«Umana cosa è aver compassione degli afflitti». Boccaccio e la dedica del Decameron

di Carmelo Tramontana

 

1. Umana cosa: dall’amore cortese alla virtù sociale della compassione

Nel Proemio del Decameron Boccaccio porta a termine un lungo apprendistato intorno ai temi cari alla letteratura cortese. Quell’ideale raffinato ed elettivo, che dalla fin’amor trovadorica giunge attraverso molteplici riscritture sino alla poesia dantesca della lode, dà spazio adesso a un sentimento nuovo, la gratitudine, che ha una dimensione ignota al vecchio ideale dell’amore cortese. La gratitudine crea un legame di mutua solidarietà tra le persone: dal servizio d’amore, esclusivo del poeta verso la donna, si passa a un principio di armonia civile. Tale novità[1] emerge prepotentemente nell’incipit dell’opera, e dà corpo alla celebre dedica:

 

Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de’ benefici già ricevuti, datimi da coloro a’ quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi le mie fatiche; né passerà mai, sì come io credo, se non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall’altre virtù è sommamente da commendare e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono, alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non abisogna, a quegli almeno a’ quali fa luogo, alcuno alleggiamento prestare.[2] (Decameron, Proemio 6-7)

 

Boccaccio non dedica l’opera alle donne per omaggiarne la delicatezza o conquistarne i favori, ma perché spinto a ricambiare attivamente, verso chi ne ha più bisogno, i doni della compassione[3] altrui ricevuti a suo tempo. La gratitudine è memoria etica che spinge a un comportamento virtuoso: dono che contraccambia un dono. La parola benevola, mossa da compassione, crea «gratitudine», cioè rinsalda il legame tra gli uomini. È questa parola che lo ha salvato: i «piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avenuto che io non sia morto» (Proemio 4-5). La gratitudine compassionevole («Umana cosa è avere compassione degli afflitti», come recita l’incipit del Decameron), che ispira Boccaccio a dedicare l’opera alle donne, si oppone all’egoismo bestiale che regna tra i fiorentini della città appestata.

Dietro l’apparente continuità con i modi della tradizione cortese, Boccaccio introduce una grande novità: la letteratura si rivolge ai più bisognosi, incarnati nelle «vaghe» donne, in nome di un elementare principio di solidarietà umana senza il quale nessuna forma di civiltà sarebbe possibile. Individuare nelle donne il pubblico elettivo del suo discorso non è invenzione boccacciana, e per rendersene conto basterà rinviare al Dante di Donne ch’avete intelletto d’amore, dove il pubblico femminile è promosso a intenditore del discorso poetico non in base a una presunta delicatezza sentimentale ma in ragione di un preciso atto di conoscenza (appunto: «intelletto», cioè comprensione, dell’esperienza amorosa).[4] Guardandosi attentamente da una superficiale lettura protofemminista, è bene sottolineare che lo scrittore non rivendica alcuna parità sociale per le donne, ma si limita ad affermare che esse sono destinatarie di un atto compassionevole, in virtù della considerazione, piuttosto tradizionale, che una connaturata fragilità le esporrebbe a sofferenze tendenzialmente maggiori di quelle degli uomini. Meritano dunque particolare aiuto e conforto. Gli uomini possono al contrario vincere la «malinconia» in mille modi:

 

Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de’ quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l’animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore. (Proemio 12)

 

Alle donne invece, continua Boccaccio, non è toccato che un noioso e mesto soggiorno nel chiuso delle loro camere:

 

Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l’hanno provate: e oltre a ciò, ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. (Proemio 11)

 

È a questo punto che Boccaccio si rivela un vero innovatore: deboli per natura, sottomesse alla volontà di altri a causa delle regole sociali, private di ogni svago a causa dei costumi del tempo, alle donne non rimane che il sollievo di una parola compassionevole.[5] Boccaccio conduce le donne innamorate dalla misera e opprimente navigazione lungo il perimetro interno delle loro camere alla grande navigazione in mare aperto: offre loro il Decameron come mappa e specchio del mondo. Se, seguendo l’Aristotele della Retorica (II, 8, 1385b 13-19), la compassione è definibile «come dolore per una disgrazia immeritata di qualcuno che ci è simile»,[6] allora non si sbaglierà a mettere in evidenza la sottile identità che l’autore suggerisce tra sé e il destinatario dell’opera. È questa una mossa nascosta, perché agisce sotto la lettera ed è presto dimenticata, che riguarda non le donne, alle quali è pur dedicata l’opera, ma l’autore stesso. Se dovessimo individuare la figura retorica che sostiene, come una possente arcata, tutto lo sviluppo logico del Proemio, non potremmo fare a meno di notare che questa sia una similitudine:[7] come io ho goduto della parola consolante degli amici, mossi a compassione dal mio miserevole stato, così, a mia volta mosso da compassione virtuosa, offro alle donne la mia parola onesta, in modo che adesso sia a loro, misere, di conforto. Boccaccio si trova in entrambi i circuiti istituiti dalla parola che reca conforto: prima è oggetto di compassione e destinatario; poi è soggetto della compassione e locutore.[8] Se l’attenzione è sempre calamitata dal secondo circolo (in fondo quello che stiamo leggendo è appunto il Proemio dell’autore), non si deve dimenticare che la condizione che ha reso possibile il Decameron come parola onesta mossa da compassione è l’essere stato l’autore a suo tempo, come le donne adesso per chi scrive l’opera, oggetto della compassione virtuosa altrui. Madame Bovary, c’est moi!, anche in questo caso.

 

2. Navigazione in mare aperto

Tornato a Firenze, Boccaccio ha perso il pubblico mondano della corte napoletana e, nel frattempo, vede il ricco mondo della borghesia mercantile fiorentina schiantarsi contro la tragedia della peste. Di fronte all’emergenza del tempo, lo scrittore torna a coltivare il mito di un pubblico femminile, ma questo non è più formato dalle donne galanti e civette della corte angioina,[9] né da quelle celesti e angelicate degli stilnovisti o di Dante. Le donne del Proemio del Decameron sono, benché nobili d’animo, le ultime e le escluse, sono gli scarti che vivono ai margini della civiltà comunale. Boccaccio trasforma la loro subalternità in un’occasione di affrancamento: «nel piccolo circuito delle loro camere [le donne] racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi»; comprende che nella condizione di inerzia forzata (siedono oziose) di queste donne si nasconde la possibilità di un riscatto. La subalternità diventa così lo spazio in cui, attraverso la parola compassionevole dell’autore, esse possono curare l’anima. La reclusione dentro lo spazio limitato concesso dalla gerarchia domestica («il piccolo circuito delle loro camere») si trasforma nella possibilità di sondare ed esplorare uno spazio aperto non in estensione, come quello battuto dagli uomini che vogliono vincere la loro malinconia, ma in profondità: la cura dell’anima attraverso la conoscenza del mondo. Boccaccio sta rifondando su nuove basi sociali, e su una diversa riconsiderazione della virtù umana, quello spazio di introspezione, cura, conoscenza di sé come via alla felicità che era l’otium dei latini. Le donne del Proemio diventano così destinatarie di un progetto etico che si compie attraverso la letteratura. Il fine del progetto è la vita felice secondo natura e ragione, meta da raggiungere attraverso la conoscenza del vasto mondo della realtà umana in tutti i suoi aspetti. Una realtà che Boccaccio descrive nelle cento novelle del Decameron, mettendo in scena una enorme varietà di casi e di individui, tutti affannati nel tentativo di sopravvivere nel grande mare dell’esistenza, attaccati alla zattera dell’intelligenza e della virtù o ai loro storpiati, capovolti relitti della stoltezza e della malizia.

 

3. Iniziare dalla fine

Alla fine del Proemio l’autore afferma che intende «raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo». Questi nomi, sia che indichino vari generi narrativi brevi sia che si riferiscano a varietà interne alla macrocategoria della novella,[10] così elencati esauriscono l’intero universo del narrabile: si va dalle vicende recentissime appena accadute (la novella propriamente detta) a quelle immerse nella storia passata (l’istoria); dalle narrazioni esemplari con una morale da apprendere (la parabola) a quelle che sono pura invenzione fantastica (la favola). Insomma, nessun argomento e nessuna vicenda sono escluse, in linea di principio, dai confini narrativi del Decameron: l’autore indica il modo in cui la realtà va raccontata, ma non ciò che dev’essere raccontato. In realtà, questi quattro tipi di narrazione breve, come noto, si trovano raramente in forma pura nel Decameron. A tutte le novelle l’autore assegna programmaticamente il medesimo fine, ovvero dare piacere al lettore e, contemporaneamente, ammaestrarlo:

 

Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. (Proemio 14)

 

Mentre traggono «diletto» dalle vicende narrate, le «già dette donne» apprendono «quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare». Non ci sono dunque novelle che non abbiano un qualche tipo di insegnamento da offrire al lettore, ma questo fine morale non è mai separato dal piacere che le novelle devono fornire ai lettori. Miscere utile dulci: la bussola di Boccaccio è sempre la massima oraziana, che egli interpreta come unione di etica (perseguire il bene) e retorica (attraverso lo stile eloquente della narrazione). Questa strategia unificata di felicità esistenziale e ricerca letteraria, declinata unitariamente in un progetto che bisogna già definire pienamente umanistico, contrassegna il Decameron come opera finale e conclusiva e, allo stesso tempo, di preservazione e palingenesi.[11] Boccaccio inizia il Decameron dalla fine: l’inizio dell’opera coincide infatti con la morte della civiltà. La peste è la catastrofe che incombe sull’umanità prospera e operosa della comunità fiorentina. L’ampiezza della tragedia getta sulle pagine iniziali dell’opera un’atmosfera da giudizio universale:

 

Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a’ camminanti una montagna aspra e erta, presso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia reposto, il quale tanto più viene lor piacevole quanto maggiore è stata del salire e dello smontare la gravezza. (Decameron, Introduzione 4)

 

Gli echi danteschi sono fitti e si rincorrono continuamente: la peste è descritta come la selva («Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a’ camminanti una montagna aspra e erta», Decameron, Introduzione 4). Dalla morte alla vita, dalla fine alla rinascita, dalla montagna «aspra e erta» a un «bellissimo piano e dilettevole». L’«onesta brigata» di dieci uomini e donne è fatta di «camminanti», viaggiatori (esattamente come il protagonista della Commedia) che intraprendono un lungo percorso attraverso le cento novelle dell’opera. Boccaccio descrive la «gravezza» della peste con la penna del sociologo e del moralista, e curiosamente ne trascura i risvolti economici. Non gli interessa il girare a vuoto dei commerci; piuttosto, è attentissimo a registrare gli effetti della peste sul tessuto affettivo e sociale della comunità fiorentina. In effetti le fonti storiche ci dicono che la peste del ’48 non provoca un tracollo economico a Firenze, piuttosto aggrava momentaneamente una situazione già difficile a causa del fallimento di alcune importanti compagnie finanziarie.[12] Anzi, per molti versi la peste dà respiro all’economia fiorentina: abbassa bruscamente la disponibilità di manodopera e in questo modo mantiene alto il costo del lavoro e la disponibilità pro capite di ricchezza. È questo il motivo per cui l’umanità immersa nella crisi della peste è descritta da Boccaccio da un punto di vista sociale e morale ma non economico, come ci si potrebbe aspettare. L’autore osserva il rapido sgretolarsi dei vincoli interpersonali: salta la solidarietà tra cittadini, si frantuma l’unione tra familiari e, addirittura, viene meno l’affetto che unisce padri e figli. La civiltà, assediata dalla pestilenza, si sfalda: nessuna gratitudine reciproca sopravvive al timore del contagio. L’umanità retrocede a selvaggia bestialità:

 

E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. (Introduzione 26)

 

Quando il disfacimento civile arriva sino al cuore della solidarietà umana, sgretolando la famiglia, allora per Boccaccio vuol dire che la crisi è massima e la soluzione urgente: non esiste un dopo o un peggio, l’inferno è già qui, sulla terra. I novellatori del Decameron fuggono dall’inferno della peste ma si tratta di una fuga attiva: essi hanno un piano di ricostruzione della civiltà e questo progetto passa attraverso l’onestà dei costumi e la ragione ordinata. Ma l’onestà e la razionalità non sono realtà materiali, sono valori umani e civili e, come qualsiasi valore, si affermano attraverso l’esempio e la parola che persuade e convince. Boccaccio intuisce che la solidarietà umana può essere ricostruita soltanto attraverso la parola. Una parola che sia razionale (perché comprende il male), eloquente (perché costruita dignitosamente secondo un’alta concezione dello stile), e compassionevole (perché porta sollievo agli altri). Le novelle raccontate dall’«onesta brigata», al di là della varietà di temi, sono sostanziate di questa parola.

 

4. Ragione e natura

La Firenze dell’inizio del Decameron è il regno del caos in cui imperversa la peste. I cittadini cercano di arginare il male in quattro modi diversi: c’è chi conduce una vita temperata, ma non priva di qualche raffinato piacere, e rifiuta il contatto con gli appestati, sperando così di salvarsi dal flagello divino; c’è poi chi si dà al piacere sino allo sfinimento, pensando che, se la morte sta per arrivare, tanto vale godere di ogni istante residuo; c’è chi, a metà tra i primi due gruppi, non si astiene dal contatto con gli altri ma non si lancia nel vizio, e spera di prevenire il contagio con qualche bizzarro rimedio medico (ad esempio addobbandosi con fiori o spezie odorose); e infine c’è chi, dimenticando i doveri civici e familiari, abbandona la città e fugge egoisticamente nel contado. Sono pochi insomma i cittadini onesti rimasti in città, assediati da una parte dall’epidemia, dall’altra dall’immoralità dei concittadini. La penitenza estrema e la lussuria sfrenata sembrano a Boccaccio due false soluzioni perché entrambe si allontanano, seppure in direzioni opposte, da quel giusto equilibrio tra ragione e natura che dev’essere regola di vita dell’uomo saggio. Tra i pochi fiorentini onesti ci sono certo le sette donne che si ritrovano nella chiesa di Santa Maria Novella e tra queste spicca Pampinea:

Donne mie care, voi potete, così come io, molte volte avere udito che a niuna persona fa ingiuria chi onestamente usa la sua ragione. Natural ragione è, di ciascuno che ci nasce, la sua vita quanto può aiutare e conservare e difendere: e concedesi questo tanto, che alcuna volta è già addivenuto che, per guardar quella, senza colpa alcuna si sono uccisi degli uomini. E se questo concedono le leggi, nelle sollecitudini delle quali è il ben vivere d’ogni mortale, quanto maggiormente, senza offesa d’alcuno, è a noi e a qualunque altro onesto alla conservazione della nostra vita prendere quegli rimedii che noi possiamo? (Introduzione 53-54)

Il lungo discorso di Pampinea è tutto incentrato sulla «natural ragione» che spinge l’umanità a preservare la propria salute e a fuggire il male. Non solo fisico, ma anche morale:

io giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come noi siamo, sì come molti innanzi a noi hanno fatto e fanno, di questa terra uscissimo, e fuggendo come la morte i disonesti essempli degli altri onestamente a’ nostri luoghi in contado, de’ quali a ciascuna di noi è gran copia, ce ne andassimo a stare, e quivi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo. (Introduzione 65-66)

Il progetto di ricostruzione della civiltà inizia proprio dal discorso di Pampinea, le cui parole sono, come quelle dei novellatori, parole che salvano. Il discorso è onesto e razionale: è eloquente, perché deve persuadere le altre donne; è onesto perché ispirato da una morale irreprensibile; è compassionevole, perché risolleva le donne dall’angoscia delle peste. Bisogna fuggire gli esempi disonesti «come la morte»: per Pampinea non c’è differenza tra la morte fisica e la morte morale provocate dalla peste. La donna indica la salvezza in un luogo (il «contado») e in un regime di vita pratico (vivere in «allegrezza» e prendere «piacere»). La «festa» si contrappone alla vita lugubre e dissennata della Firenze appestata. Pampinea non invita però a vivere dissennatamente e senza criterio. La festa e il gioco sono cose serie. Talmente serie che vanno regolate con precisione, e così alla fine ricorda che «festa», «allegrezza» e «piacere» vanno amministrate secondo un protocollo preciso: le azioni della giovane brigata non dovranno mai sorpassare i limiti imposti dalla ragione. L’‘onestà’ della brigata risiede tutta in questa affermazione: la vita umana degna di essere vissuta, ingentilita dalle gioie terrene e da una gaia socievolezza, è quella ordinata dalla ragione. L’antidoto che Pampinea propone di versare sulle ferite della pestilenza non è dunque il piacere solamente, ma il piacere regolato dalla ragione.[13] Fuggire dalla peste significa riconquistare il piacere alla vita e il piacere della vita: «Niuna riprensione adunque può cadere in cotal consiglio seguire; dolore e noia e forse morte, non seguendolo, potrebbe avvenire». E, soprattutto, la salvezza promessa è sociale e condivisa e non potrebbe essere altrimenti, radicata com’è sulle emozioni virtuose della compassione e della gratitudine.

 

5. La parola onesta

L’aggettivo onesto appartiene alla sfera dell’etica e indica innanzi tutto comportamenti conformi al bene. L’onestà si riferisce quindi alla vita pratica e riguarda gli aspetti concreti dell’esistenza umana: non indica solo il bene in sé stesso, ma anche il comportamento adeguato al bene. Non solo gli atti, ma anche le idee possono dirsi oneste se guidano le azioni verso il bene. Pampinea, la prima regina della brigata, ha le idee chiare su questo argomento e l’orazione con cui persuade le donne a fuggire lontano dalla peste è una meditata celebrazione della virtù dell’onestà. L’onestà della brigata riguarda sia le idee (il piano di fuga dalla città appestata), sia i comportamenti (nulla di contrario alla decenza e al bene dovrà accadere durante il soggiorno nel contado). Filomena lo ribadisce con forza poco dopo: «là dove io onestamente viva né mi rimorda d’alcuna cosa la coscienza, parli chi vuole in contrario; Iddio e la verità l’arme per me prenderanno» (Introduzione 84). Nella campagna fiorentina la brigata gode misuratamente delle gioie materiali della vita e cura il corpo e lo spirito con giochi, canti e racconti. Questi ultimi sono però spesso licenziosi nella materia e, al lettore poco accorto, fanno sorgere più d’un dubbio sull’onestà dei novellatori. Boccaccio sa bene che l’onestà è virtù che si esprime con diversi mezzi: anche le parole possono essere oneste[14] e, a maggior ragione, devono esserlo quando narrano vicende che oneste non sono affatto.

L’autore ha dietro di sé una lunga tradizione che ha già sviluppato il concetto in chiave retorica. Le parole oneste sono quelle adeguate al fine che l’uomo virtuoso deve raggiungere: la felicità secondo ragione in campo etico, l’efficacia espressiva in campo retorico. La Rettorica di Brunetto, traduzione-riscrittura e commento del De inventione ciceroniano, è un importante anello di trasmissione di questa tradizione che va dal mondo classico alla cultura municipale fiorentina del Duecento e, dopo il Dante del Convivio, a Boccaccio.[15] Il Cicerone di Brunetto, ad esempio, afferma che «rettorica è una cosa la quale molto s’appartiene a tutte cose, e publiche e private, e per essa diviene la vita sicura, onesta, inlustre e iocunda»[16] (Rettorica 14.25). Seguendo l’insegnamento di Cicerone, Brunetto[17] ha compreso che l’arte della retorica, cioè l’eloquenza, non è semplice gioco linguistico: l’uomo che parla eloquentemente applica la ragione alle parole e usa il discorso per raggiungere il proprio bene e quello comune. Insomma, la parola onesta è quella che, nutrita dello studio della retorica, conduce al bene e alla vita buona, cioè felice.

Affinché il progetto della brigata si compia, la vita civile ricostruita secondo un ideale di felicità regolato da ragione e natura, è essenziale che la parola dei novellatori sia onesta. Costoro, benché non oratori di professione, sono dunque il punto di arrivo di una lunga tradizione, i cui anelli si susseguono ininterrotti in una catena che, attraverso il Medioevo, porta avanti l’idea di una armoniosa convergenza di natura e ragione. Ciò che è qui importante rilevare è che alla nozione di un principio divino reggente il mondo secondo ordine (o armonia, congruenza, misura ecc.), rintracciabile attraverso una filigrana storica ben precisa[18], si ricongiunge l’idea boccacciana di una natura[19] che è certo esuberante di forze, pullulante di sorti ed esistenze differenti ma, proprio in quanto depositaria del governo del creato, esecutrice della volontà divina secondo i principi di ordine e armoniosa razionalità. La novità decameroniana a tal proposito si svolge tutta nello spazio di manovra che, nel progetto di reggimento del creato secondo ordine e armonia temperata, viene riservato alla parola. È la parola onesta dei novellatori che rende possibile l’istituirsi del circolo virtuoso della compassione. Essa sta all’origine e alla conclusione dell’opera: disposizione virtuosa degli affetti che genera il testo inviandolo a un lettore preciso, il pubblico femminile, ed effetto, nell’animo del lettore, di una lettura corretta e, appunto, onesta della realtà nell’insieme variegato delle sue forme espressive. L’autore compassionevole del Proemio agisce in armonia con ragione e natura conferendo il tratto morale dell’onestà al suo dettato.

 I dieci giovani sanno bene che un singolo uomo potrebbe anche salvarsi dalla peste mantenendo onesti i suoi costumi, ma un’intera comunità può salvarsi solo se, accanto all’onestà dei costumi, essa è in grado di esercitare la virtù civile della parola onesta[20]: la parola che persegue il fine della felicità terrena e non della mortificazione; la parola che salva, insieme, la vita dalla peste e la convivenza umana dall’egoismo bestiale. La parola nutrita di stile eloquente e di compassione. Finita la peste, inizia la lettura; finita l’eccezione,[21] si torna alla regola. La brigata si sbanda e il contado è abbandonato in favore della città. Ma qui l’eccezione continua a vivere nella forma di un pubblico di donne alle quali Boccaccio ha affidato, spinto da compassione, la sua opera. Tuttavia il salvacondotto che valeva per le donne della brigata (bene espresso dal discorso di Pampinea) non può certo valere per le donne del Proemio. Conclusa l’emergenza dell’epidemia, quella regola di vita onesta, forgiata al tempo della pestilenza e raffinata nella pratica del narrare e ascoltare in giardino, lascerà il posto a un altro salvacondotto, il dettato stesso dello scrittore che si fa parola onesta.

 

 

 

 


[1] La novità è anche nella dispositio dell’argomento: nella trattatistica retorica la compassione è infatti il fine emotivo che chi parla vuole suscitare verso di sé, nel giudice o nel lettore, appena giunto alla conclusione del proprio intervento. La novità boccacciana prevede di metterla all’inizio del testo e, metaforicamente, all’origine della scrittura stessa, come movente virtuoso della creazione letteraria. Ciò comporta lo spostamento del motivo della compassione dall’epilogo, come prevedeva la retorica classica, al proemio (ad esempio, «nella retorica di Isocrate le emozioni avevano già trovato una collocazione definita: mentre nel proemio l’oratore era tenuto a risvegliare la benevolenza degli ascoltatori, nell’epilogo era solito suscitare o l’ira contro l’avversario o la compassione verso la propria persona», C. Rapp, L’arte di suscitare le emozioni nella retorica di Aristotele, «Acta philosophica», II, 14, 2005, p. 313).

[2] Si cita da G. Boccaccio, Decameron, ed. a cura di A. Quondam, M. Fiorilla, G. Alfano, Milano, Rizzoli, 2013.

[3] Per i precedenti classici della «compassione» boccacciana rinvio a G. Zak, Boccaccio, Compassion, and the Ethics of Literature, «I Tatti Studies in the Italian Renaissance», 22, 1, 2019, pp. 8-9, che indica tra i presupposti la misericordia ciceroniana (Tusculanae meditationes 4 8 18), la riflessione aristotelica sulla compassione come mezzo retorico (Retorica II 8 1385b), e lo sviluppo del tema in Agostino (De civitate Dei IX 5 2). Bisogna tenere conto che, a prescindere dalle diverse sfumature sottolineate dai singoli pensatori, il concetto di un’emozione virtuosa propria dell’uomo giusto, quale la commozione è comunemente ritenuta, è di per sé problematico per l’etica classica che indica sempre la disposizione dell’uomo virtuoso come saldo, fermo, imperturbabile controllo delle passioni. L’idea dantesca di virtù come controllo esercitato dalla ragione sul talento è per Boccaccio filtrata soprattutto dalla riflessione aristotelica e dalla lettura tomista dell’etica aristotelica. Con nettezza si potrebbe affermare che per Boccaccio vale quanto insegnava lo Stagirita: «La proprietà di ricondurre le passioni sotto il controllo della ragione definisce le virtù morali. È anzi proprio questo il loro compito: quello di disporci a sperimentare come si deve quegli impulsi dell’appetito sensitivo dai quali siamo mossi» (M. P. Ellero, Natura, desiderio e virtù tra Filocolo e Decameron. Aristotele e le corti d’amore, in Il dialogo creativo. Studi per Lina Bolzoni, a cura di M. P. Ellero, M. Residori, M. Rossi, A. Torre, Lucca, Pacini Fazzi, 2017, p. 388). Sulla presenza di Aristotele sullo scrittoio di Boccaccio, importanti F. Bausi, Gli spiriti magni. Filigrane aristoteliche e tomistiche nella decima giornata del Decameron, «Studi sul Boccaccio», 27, 1999, pp.  205-53 e S. Barsella, I marginalia di Boccaccio all’Etica Nicomachea di Aristotele, in E. Filosa, M. Papio (a cura di), Boccaccio in America, Ravenna, Longo, 2012, pp. 143-55.

[4] La grande canzone dantesca innova, dentro la stessa Vita nova, la posizione più tradizionale prima espressa nel libello a proposito del nesso poesia volgare-poesia d’amore-pubblico femminile: «E ’l primo che cominciò a dire sì come poeta volgare si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’intendere li versi latini; e questo è contra coloro che rimano sopr’altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d’amore» (Vita Nova, 16-6; si cita da Dante, Vita Nova, ed. a cura di S. Carrai, Milano, Rizzoli, 2009). 

[5] C’è un legame evidente tra gentilezza stilnovistica e compassione boccacciana, ed è l’idea che, come per tutte le virtù nobili che sinteticamente Guinizzelli condensa nell’aggettivo gentile, esista una predisposizione naturale a coltivare la compassione e che questa condizione innata sia segno di nobiltà d’animo. Il motivo giunge a Boccaccio per l’ovvia mediazione dantesca, almeno a partire dalla coppia di attributi, pietosa e gentile, riferiti alla donna che contende a Beatrice il cuore di Dante nella seconda parte della Vita nova (24 1-4: che è anche l’unico luogo che registra l’uso di «compassione» in Dante). Giusto il rilievo di Zak (Boccaccio, Compassion, and the ethics of literature, cit.), che rinvia a un passo del Convivio che distingue «pietà», l’antecedente della «compassione» boccacciana, dalla semplice misericordia («E non è pietade quella che crede la volgare gente, cioè dolersi dell’altrui male, anzi è questo uno suo speziale effetto, che si chiama misericordia e[d è] passione; ma pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia ed altre caritative passioni», Convivio II 6 10). Nel Proemio decameroniano il nesso tra compassione e gratitudine si articola attraverso lo strumento della gradevole conversazione amicale («piacevoli ragionamenti»), che è anche precisa indicazione terapeutica (cfr. N. Tonelli, Fisiologia della passione. Poesia d’amore e medicina da Cavalcanti a Boccaccio, Firenze, Sismel, 2015, p. 218, che rinvia per il sintagma al precetto del maestro tardo duecentesco Guglielmo da Brescia, «loqui cum amicis dulcissimis», come rimedio contro la malinconia amorosa).

[6] C. Rapp, Aristotele e le emozioni, cit., p. 317. Sulla storia del concetto filosofico di compassione, con ampia batteria di suggestioni/esempi letterari, cfr. M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Bologna, Mulino, 2009, pp. 359-540.

[7] Sulle analogie e differenze tra i concetti di compassione, misericordia, simpatia, empatia si veda soprattutto M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 363-381. Un importante bilancio sugli sviluppi moderni del nesso compassione-gratitudine (tra Settecento illuministico e Ottocento borghese), con riferimento soprattutto alla letteratura francese, è in H. Ritter, Sventura lontana. Saggio sulla compassione, Milano, Adelphi, 2007; sugli sviluppi recenti del tema della compassione/empatia come elemento cardine sia della creazione che, soprattutto, dell’interpretazione letteraria si veda infine, a cavallo tra cognitivismo, neuroscienze e teoria della letteratura, M. Cometa, Perché le storie ci aiutano a vivere, Milano, Raffaello Cortina, 2017, pp. 248-264.

[8] Il tema della compassione-pietà appare significativamente in posizione incipitaria già nell’Elegia di Madonna Fiammetta e, poi, nel Corbaccio. Nell’Elegia però, dove il tema è chiaramente debitore dell’esempio dantesco della Vita NovaSuole a’ miseri crescere di dolersi vaghezza, quando di sé discernono o sentono compassione in alcuno», Fiammetta, Prologo 3), manca ancora quella connessione con il tema della gratitudine che è un’elaborazione propria del Decameron. Nel romanzo di Fiammetta il tema lacrimevole della compassione appare ancora convenzionalmente per connotare il pubblico femminile cui è rivolta l’opera (cfr. M. Zaccarello, Il Corbaccio nel contesto della tradizione misogina e moralistica medievale: annotazioni generali e proposte specifiche, «Chroniques italiennes», 36, 2, 2018, p. 163), o come argomento retorico speso nellinvocazione della musa celeste (sulla presenza del tema nellElegia cfr. C. Ceccarelli, Prologhi ed epiloghi in Fiammetta e Corbaccio: un’analisi tematica, «Chroniques italiennes», 36, 2, 2018). La dialettica compassione-gratitudine persiste invece nellincipit del Corbaccio, segretamente in azione tra le motivazioni addotte dall’autore per la scrittura del «trattato» (sulla presenza di filigrane dantesche e petrarchesche nel Corbaccio si veda N. Tonelli, Beatrice, Laura, la vedova. La gentilezza, la Vita Nuova e il Canzoniere del Corbaccio, «Chroniques italiennes», 36, 2, 2018).

[9] Sul Boccaccio napoletano, e il contesto socio-culturale e linguistico della corte angioina, si veda almeno: N. De Blasi, A. Varvaro, Il regno angioino, in Letteratura italiana (diretta da A. Asor Rosa). Storia e Geografia, vol. I, L’età medievale, Torino, Einaudi, 1987, pp. 593 e sgg.; N. De Blasi, Ambiente urbano e linguistico di Napoli angioina (con testimonianze da Boccaccio), «Lingua e Stile», XLIV, 2009, pp. 190-208; G. Alfano, T. D’Urso, A. Perriccioli Saggese (a cura di), Boccaccio angioino. Materiali per la storia culturale di Napoli nel Trecento, Bruxelles, Peter Lang, 2012; M. Santagata, Boccaccio indiscreto. Il mito di Fiammetta, Bologna, il Mulino, 2018, in part. pp. 7-119.

[10] Quest’ultima è l’ipotesi di L. Battaglia Ricci, Boccaccio, Roma, Salerno, 2000, p. 135, cui rinvio anche per una significativa bibliografia sulla questione.

[11] Non diversamente Cherchi, riferendosi al gesto simbolico centrale del testo, l’atto del narrare/raccontare: «I narratori dei racconti costituiscono un insieme, una “onesta brigata” che coralmente celebra il bel raccontare nella doppia funzione espletata da ogni membro della brigata, ossia quella di narratore e di ascoltatore. Può sembrare un’esagerazione, ma la correggiamo ricordando che l’utile del Decameron non è l’insegnamento morale che si ricava dai contes medievali, bensì la celebrazione del bello cortese. Celebrare un valore è dare ad una società un punto di orientamento e di coesione» (P. Cherchi, Il tramonto dell’onestade, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016, p. 17); sul tema della narrazione post-apocalittica, a partire dal tempo della peste, si veda il classico V. Branca, Boccaccio medievale, Milano, Rizzoli, 2010 [I ed. 1956], p. 62.

[12] Le cause della crisi economica della Firenze trecentesca, che ci fu e fu travolgente, vanno cercate altrove e leggermente anticipate: «Il triplice colpo della bancarotta inglese, dei prelievi napoletani e del crollo dei titoli del debito pubblico furono più di quello che il sistema economico della città toscana potesse sopportare. Si arrivò alla rovina. Tutto il Gotha della finanza fiorentina fu davanti ai giudici fallimentari. Fallirono gli Acciaiuoli, i Bonaccorsi, i Cocchi, gli Antellesi, i Corsini, i da Uzzano, i Perendoli. Nel 1343 fallivano i Peruzzi. Tre anni più tardi, nel 1346, fallivano i Bardi». È su questo scenario di recessione che si innesta la spirale drammatica dell’epidemia pestilenziale, che però funzionò anche da paradossale riequilibratore economico: «la pandemia del 1348-51 e le successive epidemie furono senza dubbio un’immane tragedia umana. Ma sul piano economico i loro effetti non furono necessariamente negativi» (C. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, Bologna, il Mulino, 2002, p. 316 e 320-321).

[13] Non c’è dubbio che il linguaggio, le allusioni, i ragionamenti che strutturano Proemio e Introduzione siano prova delle letture filosofiche, di prima o di seconda mano, di Boccaccio. Parlare di Cicerone, di Seneca, di Aristotele o di Agostino, a seconda della bisogna, è esercizio critico confortato dalla filologia e supportato dalla conoscenza storica. Tuttavia è improprio, secondo Lavagetto, parlare per la cornice di una ipotetica ‘filosofia morale per le donne’, perché sebbene quanto affermato da Pampinea sia di indubbio spessore filosofico, e nutrito filosoficamente da Boccaccio, esso si radicherebbe perfettamente in una prassi della virtù tutta terrena e laica, in un’idea pratica di sapienza per le quali occorrono intelligenza, conoscenza del mondo, degli uomini e della vita e non tanto dei libri, sicché le parole messe in bocca a Pampinea non basterebbero a farne una filosofa; al contrario, coerentemente con la strategia secolare e laica del libro, la locutrice avrebbe il potere di abbassare quegli insegnamenti alla praticità delle regole di buon senso. Non è Pampinea a essere incoronata filosofa nella cornice, ma è la filosofia dei dotti a scendere sulla terra e a fecondare la vita concreta proprio perché messa in bocca alla saggia Pampinea (questa la tesi di M. Lavagetto, Oltre le usate leggi. Una lettura del Decameron, Torino, Einaudi, 2019, pp. 94 e sgg.)

[14] D’obbligo il rinvio a P. Cherchi, L’Onestade e l’onesto raccontare del ‘Decameron’, Firenze, Cadmo, 2004. Sul tema, da ultimo, cfr. E. Menetti, Le forme della novella, in Ead. (a cura di), Le forme brevi della narrativa, Roma, Carocci, 2019, p. 49 («Raccontare in modo onesto per Boccaccio significa trasmettere attraverso la voce e i ragionamenti dei narratori alcuni valori che descrivono una vita comunitaria ideale in cui l’affiatamento (la “concordia”), la compassione, la fratellanza amplificano in modo virtuoso il benessere collettivo»).

[15] Non si deve però mai dimenticare che, nel tempo, la pressione esercitata dal magistero e dall’esempio del fratello maggiore Petrarca diventa concorrente, e spesso vincente, rispetto a qualunque altra linea di trasmissione e mediazione della cultura classica. Oltre la mediazione di un Brunetto, è verosimile che a Boccaccio i temi dell’apatia stoica e dell’atarassia epicurea, prima della riscoperta umanistica di Lucrezio, arrivassero attraverso la mediazione di Seneca e, appunto, attraverso gli echi stoicizzanti che risuonano un po’ ovunque nella produzione erudita petrarchesca. Zak (Boccaccio, Compassion, and the ethics of literature, cit., p. 15) a tal proposito ricorda giustamente lo Zibaldone magliabechiano, in cui Boccaccio ricopia come in un quaderno di lavoro molti brani senechiani. Proprio Seneca è indicato come una possibile fonte dell’incipit da Olivia Holmes («A possible indirect source for the book’s opening sentence may be found in Seneca’s treatise De clementia 1.3.2, in which the author tells the emperor Nero that among all the virtues none better suits a human being than clemency, because none is more humane [humanior]», O. Holmes, Decameron 5.8: from compassion to compliancy, «I Tatti Studies in the Italian Renaissance», 22, 1, 2019, p. 21).

[16] Brunetto Latini, La rettorica, ed. a cura di F. Maggini, Firenze, Galletti e Cocci, 1915.

[17] Sul rapporto tra cultura-retorica-politica, e per un profilo generale dell’intellettuale Brunetto, si veda E. Fenzi, Brunetto latini, ovvero il fondamento politico dell’arte della parola e il potere dell’intellettuale, in I. Maffia Scariati (a cura di), A scuola con ser Brunetto. Indagini sulla ricezione di Brunetto Latini tra Medioevo e Rinascimento, Firenze, Galluzzo, 2003, pp. 323-369.

[18] Punto di partenza rimangono tutt’oggi i classici lavori di A. Lovejoy, The great chain of being. A study of the history of an idea, Cambridge, Harvard Univ. Press, 1964 [I ed. 1933] e L. Spitzer, Classical and christian ideas of world harmony, Baltimore, Johns Hopkins press, 1963.

[19] Un rinvio deciso al Boezio del grande inno O qui perpetua (De consolatione philosophiae III ix) è a tal proposito ribadito da Papio, secondo il quale il testo «rappresenta per Boccaccio l’anello umanistico che tiene uniti antichità e cristianesimo; vi sono infatti contenute quelle che la teologia platonica riteneva le verità più profonde della creazione del mondo, dalla convinzione presocratica che la divinità suprema imponesse al caos primordiale la forma definitiva dell’universo eterno, alle tre ipostasi neoplatoniche (l’Uno, il Νοῦς e l’anima mundi che stanno gerarchicamente sopra la terra) e quindi alla Trinità cristiana (che, alla luce di Agostino e della Scuola di Chartres, trasforma gli invisibilia in Natura)» (M. Papio, Un richiamo boeziano nelle opere del Boccaccio, «Heliotropia», 11, 1–2, 2014, p. 66); sul ruolo svolto da Agostino nella mediazione di tesi neoplatoniche, sia verso Boccaccio che Petrarca, cfr. V. Branca, Boccaccio medievale, cit., p.p 338-339.

[20] È questo uno dei casi in cui il concetto ciceroniano di honestum, che è il bello morale o la virtù in sé, dispiega tutta la sua efficacia politica: «Per attuare una commistione del genere [di bello morale, honestum, e utile] bisogna capire che non si parla di un utile da dosare secondo una giusta misura, bensì di un utile la cui natura lo renda compatibile con l’onesto, cosa possibile quando riesce ad essere anch’esso disinteressato non nel senso che sia privo di beneficio ma nel senso che non sia “egoistico” e rechi benefici alla comunità e all’umanità. A questa difficile combinazione dell’onesto e dell’utile abbiamo dato il nome di “onestade”, conservandole così il nome che le diedero i nostri antichi, i quali ne fecero la ragione del vivere civile». (P. Cherchi, Il tramonto dell’onestade, cit., p. 13)

[21] I concetti di eccezione/norma, caors/ordine sono applicati alla funzione dei novellatori, con significativo riferimento soprattutto al ruolo di Dioneo, in G. Zaccaria, Giovanni Boccaccio. Alle origini del romanzo moderno, Milano, Bompiani, 2014, pp. 80-81.


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