emergenza e i bisogni dell’Io: «Questo sono io, sono diverso da te, in questa situazione, esigo rispetto! / mi oppongo / dico ‘no’», successivamente alla trasgressione di un’aspettativa individuale o sociale, alla violazione di un volere o diritto ritenuti importanti per la persona. Cfr. supra Kovecses (1986, 1988 e 1990) per altre metafore relative a questa emozione.
 
[60] Possibili utili domande potrebbero essere: «cosa fai, di solito, quando senti la rabbia?» / «come ti muovi per esprimerla?». La rabbia, ad esempio, può scattare in situazioni in cui il partner dirige la sua attenzione verso altre persone scatenando, da una parte, gelosia in riferimento alla situazione esterna, e dall’altra, sul piano personale, svalutazione/rifiuto («quando ti comporti così mi sento una merda!»), dolore («soffro per questo!») e umiliazione («mi sento umiliata!»).
 
[61] In ambito retorico le emozioni permeano capillarmente ogni ambito sociale. Nel campo della persuasione e della pubblicità l’appello esplicito al vissuto emotivo (e ai suoi scenari tipici) fanno spesso da ancoraggio ai ricordi dei consumatori, una famosa società telefonica manda ai suoi utenti questo SMS: «Sorridi! È un Happy Friday!» associando lo spronare la manifestazione corporea centrale della “felicità” (il sorriso) alla “festa”, e a un possibile acquisto, facilitato dall’umore spensierato e non stressato di chi si trova in un party. Altre emozioni linguisticamente trattate ci invitano a scoprire la “non corrispondenza”, all’interno dell’uso che si fa di quel termine nell’esperienza quotidiana, tra l’impiego dell’etichetta/significante ‘paura’ per intendere, invece, il significato ‘terrore’. Dalla ricostruzione discorsiva completa dello scenario “pauroso” verrà descritto concettualmente un significato coerente col sentimento fortemente negativo e “bloccante” del terrore/panico e ben poco con l’adattiva e vitalistica ‘paura’. Alla base di questo “scambio di nome”, socialmente costruito si inscrivono, ad esempio, un insieme di usi politici del linguaggio emotivo: “coprifuoco” o “zona rossa” sono ormai espressioni molto famose che rimandano direttamente a uno scenario coerente con la “guerra”. Sempre da un punto di vista retorico lo studio in dettaglio dell’espressività emotiva nel contesto linguistico ordinario, delle sue narrazioni e dei suoi discorsi in interazione ha un potenziale di applicazioni anche in ambito creativo, basti pensare al mondo dei libri e ai laboratori di scrittura, di story-telling, acquisendo una chiave centrale, tra l’altro, nella costruzione dei dialoghi nei romanzi e nelle sceneggiature.
 
[62] Si pensi all’importanza della co-operazione in contesti come l’ufficio e la scuola (lo smart working purtroppo non allena queste competenze che necessitano un apprendistato in vivo) o, al coltivare la socialità di gruppo nel contesto amicale o, all’incontro umano con lo psicologo in cui si finisce per rieducarsi ritrovando un contatto più vero e autentico con l’altro da sé.
 
[63] L’uso delle chat con i loro messaggi asincroni e “freddi”, nella misura in cui viene a mancare la presenza fisica ed emotiva del partner reale della conversazione contestualizzata in un preciso luogo e in un preciso tempo, condivisi e convissuti, condizione fondamentale per arricchire, disambiguare e creare un’intesa comunicativa reale, in cui, non secondariamente, una gamma articolata e sofisticata di messaggi non-verbali non solo ne supportano il contenuto e l’espressione verbali, ma  ne portano lo scambio a un livello che travalica la componente del linguaggio verbale.
 


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