L’invecchiamento come emozione del Tempo nella Recherche di Marcel Proust

di Enrico Palma

 
 
 
Oh che gente è mai questa! e gli uomini cercano di riuscirle graditi!
e per quali vantaggi e con quali atti!
Quanto presto il tempo seppellirà ogni cosa e quante ne ha già sepolte! [1]
Animati dal coraggio selvaggio della disperazione,
i cortigiani si precipitarono in folla nella sala nera, ma nell’afferrare lo sconosciuto, c
he se ne stava ritto ed immobile nell’ombra dell’orologio d’ebano,
rimasero inorriditi senza respiro trovando vuoti d’ogni tangibile
forma il sudario e la maschera da cadavere che s’erano affannati
a strappare con rude violenza.[2]
 
 
Il cane Argo riconosce Odisseo dal suo odore. Erano passati vent’anni dall’ultima volta che l’aveva visto, una vita straordinariamente longeva anche per un cane del mito. Chissà, magari era ancora un cucciolo quando Odisseo era partito per Troia e lo nutriva dalla sua mano, e ora, divenuto vecchio, sia lui che il padrone erano così cambiati nell’animo come nell’aspetto da non riconoscersi l’un l’altro. Tuttavia, i cani dispongono di una capacità che gli umani non possiedono, ovvero quella di riconoscere e ricordare odori anche a distanza di decenni. Il cieco Argo deve dunque aver riconosciuto il padrone dal suo calore aulente. I vent’anni trascorsi avevano reso l’eroe irriconoscibile ai nemici, al figlio, al padre, alla moglie, ma non al fedele amico, il quale si avvede di lui e muore nel segreto più totale, nel suo giaciglio di letame e pieno di zecche, memore dello splendore in cui viveva quando i giovani lo portavano a caccia.
L’irriconoscibilità è determinata, come si capisce, da nessun’altra ragione che l’invecchiamento. Odisseo aveva vissuto una delle esistenze più logoranti del mito classico, dieci anni di guerra d’assedio e altri dieci peregrinando per il Mediterraneo in balìa del volere degli dèi. Odisseo, approdato nel suo porto da riconquistare come ultima fatica, vede Argo e si commuove: «E il padrone, voltandosi, si terse una lagrima»[3]. Dopo tutto quel tempo un cane aveva saputo chi fosse quell’uomo, se ne ricordava, una testimonianza che quella casa era ancora la sua casa e che valeva la pena continuare a lottare per essa. Argo, allo stesso modo, vede il padrone, lo riconosce, sbatte la coda entusiasta e dopo averlo fatto spira beato. Si commuove anche lui. Tale commozione, tale emozione che muove in modo compassionevole Odisseo e Argo all’unisono, è una delle tonalità umane più fini e più intense che si possano mai provare nella vita. Un’emozione strutturata dal divenire, dai decenni, dalle fatiche e dalle ellissi dolorose del tempo. Un’emozione che può anche sfinire, tramortire, angosciare, e che è tale perché si invecchia.
Da un re a un altro, dal mito alla storia, questa emozione fu proprio la più vituperata dal todopoderoso re di Spagna Filippo IV, l’uomo più potente della sua epoca, reso famoso dal pennello di uno dei più grandi pittori di tutti i tempi, Diego Velázquez. Il sivigliano fu il pittore della corte reale per quasi tutta la sua vita, consegnando alcuni tra i ritratti più memorabili dell’arte occidentale, quadri che catturano il soggetto e che in modo transitivo trafiggono con i loro potenti sguardi anche lo spettatore.
 
Il segreto di Las Meninas, il suo quadro più celebre, è infatti prima di tutto un segreto temporale.[4] Secondo Tomaso Montanari, al di là delle comunque splendide interpretazioni teoretiche (penso a Foucault)[5] sul gioco di specchi tra opera, artista e spettatore, in cui quest’ultimo viene letteralmente inghiottito nel vortice dei riferimenti e impresso sulla tela che il pittore sta dipingendo, l’opera celerebbe un sottile rimando al rito della posa. La posa che il re invincibile e supremo, dall’alto del suo indiscusso potere, non riusciva più a sopportare. La flemma di Velázquez, la lentezza del suo dipingere, lo stare immobili davanti al suo pennello, che a ogni tocco gli toglieva un battito del suo cuore e un grumo di tempo dalla sua vita, erano divenuti per Filippo insostenibili. Nella staticità apparente della posa, Filippo sente il proprio tempo scorrere inesorabile, avverte che la vita non torna più indietro, un profondo senso di vuoto assalirlo e un impeto di liberazione da quella tortura. Il re, perfino lui, si sente vecchio. Sebbene fosse stato una maestà, non era riuscito ad accogliere la vecchiaia, a far proprio il canto che sarà anche quello di Whitman: «Old age superbly rising! O welcome, ineffable grace of dying days!».[6]
È forse il primo caso della storia dellumanità in cui un uomo venga ritratto in modo sistematico dall’infanzia/adolescenza fino alla vecchiaia, e se a farlo è Don Diego la cosa non può che assumere il massimo interesse. Un privilegio, o una condanna, degni solo di un re. In assenza di foto, ricordi di persone costrette a essere sempre gentili e affabili con lui, di calchi o di qualsiasi altro strumento per potersi accorgere della differenza in divenire, Filippo, guardando i suoi ritratti, può osservare tutta la magnifica decadenza della Spagna nella sua carne, può osservare il suo corpo che, nel deliquio degli anni, si dirige verso la tomba.[7] Quei ritratti sono l’opera di un artista, ma invero il capolavoro del divenire, il ricordo di come si è stati per poter apprezzare in tutto il suo fasto il Tempo che distrugge perché fa invecchiare. E ciò per la ragione che «più di ogni altro ente, è il volto umano a costituire la perfezione profonda di tale ricordo poiché in esso lo spazio si fa mobile e il tempo si incarna».[8]
Dopo questa premessa, necessaria per comprendere in quale direzione dirigere l’analisi, si tenterà di ravvisare tali tracce nella Recherche di Marcel Proust, il quale ha realizzato, tra i tanti motivi, un’opera monumentale e di respiro geologico per dare contezza di quest’emozione, finissima quanto si voglia ma intollerabile se non la si comprende, come Filippo che non volle più farsi ritrarre nemmeno dal più grande di tutti i pittori. Ciò che egli ignorava è che c’è un artista il quale, ancora più abile del Maestro sivigliano, scolpisce botri nei nostri volti, scava rigagnoli per lacrime senza fine e che è sempre all’opera indisturbato, invisibile e inarrestabile, ed è il Tempo.
 
 
1. La morte della nonna
 
Sono per lo più due gli episodi della Recherche in cui l’invecchiamento viene analizzato come nemmeno il più acuto dei fenomenologi sarebbe riuscito a fare. Proust, pur essendo coinvolto in prima persona nel trasporto emotivo del Narratore, e pur trasportando nel Narratore stesso le sue emozioni più intense, adopera comunque uno sguardo da «entomologo delle passioni»,[9] uno scienziato che scandaglia il suo oggetto di studio con la massima meticolosità.
Il primo è la morte della grand-mère, uno dei racconti di morte più strazianti, lucidi e toccanti di tutta la Letteratura. Il Narratore si trova a Doncières, la località in cui è sito il campo militare presso cui l’amico Saint-Loup sta compiendo il suo servizio di leva. È andato a fargli una visita, dopo la quale l’amicizia tra i due sembra avere una svolta più intima. Un giorno il Narratore viene richiesto per via di una telefonata. In modo straordinario, Proust narra cosa significhi tutto il miracolo del telefonarsi, del sentire la voce di una persona cara da una distanza remota, facendone una vera e propria esperienza mistica. All’altro capo c’è la nonna. Dopo alcuni tentativi di collegamento dall’esito però infelice, i due riescono finalmente a parlare. Il Narratore non aveva mai sentito la voce della nonna isolata dal suo corpo, dai suoi occhi, dal candore del suo viso. «È una voce triste, la cui fragilità non è né mitigata né dissimulata dalla maschera accuratamente predisposta dai lineamenti della nonna, e questa strana voce reale è la misura della sofferenza di lei. Egli lascolta anche come il simbolo dell’isolamento della nonna, della loro separazione, impalpabile come la voce che viene dai morti».[10] Il Narratore, non potendo guardare il volto della nonna, è come, dice Proust, un Orfeo disperato che deve accontentarsi soltanto della voce della sua Euridice morta. Il telefono li aveva avvicinati, ma la modalità di quella conversazione rinsalda una convinzione che il Narratore sente dentro di sé con sconcertante chiarezza: unendo per qualche istante due lembi spazio-temporali lontani tra di loro, più che essere il preludio di un nuovo e gioioso incontro, quella telefonata era invece la premessa di una definitiva separazione. «Aussi, ce que javais sous cette petite cloche approchée de mon oreille, cétait, débarrassée des pressions opposées qui chaque jour lui avaient fait contrepoids, et dès lors irrésistible, me soulevant tout entier, notre mutuelle tendresse. Ma grand-mère, en me disant de rester, me donna un besoin anxieux et foux de revenir».[11]
Il Narratore chiede dunque di ritornare, sicché per supplire alla dolorosa impossibilità di condividere con la nonna anche gli altri sensi, parte per Parigi. Ciò che trova tuttavia non è più la donna infitta nei suoi ricordi e nel suo cuore: dinanzi a sé, nel salotto in cui in genere venivano ricevuti gli estranei, non c’era che un fantasma. Il Narratore, sostituito da uno sconosciuto avventore, anziché essere il nipote tanto adorato, era divenuto un fotografo che stava scattando «un cliché des lieux qu’on ne reverra plus».[12] Non solo i luoghi ma anche i volti delle persone care, che avevano indossato, lungo gli anni schermati dall’affetto che proviamo per loro, la maschera che il Tempo aveva realizzato sul calco del loro invecchiamento. La nonna per cui il Narratore sarebbe stato sempre bambino, la nonna che egli aveva visto sempre nello stesso luogo, non fuori di sé ma tramite il riflesso nella propria anima,
 
à travers la transparence des souvenirs contigus et superposés, tout dun coup, dans notre salon qui faisait partie dun monde nouveau, celui du Temps, celui où vivent les étrangers dont on dit il vieillit bien”, pour la première fois et seulement pour un istant car elle disparut bien vite, j’aperçus sur le canapé, sous la lampe, rouge, lourde et vulgaire, malade, rêvassant, promenant au-dessus d’un livre des yeux un peu fous, une vieille femme accablée que je ne connaissais pas.[13]
 
Il Narratore ha di fronte a sé non semplici fotogrammi ma una manifestazione sensibile del Tempo. Essere creature temporali significa, prima di ogni altro attributo ontologico-esistenziale, essere creature che invecchiano. L’invecchiamento della nonna e lo stadio avanzato della malattia avevano reso troppo evidente, al di là di ogni tenerezza menzognera ma comunque cara poiché preserva dal dolore, il divenire inarrestabile che muta il mondo e che agisce con maggiore accelerazione nelle creature viventi. La distanza temporale tra ciò che vede e i ricordi di un passato nel quale la nonna era rimasta sempre intatta adesso si mostra in tutta la sua crudeltà, esibendo addirittura agli occhi del Narratore «una vecchia donna folle, assopita sul suo libro, sovraccarica di anni, rossa in viso e grossolana e volgare»,[14] un essere insomma in brutale disfacimento. Il Narratore aveva sempre riconosciuto la nonna dai ricordi d’infanzia e fino a quel momento vi era rimasta incolume. E tuttavia in quel salotto era venuto a far visita un ospite inatteso, un padrone della luce che illumina le cose nel loro aspetto più veritiero. In un solo viso, nelle guance increspate, negli occhi spenti, e nei capelli radi e incanutiti, egli percepisce la lenta, dolorosa e imperterrita erosione del Tempo. La dissoluzione temporale colpisce ogni cosa, i grandi monumenti eretti per immortalare il nome e il potere d’un Faraone d’Egitto come le più superbe montagne; ma Esso, come si apprende, si accanisce con più ferocia contro i viventi.
La metafisica temporale proustiana si rivela dunque nelle istantanee corporee di queste brevi ma intense pagine, il cui negativo deriva dalla convergenza di pieghe temporali che la coscienza rinsalda, per esempio, alla visione del volto di una persona cara. In quel salotto il Narratore non vede nessuna gioiosa epifania temporale: ammira, semmai, la rappresentazione tangibile del dolore effigiata da un corpo invecchiato, l’epifania sofferente del tempo come durata irreversibile. Il Narratore conosce dunque, vestendo per un momento i panni di un artista e fotografando la sua povera nonna, la stessa dolorosa emozione del re Filippo. Il volto della nonna, preso in prestito dal Tempo per mostrarsi in tutto il suo orrore, lo terrorizza e lo getta nel più profondo scoramento.
«Votre grand-mère est perdue».[15] Così prorompe, laconica, la sentenza del medico di grido di Parigi al quale il Narratore aveva chiesto un consulto. Perduta. Perduta nella malattia, nell’inesorabile declino psicofisico, nel sicuro oblio del nipote. Il Narratore, guardando la creatura ormai spacciata che aveva di fronte a sé, la nonna tanto amata e ormai inerme al tramonto temporale della sua vita, comprende che veramente ogni cosa è destinata a finire, a trasformarsi, a inverare il divenire nella solitudine che è tale in grazia della morte. «Chaque personne est bien seule»;[16] «ognuno sta solo sul cuor della terra»;[17] «il cavallo stramazzato»;[18] la Lucia ctonia di Caravaggio.[19] Tutti modi diversi ma sommamente pregnanti per esprimere una delle più forti verità dell’essere umani: infine si muore, e si muore soli.
Al termine di una lunga agonia, durante la quale non riconosceva più nessuno e nemmeno se stessa, la nonna spira. Ogni traccia di dolore si tramuta in un candore ritrovato, di cui fa bella sembianza il suo «visage redevenu jeune d’où avaient disparu les rides, les contractions, les empâtements, les tensions, les fléchissements que, depuis tant d’années, lui avait ajoutés la souffrance».[20] La morte ha estinto la sofferenza, al punto da definire la vita come l’umana e strenua resistenza al dolore, della quale il dolore stesso è il prezzo da pagare per gioire dell’essere venuti al mondo. Gli anni, a poco a poco, avevano tuttavia distrutto ogni parvenza di gioia, la quale grazie alla morte poteva invece essere ammirata sulla stavolta magnifica maschera di serenità e pace che il Tempo aveva scolpito sul viso della nonna. La vita, ritirandosi dalla materia che fino a qualche istante prima essa animava, squarcia la dura coltre delle illusioni, lasciando il magico sorriso che, aggiunge Proust, lo scultore medioevale, e senz’altro anche gli ignoti e per questo universali plasticatori egiziani e greci, hanno modellato sulle loro bellezze giovanili e senza fine. Sul letto di morte la nonna aveva «l’apparence d’une jeune fille»,[21] aveva ritrovato il fiore perduto della sua giovinezza, ma in grazia della Scrittura artistica essa sorriderà trionfante come la regina Nefertiti del Neues Museum di Berlino, il cui sguardo incantato rimirerà la Überwelt nella quale ella sarà sempre la rosea grand-mère, l’annunciatrice del sollievo notturno e del mondo metafisico che Proust ha reso con la sua opera teoreticamente comprensibile. 
 
 
2. La maschera della Morte Grigia
 
L’altro episodio, quello fondamentale per il nostro tema così come per la Recherche nel suo complesso, è lo spettacolare ultimo ricevimento presso la principessa di Guermantes, adesso Madame Verdurin, la quale, esaudendo le sue mire sociali, è arrivata a sposare il duca e ad assurgere a punto nevralgico della mondanità parigina, ancorché nel pieno della guerra.[22] Il Narratore è devastato, ogni cosa gli è divenuta vacua e miserabile, ha trascorso alcuni soggiorni in case di cura con cui il Proust autore spezza la trama e accelera la narrazione. La noia e l’indifferenza, come stati d’animo fondamentali, lo possiedono completamente decretando in questo modo la vittoria schiacciante e inequivocabile dell’esistenza inautentica. Per dare un diversivo a quella processione di inutilità, il Narratore approfitta di un invito pervenutogli dai Guermantes, onde trovare uno scacciatempo[23] con cui avere, almeno per un giorno, un po’ di sollievo a quell’assurdo gravame. Ciò che accade, al livello teoretico ed esistenziale tra il cortile e la biblioteca che funge da anticamera al salone, è la rinascita di una neue Kraft incoraggiata dalla memoria involontaria, ed è con tale ritrovamento che va affrontato l’episodio della camera degli spiriti in cui il Narratore entrerà non appena terminata l’esecuzione musicale.
Il concerto si conclude e il Narratore viene fatto accomodare nella sala principale del ricevimento. A parte i morti il cui ricordo viene comunque destato seppure fugacemente durante le conversazioni, ci sono i personaggi più significativi del romanzo, ma il Narratore non riconosce nessuno. Forse non riconosce nemmeno se stesso:
 
La scena della mattina passata dai Guermantes in cui il narratore non riconosce più gli amici di una volta, ed ha la sensazione di trovarsi ad un ballo in maschera, non riuscendo a riconoscere nemmeno più se stesso, dimostra che non solo l’uomo non riconosce le metamorfosi prodotte dal tempo sugli altri, ma che non è neanche in grado di riconoscere quelle avvenute su di sé.[24]
 
Piuttosto che un evento mondano su invito si tratta di una festa in maschera in cui i partecipanti non indossano nessun travestimento consapevole. Si tratta delle persone con cui aveva passato gli anni della sua gioventù, che un tempo aveva ardentemente desiderato di conoscere e che adesso sono scomparse, sostituite da simulacri umani a lui curiosamente ignoti. Sembra che il lettore lo accompagni in un corteo di spiriti. In realtà quegli uomini erano gli stessi di anni addietro e tuttavia diversi, resi irriconoscibili poiché il Tempo aveva rivelato «i loro volti ricoperti dall’orribile maschera della vecchiaia».[25]
«Au premier moment je ne compris pas pourquoi j’hésitais à reconnaître le maître de maison, les invités, pourquoi chacun semblait s’être “fait une tête”, généralement poudrée et qui les changeait complètement».[26] Il trucco del Tempo aveva cambiato il loro aspetto, ingiallendo e butterando la pelle, inarcando le schiene, modificando le voci, rallentando i movimenti, imbruttendo i volti, tutte cose ben lontane dal ricordo del loro ottimismo di gioventù. «L’età li ha trasformati tutti in grotteschi fantocci del loro Io passato»,[27] oppure, per dirla con il Lord Henry del Picture: «La gioia che ci pulsa dentro quando abbiamo vent’anni rallenta i suoi battiti. Il corpo ci tradisce, i sensi si corrompono. Degeneriamo in marionette ripugnanti, ossessionati dal ricordo di passioni che abbiamo troppo temuto, e di tentazioni deliziose a cui non abbiamo avuto il coraggio di abbandonarci».[28]
Il Narratore si fa spazio in mezzo a loro, e a meno che qualcuno non lo avvicini e dica il suo nome, pronunci una parola o compia un gesto tipico e rivelatore della sua identità, quelle persone gli sarebbero rimaste sconosciute. Egli era già stato percorso da profondi dubbi in merito all’utilità per la sua vita e per la sua opera della frequentazione di tali eventi mondani, e il cammino in quello spoglio e lugubre Eichwald conferma il suo proposito.[29] Aveva dedicato gran parte della sua vita non soltanto a persone che non se lo meritavano ma a uomini e donne che adesso non sa più chi siano. Tutti i ricevimenti che ha frequentato, le moine che ha subito e gli sforzi dolorosi per poter accedere a quel mondo comprende che sono stati vani, poiché il tempo in cui quelle donne e quegli uomini erano giovani è svanito dai loro volti, rattrappiti e percorsi come sono da solchi in cui adesso scorrono lacrime di disperazione. 
Il Tempo stava compiendo in quella sala la più smagliante delle sue esibizioni. Se poco prima si era mostrato in una biblioteca, facendo emergere lo spirito della vocazione proustiana in un luogo congeniale, all’altezza di queste pagine Esso si manifesta nell’altro luogo di raccoglimento umano del Libro per eccellenza, ovvero una sala da ricevimento. I personaggi della trama rivestono posizioni opposte: il diseredato è un intellettuale in vista (Bloch), la viscida arrivista sociale è come ricordato la nuova principessa di Guermantes (Madame Verdurin), la donna da qualche soldo è la più desiderata delle attrici per la sciagura della Berma (Rachel).
Il Tempo aveva messo in scena il suo teatrino dell’assurdo, aveva creato pupazzi dai volti invecchiati di cui Proust tratteggia un affresco memorabile. È il Giudizio universale che accade agli umani e che li scortica, senza però ringiovanirli, come il San Bartolomeo della Sistina. È il Giudizio della vecchiaia che attende tutti e che proprio per tale ragione può definirsi con giustezza universale. È il ricordo della loro gioventù, nella devastazione delle fattezze fisiche, a venire in aiuto per riconoscerne l’identità. Ma non per questo, nell’ironia di Proust, gli umani ringiovaniscono; semmai il peso della loro fine ricade su di essi in maniera ben più grave, uno squarcio nella terra da cui si sentono tirare.
Essi erano delle «poupées baignant dans les couleurs immatérielles des années, de poupées extériorisant le Temps, le Temps qui d’habitude n’est pas visible, pour le devenir cherche des corps et, partout où il les rencontre, s’en empare pour montrer sur eux sa lanterne magique».[30] Il Tempo ha bisogno dei corpi per mostrarsi e lo spettacolo teatrale preparato dai decenni a cui il Narratore stava assistendo era giunto all’atto finale. Le dimensioni spaziali e temporali si sono deformate, come se i corpi, «macchine a movimento forzato»[31] verso la morte, si fossero rammolliti e tutto in quella sala fluttuasse in un’agonia sospesa, una lotta contro la morte, una grottesca Todeskampf. «In questa scena, Proust voleva rendere il tempo visibile: voleva esteriorizzare il tempo».[32] Le persone agli occhi del Narratore sembrano crescere a dismisura, non nella lunghezza del loro corpo ma negli anni, in questo spettacolo così vivido e al contempo così disturbante in cui quella gente, appollaiata su altissimi trampoli come su delle torri, a un certo punto sarebbe caduta, precipitando nella tomba già aperta per loro.
La prospettiva era dunque totalmente deformata, i rapporti degli anni intercorsi tra un ricordo e la visione del presente erano mutati, essendo quella stessa visione una sorta di sguardo falsato che solo con grande sforzo avrebbe potuto riunire due elementi inconciliabili. Come emerge dall’analisi proustiana, è anche questa una delle ragioni per cui l’invecchiamento appare così duro da accettare. Il Narratore, infatti, capisce di essere invecchiato guardando in quel paesaggio umano lo stesso tempo che anche per lui doveva essere trascorso, riconoscendo in quei volti per niente familiari una formidabile galleria di specchi in cui rigettare le sciocche battute di non essere cambiato in nulla e di mantenersi bene come un giovanotto. Le persone in quella sala erano come gli alberi d’inverno, che rivelano la loro anima quando le foglie sono cadute. Nessuna primavera, tuttavia, sarebbe arrivata per ringiovanirli, ma invero un fulmine, le cui fiamme avrebbero trasformato il loro legno in materia per altre vite, per altro tempo.
 
«Mais une raison plus grave expliquait mon angoisse; je découvrais cette action destructrice du Temps au moment même où je voulais entreprendre de rendre claires, dintellectualiser dans une œuvre dart, des réalités extratemporelles».[33] Questa frase, insieme alla considerazione dell’intero percorso che ha condotto a tali riflessioni, è una di quelle fondamentali dell’intero Romanzo, poiché è plausibile sostenere che il Narratore prenda consapevolezza della necessità di tematizzare nella sua opera anche il tempo umano come tempo che invecchia. Il tempo che più ci è proprio in quanto umani, che più ci caratterizza è infatti l’invecchiamento, e le migliaia di pagine e la lunghezza poderosa del Libro sono servite a rendere in letteratura l’azione distruttrice del Tempo.
Un artista implacabile che modella i corpi a suo piacimento ha incurvato le sue vittime, le ha gambizzate, ha storto le loro bocche, illanguidito gli sguardi, diradato le chiome, le ha rese sorde, accecate, istupidite, terrorizzate, in una sfolgorante desolazione che nella loro stoltezza esse credevano di poter combattere con abiti alla moda, gioielli e pigmenti, quando in verità si dirigevano al galoppo verso l’avello. Quello di Proust è un grande affresco in cui a essere rappresentata è una scena alla Watteau, in cui anziché un festante Imbarco per Citera si osserva una marcia mesta e claudicante in direzione dell’oltretomba.[34] Come già visto in precedenza con la nonna, quegli orologi umani prossimi all’esaurimento «avaient l’air d’être définitivement devenus d’immutables instantanés d’eux-mêmes».[35] I nomi erano rimasti gli stessi, i loro vizi si erano esacerbati, e tuttavia la sapiente manipolazione temporale stava esibendo la prodigiosa trasformazione della materia che accade nei corpi viventi.
In questa fiera della morte il Narratore prende a modello il duca di Guermantes, il personaggio altero e orgoglioso, il più potente e adulato di tutto il Faubourg. Come contrappasso, egli è l’esemplare più vessato dal divenire temporale dell’invecchiamento, e in una pagina adamantina Proust ne restituisce la raffigurazione come se fosse un puro concetto privo di correlato oggettuale, indubbiamente la maschera più bella:
 
Il n’était plus qu’une ruine, mais superbe, et plus encore qu’une ruine, cette belle chose romantique que peut être un rocher dans la tempête. Fouettée de toutes parts par les vagues de souffrance, de colère de souffrir, d’avancée montante de la mer qui la circonvenaient, sa figure, effritée comme un bloc, gardait le style, la cambrure que j’avais toujours admirés; elle était rongée comme une de ces belles têtes antiques trop abîmées mais dont nous sommes trop heureux d’orner un cabinet de travail. Elle paraissait seulement appartenir à une époque plus ancienne qu’autrefois, non seulement à cause de ce qu’elle avait pris de rude et de rompu dans sa matière jadis plus brillante, mais parce que à l’expression de finesse et d’enjouement avait succédé une involontaire, une inconsciente expression, bâtie par la maladie, de lutte contre la mort, de résistance, de difficulté à vivre.[36]
 
La tavolozza di parole di Proust sembra essere proprio quella del già citato ritratto di Filippo, il cui colore dominante è «le gris plombé des joues raides et usées, le gris presque blanc et moutonnant des mèches soulevées».[37] È lesatto colore della vecchiaia, il ticchettio dell’orologio d’ebano del racconto di Poe, è la Maschera della Morte. Il duca era una rovina, l’exemplum della dannazione del Tempo per chi non progetti un’opera votata alla giovinezza. Tutto era cambiato nel suo mondo, e per sempre e senza posa sarebbe ancora cambiato nei modi più insospettabili. Davanti agli occhi il Narratore aveva un’intera epoca prostrata dinanzi al Tempo. E Proust vi appone il suo sigillo, il suo marchio di fuoco teoretico, con una frase che sa di profezia realizzata e senz’altro una delle più vere del Libro: «Ainsi change la figure des choses de ce monde, ainsi le centre des empires et le cadastre des fortunes, et la charte des situations, tout ce qui semblait définitif est-il perpétuellement remanié et les yeux d’un homme qui a vécu peuvent-ils contempler le changement le plus complet là où justement il lui paraissait le plus impossible».[38]
Proust ha impiegato vent’anni della sua vita, che avrebbe potuto continuare a sprecare in ricevimenti, moine e ipocriti gesti affettati, per scrivere un libro enorme, infinibile e che avesse di mira l’espansione.[39] Migliaia di pagine e una narrazione che attraversa una civiltà al tramonto, una certa Europa in transito e il male ontologico di stare al mondo, sono servite, come si diceva all’inizio, a strutturare tra le altre cose una ben precisa emozione, che non ha un nome ma una preparazione, che la si può solo sussurrare e che soltanto la conoscenza del tempo e della sua potenza può consentire di provare ex professo. Proust sembra gridare lo stesso grido della madre de La cognizione del dolore: «La folla imbarbarita degli evi persi, la tenebra delle cose e delle anime erano un torbido enigma, davanti a cui si chiedeva angosciata – (ignara come smarrita bimba) – perché, perché».[40]
 
È unemozione mista a nostalgia, delusione, rammarico, e allo stesso tempo a una contentezza per il fatto d’esserci stati, che inturgidisce lo spirito e provoca il pianto. È l’espressione di Toni Servillo nei panni di Jep Gambardella, quando, per scrivere un articolo per la rivista della sua direttrice nana Dadina, fa visita a un’installazione di un uomo qualunque, con il pregio d’aver fatto nella sua umiltà, all’inizio grazie al padre e poi in autonomia, esattamente come re Filippo e Velázquez, riunendo però entrambi in se stesso. Aveva fatto una fotografia di sé ogni giorno per tutti i giorni della sua vita. Jep vede questo, vede il tempo in opera, nel duplice significato dell’espressione: del tempo che si fa opera d’arte perché veicolo di un senso profondo dell’essere e dell’esistere; e del tempo che è all’opera, in azione, nel pieno della sua attività. Il volto di Jep è l’espressione dell’emozione che si prova leggendo le pagine di Proust, è l’emozione del tempo come invecchiamento, vedere evi e anni lontanissimi concentrarsi in un istante e raggrumarsi in un solo luogo. Gli anni si affollano in quella camera di scheletri alla Paul Delvaux, in quel funereo ultimo ricevimento, in quella danza macabra con cui si ignorava di sprofondare nell’antro più oscuro della vita.
E ciò accade nei corpi: vedere una nonna invecchiata di colpo e distrutta dalla malattia; amici che non si vedevano da decenni sfigurati da un male invisibile che abbiamo inscritto nella carne; figli divenuti adulti che iniziano lo stesso ciclo dei genitori. È il tempo che passa, è la vita che va. La Recherche, come intuito dal grande Debenedetti, essendo nel suo complesso un’immensa intermittence du cœur, rappresenta, leggendo le sue pagine, lo spicco di tale emozione. Lungo tutti i suoi volumi essa è tale emozione, uno strumento con cui cogliere nel profondo questo «lunghissimo tentativo di commuovere le cose, perché diano finalmente l’anima»,[41] soprattutto quando si esperisce la durata di un’intera vita in un solo istante o, come nel caso della matinée, di una sola ora.[42] Ci si sente sopraffatti, sospesi, inutili. Ma magari non ci si accontenta e ci si mette a scrivere un libro consacrato alla Giovinezza come Proust, oppure, molto più semplicemente, si prova quest’emozione come il cane Argo che aveva vissuto nell’attesa di riconoscere qualcuno che il tempo gli aveva tolto e, sazi di questo e stremati dalla vecchiaia, alla fine si cede e ci si accomiata.
«E Argo la Moira di nera morte afferrò appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni».[43]
 

[1] Marco Aurelio, Ricordi, trad. di F. Cazzamini-Mussi, Torino, Einaudi, 2019, VI, 59, p. 96.
 
[2] E.A. Poe, La maschera della Morte Rossa, trad. di E. Vittorini, in Racconti, Milano, Mondadori, 2011, p. 204.
 
[3] Omero, Odissea, Libro XVII, 304, trad. di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 2020, p. 483.
 
[4] Si guardi D. Velázquez, Las Meninas, 1656, olio su tela, 318x276 cm, Museo del Prado, Madrid.
 
[5] Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, 1966), trad. di E. Panaitescu, Milano, Rizzoli, 2013, pp. 17-30.
 
[6] W. Whitman, Canto di me stesso (Song of Myself), in Foglie d’erba (Leaves of Grass), a cura di B. Tedeschini Lalli, trad. di A. Marianni, Milano, Rizzoli, 2018, v. 1180, p. 216. «Vecchiaia che sorgi maestosa! O benvenuta, grazia ineffabile dei giorni morenti», ivi, p. 217.
 
[7] Si guardi in particolare D. Velázquez, Ritratto di Filippo IV, 1655, olio su tela, 69x56 cm, Museo del Prado, Madrid. Faccio notare che il viso disciolto come cera del re ha un incarnato di un colore lugubre, una tonalità di grigio assai curiosa. Tale grigio tornerà in seguito.
 
[8] A.G. Biuso, Temporalità e Differenza, Firenze, Olschki, 2013, p. 4.
 
[9] M. Lavagetto, Quel Marcel! Frammenti della biografia di Proust, Torino, Einaudi, 2011, p. 64.
 
[10] S. Beckett, Proust (Proust, 1931), a cura di P. Pagliano, Milano, SE, 2004, p. 23.
 
[11] M. Proust, Le côté de Guermantes, a cura di T. Laget e B. Rogers, in À la recherche du temps perdu, a cura di J.-Y. Tadié, Gallimard, Parigi, 2019, p. 849. «Ora, in quella piccola campana avvicinata al mio orecchio, libera dalle opposte pressioni che ogni giorno le controbilanciavano e da quel momento, irresistibile, recandomi un totale sollievo, cera la nostra reciproca tenerezza. La nonna, dicendomi di restare, mi mise addosso un bisogno ansioso e folle di ritornare», trad. di M.T. Nessi Somaini, Rizzoli, Milano, 2012, p. 157. Nei casi in cui non compare il riferimento al testo italiano la traduzione è mia.
 
[12] Ivi, p. 853. «Una foto di luoghi che non si vedranno più», trad. p. 162.
 
[13] Ivi, p. 854. «Attraverso la trasparenza di ricordi contigui e sovrapposti, d’un tratto, nel nostro salotto che faceva parte di un mondo nuovo, quello del tempo, quello in cui vivono gli estranei di cui si diceva: “però, invecchia bene”, per la prima volta, e soltanto per un attimo perché l’immagine disparve immediatamente, scorsi sul divano, sotto la lampada rossa, appesantita, involgarita, distratta mentre faceva vagare sul libro sguardi un po’ folli, una vecchia abbattuta che non conoscevo», trad. p. 163. In merito all’importanza di questo brano si veda anche A. Simon, Proust e la filosofia contemporanea, a cura di G. Grasso, Chieti, Solfanelli, 2013, pp. 20-1.
 
[14]  S. Beckett, Proust, cit., p. 23.
 
[15]  M. Proust, Le côté de Guermantes, cit., p. 992. «Vostra nonna è perduta».
 
[16]  Ivi, p. 993. «Ognuno è veramente solo», trad. p. 358.
 
[17]  S. Quasimodo, Ed è subito sera, in Tutte le poesie, a cura di G. Finzi, Milano, Mondadori, 2017, v. 1, p. 9.
 
[18]  E. Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato, in Ossi di seppia, a cura di P. Cataldi e F. d’Amely, Mondadori, Milano, 2016, v. 4, p. 76.
 
[19]  Si guardi M. Merisi (da Caravaggio), Seppellimento di Santa Lucia, 1608, olio su tela, 408x300 cm, Chiesa di Santa Lucia alla Badia, Siracusa.
 
[20] M. Proust, Le côté de Guermantes, cit., p. 1013. «Viso ridivenuto giovane, dal quale erano sparite le rughe, le contrazioni, i rigonfiamenti, le tensioni, i cedimenti che in tanti anni le aveva aggiunto la sofferenza», trad. p. 387.
 
[21] Ivi, p. 1014. «L’aspetto di una fanciulla».
 
[22] Quanto questo episodio sia risolutivo per il tema in analisi e per le sorti di tutto il Romanzo è ben spiegato da Eleonora Sparvoli: «Dunque i materiali del libro da scrivere saranno ricavati in grandissima parte – ad eccezione dei passaggi più poetici ispirati dalla memoria involontaria – dalla scoperta degli effetti del tempo, che il coup de théatre del Bal des Têtes illustrerà straordinariamente», in E. Sparvoli, Proust costruttore melanconico. L’irrealizzabile progetto della Recherche, Roma, Carocci, 2016, p. 146.
 
[23] »Lo scacciatempo è perciò un accorciare il tempo, un tentativo di accorciare il tempo scacciandolo, di conseguenza è un’irruzione nel tempo come disputa con il tempo«, in M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine (Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, 1983), trad. di C. Angelino, Genova,  Il melangolo, 1992, p. 129. Il corsivo è nel testo.
 
[24] J.-Y. Tadié, M. Tadié, Il senso della memoria (Le sens de la mémoire, 1999), trad. di C. Marullo Reedtz, Bari, Dedalo, 2000, p. 132.
 
[25] G. Macchia, L’angelo della notte, Abscondita, Milano, 2020, p. 127.
 
[26] M. Proust, Le Temps retrouvé, a cura di P.E Robert e B. Rogers, in À la recherche du temps perdu, cit., p. 2304. «In un primo momento non capii perché esitassi a riconoscere il padrone di casa e gli invitati, e perché ognuno di loro sembrasse essersi messo una maschera generalmente incipriata che lo trasformava completamente», trad. di M.T. Nessi Somaini, Milano, Rizzoli, 2012, p. 311.
 
[27] R. Shattuck, Proust (Proust, 1974), trad. di D. Zazzi, Milano, Mondadori, 1991, p. 65.
 
[28] O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray (The Picture of Dorian Gray, 1890), a cura di B. Bini, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 36. Il corsivo è mio.
 
[29] Si guardi C.D. Friedrich, Abbazia nel querceto (Abtei im Eichwald), 1809-10, olio su tela, 110,4x171 cm, Alte Nationalgalerie, Berlino.
 
[30] M. Proust, Le Temps retrouvé, cit., p. 2307. «Pupazzi immersi nei colori immateriali degli anni, pupazzi che esteriorizzavano il Tempo, il Tempo che abitualmente non è visibile, che per diventarlo va alla ricerca di corpi e, ovunque li trovi, se ne impadronisce per mostrare su di essi la sua lanterna magica», trad. p. 316.
 
[31] G. Deleuze, Marcel Proust e i segni (Marcel Proust et les signes, 1964), trad di C. Lusignoli e D. De Agostini, Torino, Einaudi, 2019, p. 148.
 
[32] P. Citati, La colomba pugnalata. Proust e la «Recherche», Milano, Adelphi, 2008, p. 331.
 
[33] M. Proust, Le Temps retrouvé, cit., p. 2311. «Ma una ragione più grave spiegava la mia angoscia; scoprivo lazione distruttrice del Tempo nel momento stesso in cui cercavo di chiarire, dintellettualizzare in unopera darte, certe realtà extratemporali», trad. p. 323.
 
[34] Si guardi A. Watteau, Imbarco per Citera, 1718, olio su tela, 129x194 cm, Castello di Charlottenburg, Berlino.
 
[35] M. Proust, Le Temps retrouvé, cit., p. 2320. «Sembravano, insomma, divenuti definitivamente delle istantanee di loro stessi», trad. p. 335.
 
[36] Ivi, pp. 2377-8. «Ormai non era che un rudere, ma superbo, anzi più che un rudere era quella bella cosa romantica che è una roccia nella tempesta. Flagellato da ogni parte da ondate di sofferenza, di rabbia di soffrire, dall’avanzare impellente della morte, il suo volto, sgretolato come uno scoglio, conservava lo stile, la taglia che avevo sempre ammirato; era corroso come una di quelle belle teste antiche troppo rovinate, ma con cui siamo ben felici di ornare il nostro studio. Sembrava solo appartenere a un’età più antica rispetto a una volta, non soltanto per quel tanto di scabro e di infranto che aveva ora assunto la sua materia già così brillante, ma perché all’espressione di finezza e giovialità si era sostituita un’involontaria, un’inconscia espressione costruita dalla malattia, di lotta contro la morte, di resistenza e di difficoltà di vivere», trad. p. 430.
 
[37] Ibidem. «Il grigio quasi plumbeo delle guance irrigidite e logorate, il grigio quasi bianco e increspato delle ciocche sollevate», trad. ibidem. I corsivi sono miei.
 
[38] Ivi, p. 2379. «Così muta l’aspetto delle cose di questo mondo; così il centro degli imperi, il catasto dei patrimoni e la mappa delle situazioni sociali, tutto ciò che sembrava definitivo viene continuamente rimaneggiato, e gli occhi di un uomo che ha vissuto possono contemplare il più completo mutamento, proprio là dove sembrava impossibile», trad. p. 432.
 
[39] Cfr. E.M. Forster, Aspetti del romanzo (Aspects of the novel, 1927), trad. di C. Pavolini, Milano, Garzanti, 2018, p. 176.
 
[40] C.E. Gadda, La cognizione del dolore, Milano, Adelphi, 2019, p. 129.
 
[41] G. Debenedetti, Proust, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 72. Il corsivo è mio.
 
[42] Cfr. H. R. Jauss, Tempo e ricordo nella «Recherche» di Marcel Proust (Zeit und Erinnerung in Marcel Prousts «À la recherche du temps perdu», 1986), trad. di M. Galli, Firenze, Le Lettere, 2003, p. 259.
 
[43] Omero, Odissea, Libro XVII, 326-7, cit., p. 483. Ringrazio Enrico Moncado per alcuni suggerimenti formali e teoretici.
 


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PROUST , RECHERCHE , TEMPO


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