Sentieri di resilienza

di Mattia Spanò

1. Introduzione

Parola chiave del piano di ripresa europeo e nazionale (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), polo speculativo di nuovi teatri di ricerca, topos mediatico duttile, trasversale – che funge da incrocio tra molteplici piani, approcci e direzioni – il termine resilienza è, ad oggi, caratterizzato da una ricorsività senza precedenti. Di matrice etimologica fisico-tecnica, il vocabolo in questione ha ormai raggiunto una profonda gittata semantico-speculativa, acquistando direttrici e slanci in termini di complessità e varietà: dalla psicologia alla sociologia, dalla pedagogia alla filosofia, la resilienza è una parola-concetto utilizzata anche in ambito economico e tecnologico, a partire dalla quale si dipartono questioni a fondo dibattute. Ma la quotidiana, diffusa, a tratti pervasiva ricorrenza del termine-nozione resilienza non costituisce, probabilmente, un buon motivo per smettere di parlarne; al contrario, si configura come una seria ragione per approfondirne la conoscenza. L’ordinario, il noto – proprio perché tale – finisce, infatti, spesso per costituirsi come statico e stagnante dato di fatto e, di conseguenza, inaridirsi; è in questo intercapedine che si radica il lavoro filosofico dell’uomo, nel tentativo di addentrarsi chiaroscuralmente nella complessità del mondo che, da frammenti, si abita. In questa cornice fermentano sentori, tracce, impronte di itinerari pro-positivi da percorrere, benché asintoticamente. Si tratta di momenti di espansione teoretico-vitale, di regioni di possibilità, di occasioni di divincolarsi dalle reti di perimetrate e compassate proposte superficiali, ingenue, coatte: del tentativo di accostarsi, con perizia e meraviglia, al mai-del-tutto-afferrabile ritmo dell’intero. A fronte di una così vasta, multidirezionale e polarizzata speculazione sul tema resilienza, occorre, dunque, riavvolgere il nastro e tentare di attraversarne struttura e lineamenti, contorni ed orizzonti, abitando una complessità che eccede di gran lunga la prospettiva dualistica che vede fronteggiarsi detrattori ed apologeti. Dai prodromi etimologici del termine alle successive e più ampie tonalità semantiche, se e in che misura la resilienza – attraversando gli utilizzi del concetto che non eccedono il perimetro di vicoli senza sbocco – può rinviare dinanzi al mondo e a sé stessi e farsi, dunque, veicolo di un’espansione teoretica e vitale?

2. Prodromi etimologici

Tornare alle origini, ripensare il fondo originario da cui tutto ha scaturigine è un esercizio archetipico che l’uomo ripete da secoli e che non può, essenzialmente, mai avere fine. L’impossibilità di pervenire all’atto conclusivo di un simile procedere discende dal fatto che il conoscibile, umanamente, soverchia di gran lunga il conosciuto. Così la ricerca umana si configura come l’asintotico ed ininterrotto tentativo di ripensare in maniera più originaria il conosciuto, il già dato, il già frequentato, per approssimarsi – nel segno della perfettibilità – al mai-del-tutto-afferrabile intero che, da frammenti, si abita. In questo senso, l’atto di ripetizione che si estrinseca nel volgersi sempre-di-nuovo a ciò che nell’evento-vita si impone, non si riduce ad una mera, autoreferenziale, ridondante iterazione dell’uguale, ma si profila come un’occasione di espansione conoscitiva e vitale:

Riconoscere non è vedere di nuovo qualcosa. I riconoscimenti non sono una serie di incontri, ma riconoscere significa piuttosto: conoscere qualcosa per ciò che ci è già noto. E costituisce l’autentico processo dell’«accasamento» (Einhausung) umano […] il fatto che ogni riconoscimento sia sciolto dalla contingenza della prima presa di conoscenza e sia elevato all’idealità. […] Nel riconoscimento è implicito il fatto che ora si conosce più propriamente di quanto si potesse fare nella confusione momentanea del primo incontro. Il riconoscere vede il permanente nel fuggevole.[1]

 Alla luce di ciò, nell’accostarsi a struttura, senso e direzioni dell’ipertrofica parola-concetto resilienza, può risultare fecondo ripercorrerne, ripensarne l’origine etimologica e gli sviluppi semantici; in un’operazione volta a restituire significato, portata e piano d’astrazione di ciò a cui ci si riferisce. Sebbene, infatti, non si tratti né di unindagine inedita né di un itinerario esauriente, risulta particolarmente interessante, nellottica di un allargamento prospettico, ritornare sul retroterra in cui il termine è sorto e si è, successivamente, sviluppato. Tanto più se, sia sul piano delle critiche sia sul fronte delle esaltazioni dell’utilizzo del termine-nozione resilienza[2] si assiste, spesso, ad un abuso o ad una sottovalutazione del significato etimologico dell’oggetto in questione: da un lato, nel radicarsi stricto sensu alla matrice tecnico-scientifica dell’originario impiego della parola se ne ignorano sviluppi ed evoluzioni; in questa cornice, se per resilienza si intende la «capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi»,[3] viene messa in discussione l’applicabilità del termine all’universo umano, pena il pericolo di appiattimento della vicenda antropica su dinamiche e funzionamento dei materiali. Cosa che, per definizione, squalificherebbe senza appello il ricorso al termine resilienza per ciò che riguarda l’umano, e la discussione sulla stessa potrebbe fermarsi qui. Dall’altro lato è la stessa operazione in senso contrario – l’aderente declinazione sull’evento umano del termine tecnico-scientifico – a condurre ad esiziali carenze concettuali e prassiche; non può vigere un’assoluta e non problematizzata interscambiabilità tra quanto la resilienza definisce nella tecnologia dei materiali e quanto delinea nell’universo antropologico. Se la resilienza deve potersi riferire all’umano è necessario soffermarsi su se e come ciò possa avvenire. Indagine, questa, che non può che strutturarsi sulla scorta di una debita sosta su ciò a cui il termine in questione etimologicamente rimanda e sui successivi sviluppi e consumi dello stesso nell’espansione semantica alla quale – nel tempo – è andato incontro. Da qui l’importanza di un ritorno più originario sul già-conosciuto, nel tentativo – mai del tutto conclusivo – di pensarlo, ancora-di-nuovo, più in profondità. È, infatti, ritornando all’origine latina di resilienza che emerge un particolare non di poco conto: almeno agli albori, il termine in questione, non delineava la proprietà, tipica di alcuni materiali, di tornare allo stato di partenza in seguito ad una deformazione o ad un urto; il verbo resilire – composto da re e salire – veniva impiegato nel senso di «balzare all’indietro», «indietreggiare», «rimbalzare indietro»,[4] per estensione ripercuotersi, ripiegarsi. Vi sono attestazioni dell’utilizzo del termine, nel senso appena illustrato, nelle Metamorfosi di Ovidio,[5] così come in altre opere di autori latini. Ciò fa propendere per l’ipotesi secondo cui la parola resilienza ricevette un’accezione precipuamente tecnico-scientifica solo in un secondo momento. Il termine, infatti, inizia ad essere largamente impiegato nella letteratura scientifica solo nel XVII secolo, ed è soprattutto rinvenibile, in ambito filosofico-scientifico, nel carteggio tra Cartesio, Mersenne e Beeckman; negli scambi epistolari in questione, il portato semantico del significato originario di resilienza sembra rendere agevole la declinazione dello stesso in termini scientifico-naturali per la descrizione di fenomeni e proprietà fisiche, laddove si assista ad urti e conseguenti rimbalzi.[6] Anche in questa prima evoluzione del termine – che renderebbe secondo alcuni studiosi, come si anticipava, difficile poter attuare una diretta trasposizione sul piano umano di un vocabolo dalle tinte fisico-materiali – permane il senso originario di resilienza, che è comunque privo di riferimenti espliciti ed esclusivi all’ambito puramente scientifico. A questo punto, resta da chiedersi: se è vero che gli ultimi, ipertrofici, utilizzi della parola-concetto resilienza prendono le mosse dall’impiego tecnico-scientifico del termine (cosa che va discussa), se e in che misura si può squalificare l’impiego di resilienza in ambito antropologico a partire dall’origine etimologica del termine? Sembra, infatti, che riferirsi all’origine etimologica di resilienza significhi dover compiere qualche ulteriore passo indietro, dal quale emerge un primo perimetro semantico, per così dire, generico; o, comunque, un originario utilizzo del termine che, rifacendosi ai concetti di «rimbalzare indietro», ripiegarsi, ripercuotersi, non è minimamente preposto alla stretta descrizione di particolari proprietà di materiali: al contrario, è la polifonia stessa del significato etimologico originario a rendere il termine-concetto in questione adatto a tratteggiare particolari fenomeni naturali. Posta, dunque, la possibilità di ricorrere alla parola resilienza per riferirsi alle regioni dell’umano dal punto di vista dell’etimologia, resta da chiarire – come si era anticipato – in che modo, e sulla base di quale significato, gli odierni apologeti del termine se ne siano appropriati, fino a renderlo uno dei luoghi concettuali più frequentati degli ultimi anni. L’impressione che se ne ricava è, infatti, che la più diffusa trasposizione sull’umano della resilienza sia attuata sulla scorta dell’accezione fisico-materiale del termine: da questo punto di vista, non hanno torto i critici del termine a contestarne gli usi impropri, le trasfigurazioni di piano d’astrazione indebite. In questo senso, resiliente sarebbe l’individuo capace – proprio come alcuni materiali – di resistere a urti e forze esterne senza spezzarsi, per ritornare, dopo lo stress patito, all’esatta forma di partenza. Dal punto di vista umano, però, un simile meccanismo non può funzionare; non solo: nel caso in cui si pretendesse di farlo si andrebbe, inevitabilmente, incontro a più di un problema, tanto sul piano teoretico-concettuale quanto sul piano prassico-vitale. Significherebbe, in prima battuta ed in via presupposizionale, dover intendere l’essere umano gettato nell’evento-vita, come un dispositivo essenzialmente capace di un’assoluta stabilità che, a fronte di qualsivoglia contatto con il ‘negativo’ costituito dall’alterità, sarebbe comunque ed in ogni caso in grado di tornare alla consueta ed inscalfibile forma iniziale. Tanti interrogativi sgorgano da questo presunto assunto di fondo: anche ammesso un tale funzionamento dell’umano, a quale assolutizzata forma di partenza ci si riferisce? Quale occasione di perfettibilità giace nella cristallizzazione di un’identità che si pretende incondizionata? Ed ancora: che tipo di rapporto si instaurerebbe con la dimensione negativa dell’alterità e con l’ineludibile necessità alla quale si è ontologicamente sottoposti? Si correrebbe il rischio di bandire tutto ciò che significa disgiunzione, scacco, sofferenza, lacerazione, dolore in un’epoca già predisposta a farlo. Da una tale prospettiva si innalzano gli attuali, diffusi, pervasivi impieghi del termine resilienza, tanto contestati da chi scorge e denuncia falle applicative dello stesso sul piano umano; gli stessi che, per analoghi ma opposti motivi, squalificano qualunque utilizzo della parola in questione nel riferirsi alle regioni antropologiche, in quanto etimologicamente appartenente a teatri semantici di matrice tecnico-fisica. Si è però visto, ripercorrendo le origini e gli sviluppi del termine-concetto resilienza, che anche una tale prospettiva si impone come eccessivamente esclusivista. È allora che, stando a ciò, occorre soffermarsi ulteriormente sul tema resilienza, nel tentativo di comprendere – al di là di apologeti e detrattori – se e in che misura possa rinviare dinanzi a sé ed al mondo, e farsi canale di espansione teoretica e vitale.  

3. Pars destruens

Se la resilienza deve potersi riferire all’umanolo si è dettoè necessario soffermarsi su se e come ciò possa avvenire. In prima istanza, come si è visto, occorre approcciarsi alla questione tenendo conto dell’origine etimologica del termine: quest’operazione è resa necessaria dal fatto che chi bandisce l’utilizzo della parola resilienza per riferirsi all’umano, lo fa proprio sulla scorta di presupposti limiti applicativi etimologici; ai lodatori ed assidui frequentatori ed utilizzatori della resilienza è contestata la mancata considerazione di un assunto fondamentale: «che con quel termine si designa la proprietà di un metallo di ritornare allo stato di partenza».[7] Tuttavia, ripensando etimologia e sviluppi della parola-concetto in questione, emerge un dettaglio fondamentale: l’impiego tecnico-scientifico di resilienza non è originario, non co-emerge con il termine stesso, ma è successivo; il latino resilire, almeno agli albori, assume il generico significato di rimbalzare, ritornare, ripercuotersi, ripiegarsi. Stando all’origine etimologica, dunque, nulla vieta, per definizione, di parlare di ‘resilienza umana’. È altresì vero, però, chealmeno dal XVII secolosi è imposto e diffuso maggiormente l’impiego tecnico-materiale del termine, sulla scorta del quale gli odierni apologeti della resilienza hanno, in larga misura, fondato le proprie proposte; da questo punto di vista si assiste, spesso, ad un indebito appiattimento di quanto il termine tratteggia nella tecnologia dei materiali su quanto, invece, delinea dell’universo antropologico. Una tale indiscriminata aderenza dei due piani d’astrazione conduce ad esiziali vuoti teoretico-prassici; in questo senso, con più di una buona ragione, il già citato Ferraris – nel soffermarsi sulla declinazione umana del senso fisico-materiale del termine resilienza – evidenzia: «Il che, trasferito sull’umano, significa essere incapaci di imparare dall’esperienza propria e altrui, cioè di ricevere una educazione, ossia una formazione che è anche, necessariamente, deformazione».[8] Così si perviene al punto della questione. Sarebbe improprio, dal punto di vista umano, parlare di resilienza nei termini stabiliti dal perimetro semantico tecnico-scientifico: la capacità, cioè, qualunque sia lo stress a cui si è sottoposti, di tornare all’esatta forma di partenza. Risulta, invece, ineludibile e necessario, nel tentativo di soffermarsi sulla ‘resilienza umana’, prendersi carico di ciò che la vicenda umana significhi. Stabiliti, dunque, questi presupposti occorre abitare – non volendo, con ciò, esaurire un orizzonte speculativo ben più ampio – gli interrogativi posti nel corso del paragrafo introduttivo.

In primo luogo, si impone la questione della forma iniziale, della presunta assoluta identità di partenza alla quale il resiliente – secondo il più diffuso utilizzo odierno del termine – dovrebbe riuscire a ritornare dopo l’esposizione ad un evento critico, doloroso, drammatico, traumatico. In questa cornice, a quale stabile configurazione ci si potrebbe riferire? L’impresa esistenziale ed esistentiva umana non si dispiega nell’alveo di un’assoluta stasi – cosa che, a tutta prima, dovrebbe essere ammessa per poter sostenere un identico ritorno alla forma iniziale del resiliente. La crisi, il dolore, la negatività ontologica dell’altro, in tal caso, andrebbero incontro ad un processo di nullificazione: per ritornare all’esatta forma iniziale occorrerebbe, infatti, resistere al peso di queste ultime – operazione, beninteso, di fondamentale e decisiva importanza in linea di principio – per poi estrometterle dal proprio vissuto. Se, infatti, l’obiettivo d’approdo consiste nel ritrovarsi all’identico stato di cose di partenza, a questo si potrebbe ritornare solo ed esclusivamente se il vissuto dispiegatosi tra forma iniziale e forma finale non scalfisca minimamente l’identità assolutizzata. In questa cornice, anche per un gioco di esemplificazione e comodità psicologica, è più facile che si pervenga alla nullificazione piuttosto che all’elaborazione, sedimentazione, cementificazione, metabolizzazione del vissuto critico.  

E questo meccanismo di estromissione può declinarsi in vari modi e dar luogo a molteplici tracciati che, non di rado, si incontrano nell’utilizzo di resilienza in quanto formula taumaturgica e slogan motivazionale; così si corre il rischio che la parola-concetto in questione diventi l’emblema di modi esistenziali ed esistentivi che si discostano dalla complessità che recano essenzialmente in sé: in questo quadro la resilienza può diventare la passiva, indiscriminata ed acritica sopportazione dello status quo, perché, in ogni caso e nonostante tutto, si potrebbe tornare alla forma di partenza; il fondante incontro con la negatività del sé e del mondo, sarebbe – in questo caso – vissuto con inerzia, neutralità, indifferenza, misconoscendo la controparte attiva, fermentate, gorgogliante, motrice del patire.

A livello ontologico, una simile concezione della resilienza allontanerebbe dal confronto con Ananke, l’orizzonte di necessità al quale l’uomo, nella sua gettatezza nel mondo, è ineludibilmente sottoposto. Conseguentemente distanzierebbe anche dal lavoro propositivo sgorgante dal confronto appena citato, causando una pericolosa contrazione esistenziale e prassica sul sé. In ultima analisi, minerebbe in maniera esiziale l’agire dell’uomo nel mondo.
In una simile cornice, aleggia il pericolo – in un’epoca già tesa sistemicamente a bandire il dolore in nome di una coazione alla felicità – di non tenere conto della frattura a cui, nell’esperienza, l’uomo è inevitabilmente esposto:

I pensieri negativi vanno evitati e immediatamente sostituiti da pensieri positivi. La psicologia positiva subordina persino il dolore a una logica della prestazione. L’ideologia neoliberista della resilienza trasforma le esperienze traumatiche in catalizzatori di un aumento della prestazione. […] L’allenamento della resilienza in quanto palestra dell’anima ha il compito di modellare l’essere umano nella forma di un soggetto di prestazione il più possibile estraneo al dolore, e sempre felice.[9]

  Se, come sembra, la resilienza è oggi posta a fondamento di un processo di ripresa, crescita e perfezionamento, quest’ultimo non può che poggiare sull’intimo ed essenziale dispositivo che ne regola l’andamento, gli sviluppi, le traiettorie, le articolazioni e che non può prescindere – perché è in quest’orizzonte che affonda le radici – dall’esposizione alla negatività dell’esserci.
È, dunque, la forma essenzialmente metamorfica e diveniente del nostro esserci a decretare l’impossibilità di un ritorno all’identica forma di partenza – come, non di rado, si pretende. Attraversare la negatività dell’altro, della radicale differenza in cui il mondo si rivela e la necessità si impone, significa andare incontro ad un inevitabile processo di costante mutamento: all’individuo è dato tornare a una forma di partenza che è di nuovo quella ma anche sempre un’altra. E questo accade tanto sul piano biologico quanto sul piano spirituale, culturale: dal momento della stesura del presente scritto a quando lo stesso sarà letto da chi avrà la pazienza di farlo – sperando, con ciò, di scaturire qualcosa – i più o meno percettibili cambiamenti entropici e storico-contestuali avranno già fatto il loro corso; e tanto chi scrive quanto chi legge sarà già, in una qualche misura, leggermente diverso da allora, per quanto sempre lo stesso. Da qui la dimensione asintotica ed ininterrotta dell’impresa esistenziale ed esistentiva umana.

Non si può essere resilienti sempre ed a tutti costi, nel senso ad oggi ordinariamente inteso e diffuso. Farlo, sulla scorta di narrazioni di un’invincibilità ad oltranza, è una contraddizione in termini. E se l’esistenza è essenzialmente contraddittoria, enigmatica, complessa, è di questo stesso fondo antinomico, aporetico che bisogna farsi carico. Il che non si declina nell’ostentata e populistica visione del mondo che pretende di estirpare alle radici il dolore dell’esserci, ma si configura come il tentativo di affinare la consapevolezza del permanere del limite nella possibilità, dell’inatteso nel progettante, dello sfuggente nel permanente, della necessità nel contingente.[10] È il primo atto di onestà intellettuale e meravigliato disincanto filosofico nei confronti di sé stessi e del mondo: laccettazione e presa in carico della gettatezza nell’intero, degli inauditi orizzonti di Ananke che – indipendentemente dalla volontà dei singoli enti – si impongono, della costitutiva finitudine dell’umano. È quanto accade sul piano esistentivo ed esistenziale, in un costante gioco chiaroscurale di rimandi prospettici: il muro in cui ci si infrange nelle più quotidiane, ordinarie, abitudinarie attività proietta su orizzonti altri, fondanti, decisivi, rivelando l’essenza profondamente ossimorica dell’uomo; il movimento voluto e la stasi subita – e viceversa – in un intero complesso, intricato, inaudito, eccedente rispetto ad ogni frammento, velleità, progettazione. La consapevolezza di ciò non deve, però, condurre ad un’assoluta paralisi: qualcosa si dovrà pur fare della rassegnazione, di fronte alla limitatezza del nostro esserci. In questo quadro – appagante e terrificante, meraviglioso e terribile, lucente e buio – si può essere resilienti

4. Pars construens

Esistere, ex-sistere, è venir-fuori. Ma significa anche porsi fuori, ininterrottamente; essere tratti dall’alterità, dalla differenza, dall’enigma mai-del-tutto-solubile dell’ingiustificabile fondo che tutto giustifica. Conoscere è, sulla scorta di ciò, ri-conoscere; e l’impresa conoscitiva si condensa nel tentativo di approssimazione, asintotico ed ininterrotto, alla complessità di un intero mai conclusivamente decifrabile. Ogni confine tracciato, ogni disegno di chiusura si dispiega negli sconfinati orizzonti dell’apertità. Si innesca, così, un gioco di soglie – nucleo pulsante dell’impresa umana dello stare al mondo – in cui ogni attraversamento è mutamento, metamorfosi, trasformazione, esperienza continua di sé e del mondo:

così la parola del filosofo (ma anche quella del poeta, dell’artista in genere e di ogni uomo nel miracolo quotidiano della comunicazione) affronta ogni volta il compito impossibile di dire e raggiungere il cuore dell’essere, l’alterità radicale, ogni volta misurando l’inadeguatezza della sua pretesa e tuttavia elaborando in questo smacco ripetuto e sempre di nuovo tentato il senso irrinunciabile della sua impresa.[11]

L’enigma rende l’anima più ardita, temeraria, fremente: vivifica il procedere metamorfico dell’uomo nel mondo. Mondo che è identico e differente, stabile e in moto, unitario e molteplice. Uomo che è sempre lo stesso ma anche sempre diverso, essenzialmente condannato e benedetto dall’incontro con l’alterità, la cui più radicale e naturale manifestazione è la disgregazione, il disfacimento, il contatto primo e ultimo con l’abisso dell’ignoto, la soglia d’intersezione tra essere e nulla in cui arde, fermenta e si tormenta il pensiero. L’imbattersi nell’ineluttabilità di Ananke e nell’imprevedibilità di Tyche.

Questo originario, archetipico, ininterrotto porsi-fuori dell’esistenza umana non è un processo autoreferenziale, inerte, un neutro ed indifferente accadere che sfuma nella stasi di un tonfo sordo; al contrario, rimbalza indietro, culmina e fermenta in una ripercussione, in un ripiegamento: l’uomo, che dal mondo emerge ed allo stesso ritorna, si impregna di mondo per poi ritornare rinnovato – uguale e diverso – in sé. Balzare indietro, ripercuotersi, ripiegarsi, resilire: ecco il nucleo etimologico, il profondo significato originario di resilienza, che rinvia l’uomo dinanzi al sé ed al mondo. Su questo sfondo, in un’epoca profondamente caratterizzata dalla tendenza a disfarsi di tutto ciò che costituisce un limite, riemerge impetuosamente «l’immane potenza del negativo», ritenuta da Hegel «l’energia del pensiero».[12] L’esistenza umana non di dispiega nell’alveo della fissità, ma è essenzialmente chiaroscurale, puntellata dall’alterità, dal travaglio, dalla lacerazione, dallo strappo, dal dolore, dalla disgiunzione, dalla mediazione. E tutto ciò non può che ripercuotersi, rimbalzare, ripiegarsi sul sé: il rivelarsi del mondo nel suo essere-altro, nella sua radicale differenza necessita della dovuta problematizzazione nel segno della propositività, della costruttività, della perfettibilità.

Se per ‘resilienza umana’ si intende – nell’impiego del termine, ad oggi, maggiormente diffuso – la capacità di conservare, in ogni caso e nonostante tutto, la propria (pretesa immutabile) forma iniziale, si accoglie e rappresenta l’umano in termini di fissità, con il conseguente rischio di estromissione, annullamento, nullificazione dell’alterità, della differenza, del negativo dell’esistenza. In tal caso, a risentirne sarebbe proprio il portato del significato originario di resilienza, dal momento che non avrebbe motivo di accadere alcuna ripercussione, ripiegamento, balzo all’indietro, nel senso di metabolizzazione del negativo, dell’altro, della differenza. Questi non sarebbero debitamente presi in carico per come i diritti che la realtà – nel suo imporsi – reclama, richiederebbero. L’identità di partenza a cui si fa riferimento ed alla quale – da “eroi” della resilienza – si dovrebbe esattamente ritornare, è posta come una realtà già nota, cristallizzata in una forma, più o meno, stabilita .Ma, come evidenzia ancora Hegel, negli scenari del dato per assodato e dei punti fissi, aleggia il pericolo di una stasi teoretica e vitale:

Il modo più comune di ingannare sé e gli altri consiste nell’introdurre nella conoscenza qualcosa di noto e di accettarlo così com’è; e in tal caso, nella congerie dei suoi discorsi, un tale sapere non fa un solo passo avanti né si rende conto di come ciò accada. Senza il minimo esame, il soggetto e l’oggetto, Dio, la natura, l’intelletto, la sensibilità, ecc., vengono così posti a fondamento come noti e come qualcosa di valido, e costituiscono dei punti fermi per il transito di andata e ritorno. Il movimento si dispiega allora incessantemente tra questi punti che rimangono immobili, e con ciò ne sfiora solo la superficie. Da questa angolazione, l’apprendimento e la verifica consistono nel vedere se ognuno trovi nella propria rappresentazione ciò che un tal sapere ha detto, se gli sembri che le cose stanno così e se gli siano note o no.[13]

La questione, allora, non si pone dal punto di vista della possibilità o meno di pervenire a momenti conoscitivi saldi, al «qualcosa di noto» di cui parla Hegel. Al di là dell’apparato filosofico hegeliano tout court – caratterizzato da implicazioni teoretico-prassiche ben più ampie e nette di ciò che, al momento, si sta discutendo – risulta del tutto possibile pervenire a regioni di solidità, spunti e frammenti di conoscenza stabile nell’orizzonte inesauribile e metamorfico dell’intero. Il problema consiste, invece, nell’accogliere il già-noto come fissato ed immobile; come si pretende di fare quando si parla di ‘resilienza umana’ in termini di capacità di ritornare, a partire da una forma iniziale, all’identico stato di cose di partenza. Si articolerebbe, allora, un movimento tra poli fissi in cui il margine speculativo non eccederebbe la superficie. Il processo di problematizzazione – carente in quest’ultimo dispositivo – si configura, invece, come la costante ed asintotica messa in discussione del già-noto; il che significa doversi, giocoforza, confrontare con il negativo, l’alterità, la mediazione.

Come accade, d’altro canto, non solo nel processo di ricerca di ciò che concerne il mondo, ma anche nell’indagine sul sé, sulla propria identità che – appunto come l’intero in cui ci si muove, ma non volendo con ciò appiattire i due eventi l’uno sull’altro – è essenzialmente metamorfica, chiaroscurale.

Elaborare il sé ed il mondo significa, costitutivamente, porre in questione il sé ed il mondo, intraprendendo, così, un’impresa – meravigliosa e terribile, rigenerante e decostruttiva, essenzialmente chiaroscurale – di espansione teoretica e vitale. Ma, in ciò, risulta ineludibile farsi carico della dimensione negativa dell’esistere; e non estrometterla, annullarla, nullificarla. È in gioco il vincolo veritativo ed il rigore teoretico-vitale del nostro stare al mondo. Al di là di ogni meccanismo di comodità psicologica, di esemplificazione della complessità del reale, di consolazione palliativa, di produttività frenetica, che sembrano giacere sul fondo e sullo sfondo degli, ad oggi più diffusi, impieghi del termine ‘resilienza’.

Attraversare le regioni del negativo si configura come un esercizio di complessità, un gioco veritativo al quale si è chiamati e dal quale dipende il modo di stare al mondo dell’uomo come individuo e come membro della comunità umana:

La vita dello Spirito […] non è quella che si riempie d’orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa. Lo Spirito conquista la propria verità solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. Lo Spirito è questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando ci sbarazziamo in fretta di qualcosa dicendo che non è o che è falso, per passare subito a qualcos’altro. Lo Spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso. Tale soggiorno è il potere magico che converte il negativo nell’essere.[14]

Prendersi carico del negativo dell’esistenza significa, dunque, ritrovarsi in quanto uomini; è una pratica di consapevolezza, sulla base della quale parametrare gli itinerari prassici. Non una paralizzante stasi, dunque, l’approdo; ma un proteiforme, asintotico ed ininterrotto movimento, i cui sentieri sono, sempre-di-nuovo, irrorati dall’esperienza del negativo, dell’essere-altro: in questo caso, non solo dell’alterità costituita dal mondo esterno, ma anche del metamorfico essere sempre lo stesso ma essere sempre di nuovo un altro del sé, in un gioco di continui rimandi, ripercussioni, ripiegamenti. Il sé rigenerato, ripristinato – lo stesso ma non negli esatti termini di ciò che era – intraprende poi un ulteriore processo di rigenerazione che lo vede impegnato nel mondo, a livello individuale, sociale-comunitario, relazionale, etico e politico. 

In questo quadro, allora, la parola-concetto resilienza non designa – come, non di rado, accade – quel mero rimbalzare all’indietro che riporta l’uomo, in ogni caso e nonostante tutto, all’identica forma iniziale – in un meccanismo di fissità. In tal caso – lo si è detto – il negativo dell’esserci, la diversità dell’essere-altro non sarebbero debitamente prese in carico, quando non addirittura annullate, nullificate, estromesse. Al contrario, la resilienza, recupera il significato etimologico originario di rimbalzare indietro, ripercuotersi, ripiegarsi che, nell’universo umano, non può prescindere dal decisivo e fondamentale incontro con la dimensione negativa dell’esistenza. Se, trasposta nelle regioni dell’uomo, la resilienza è tratteggiata come la capacità di resistere agli urti, alle lacerazioni, agli strappi di cui l’evento-vita è puntellato, risulta necessario problematizzare debitamente gli impatti ai quali si è esposti; perché anche nell’atto del superamento degli stessi, questi non sono semplicemente annullati, nullificati, estromessi ma sedimentati, metabolizzati: accade ciò che in tedesco viene reso con estremo rigore ontologico-linguistico dal termine Aufhebung – parola-concetto così cara ad Hegel, da essere posta dallo stesso filosofo prussiano a fondamento del decisivo e centralissimo processo dialettico. L’enantiosemia del termine risponde debitamente all’esigenza di complessità che il reale richiede: il verbo aufheben significa infatti, al contempo, superare e «raccogliere», «annullare» e «conservare», «neutralizzare»[15] e sollevare; e possiede uno spettro semantico – composto e contrapposto – non lontano dalla gittata di significato del verbo latino tollere, che significa, ad un tempo, tanto «togliere», «rimuovere, eliminare, sopprimere», quanto «innalzare», «prendere su di sé».[16] La doppiezza dei due termini appena citati riflette icasticamente la complessità di un itinerario – quello dell’esperienza umana – caratterizzato essenzialmente da una dinamica di sedimentazione, cementificazione, metabolizzazione del vissuto: in questo senso, il ‘negativo’ – da momento fondamentale dell’incedere dell’uomo nel mondo – se ammesso, affrontato, problematizzato e, in una qualche misura, elaborato, è fonte di quell’ininterrotto ed asintotico superamento del sé che fonda l’esercizio storico-conoscitivo umano. Se con un atto deliberato ed autoreferenziale lo si bandisse dalla trama dell’evento-vita, si compirebbe un gesto di violenza ontologica, non necessariamente destinato a pericolose ricadute etico-morali, ma sicuramente compromettente la gittata teoretico-speculativo e prassico-vitale degli itinerari di ricerca incardinati su una simile dinamica di esclusione. E, allora, risulta necessario, decisivo, ineludibile abitare continuativamente l’interrogativo: qual è l’orizzonte di fondo che abbevera, irrora, significa il nostro verso dove? La stasi propugnata – anche quando non esplicitamente – dalle più diffuse nozioni di ‘resilienza umana’ oggi proposte sulla base di quell’impiego del termine secondo cui essere resilienti significa possedere la capacità di conservare, in ogni caso e nonostante tutto, la propria (pretesa immutabile) forma iniziale? O il movimento – meraviglioso e terribile – discendente da quell’impiego di ‘resilienza’ che, sulla scorta di un ragionato ritorno sull’origine etimologica del termine, delinea la capacità di prendersi carico anche della dimensione negativa dell’esistenza? Perché essere umani, e ritrovarsi ritualmente come tali, significa anche questo: «Percorri le terre d’oltretomba, amico, smarrisciti e ritrovati e torna a smarrirti; questo è un giusto percorso soprattutto se hai a guida Orfeo».[17] Orfeo, che è custode delle soglie, dei crocicchi, dei luoghi di passaggio, momenti cardine dell’evento-vita. Soglie da abitare, che anche la parola-concetto resilienza è capace di squadernare se debitamente pensata e ripensata in riferimento alle regioni dell’umano.

 

 

 

[1] H.-G. Gadamer, L’attualità del bello, a cura di R. Dottori e L. Bottani, Genova, Marietti, 2021, p. 51.

[2] Oltre che sui canonici mezzi d’informazione – carta stampata, rotocalchi televisivi, web e social – la discussione sulla resilienza ha impegnato, negli ultimi anni, non pochi pensatori di varie matrici prospettico-disciplinare. Tra coloro che si sono occupati di resilienza, sostenendone le cause, figura soprattutto l’opera: R. Hanson, La forza della resilienza. I 12 segreti per essere felici, appagati e calmi, a cura di E. Cantoni, Firenze, Giunti, 2019. La prospettiva di Hanson è vicina alla maggior parte delle narrazioni politico-istituzionali dell’ultimo decennio: non di rado il termine è stato designato, da importanti leader politici, come concetto chiave degli ultimi anni. Altre monografie dedicate alla questione resilienza, sempre sul fronte dei sostenitori del concetto ma dai toni più cauti, sono: B. Cyrulnik, E. Malaguti (a cura di), Costruire la resilienza. La riorganizzazione positiva della vita e la creazione di legami significativi, a cura di R. Sardi, Trento, Erickson, 2005; E. Malaguti, Educarsi alla resilienza. Come affrontare crisi e difficoltà e migliorarsi, Trento, Erickson, 2005; A. Oliverio Ferraris, A. Oliverio, Più forti delle avversità. Individui e organizzazioni resilienti, Torino, Bollati Boringhieri, 2014. In particolare, nel primo di questi testi, gli autori distinguono tra un buon ed un cattivo impiego della resilienza, come fa anche Diego Fusaro nell’opera D. Fusaro, Odio la resilienza. Contro la mistica della sopportazione, Milano, Rizzoli, 2022. La proposta del filosofo torinese – annoverabile tra i detrattori del concetto in questione – investe il concetto di resilienza quando propugnato come virtù della sopportazione a oltranza, nella propria individualità, di un mondo contraddittorio dato per assodato, ineluttabile, immodificabile. In tal senso, il rischio denunciato da Fusaro consiste nella mera contrazione e risoluzione biografico-individualistica delle problematiche del reale. Si perverrebbe, così, ad un dispositivo secondo cui, data per assunta l’assoluta irrevocabilità di strutture in realtà passibili di resistenza, l’unica possibilità di redenzione per il soggetto consisterebbe nel mutare solo ed esclusivamente il sé, in ordine ad un acritico e passivo adattamento al reale. In altre parole, secondo Fusaro, l’odierno e più diffuso impiego di resilienza sarebbe sinonimo di resa, indifferenza, precarietà: se la realtà in cui l’uomo è gettato è intesa tout court in quanto pura ed inscalfibile necessità, il soggetto può e deve solo tentare di mutare sé stesso – depositario di tutte le problematiche, carenze e contraddizioni – e mai un oggetto dato per indiscutibile, immodificabile.

[3] G. Devoto, G.C. Oli, Dizionario della Lingua Italiana, a cura di L. Serianni e M. Trifone, Firenze, Le Monnier, 2004-2005.

[4] G.B. Conte, E. Pianezzola, G. Ranucci, Dizionario della Lingua Latina, Firenze, Le Monnier, 2004.

[5] Su ciò cfr. Ovidio, Metamorfosi (ed. a cura di P. Bernardini Marzolla, Torino, Einaudi, 2015) VI, 374 (pp. 228-229); XII, 480 (pp. 491-493); III, 677 (pp. 124-125). Nei passi citati, Ovidio impiega il termine latino in questione nell’accezione di ‘ritornare’, ‘rimbalzare indietro’.

[6] Su ciò cfr. R. Descartes, I. Beeckman, M. Mersenne, Lettere 1619-1648, a cura di G. Belgioioso e J-R. Armoghate, Milano, Bompiani, 2015, lettere IX (p. 130), X (p. 136), XIII (p. 160), XXIII (p. 288), XCIV (p. 1018), CIII (p. 1116), CXIII (p. 1184), CXIV (p. 1204), CXV (p. 1214). In questo itinerario scientifico per corrispondenza – nel quale intervengono anche Bourdin ed Hobbes – il termine latino ‘resilienza’ viene impiegato nel significato di ‘rimbalzare’, ad eccezione della lettera XIII; in quest’ultimo documento, che Beeckman indirizza a Mersenne, ‘resilienza’ è utilizzato per delineare la capacità di ‘resistenza’.  

[7] M. Ferraris, Post-Coronial Studies, Torino, Einaudi, 2021, p. 9.

[8] Ibidem.

[9] B-C. Han, La società senza dolore, a cura di S. Aglan-Buttazzi, Torino, Einaudi, 2021, pp. 6-7.

[10] In questo quadro, è particolarmente pregnante il contributo sul tema resilienza della corrente stoica. Un interessante punto di vista si condensa nell’opera filosofica di Epitteto, che attua – nel suo Manuale, in realtà scritto dal suo discepolo Arriano di Nicomedia, sulla scorta delle lezioni del suo maestro – tra ciò che dipende dall’uomo e ciò che, imponendosi necessariamente, sfugge al controllo dell’essere umano. Stabilità la fondativa differenza, Epitteto sostiene che gli interessi e le attività dell’uomo devono volgersi a ciò che è in nostro potere. Attuare una simile circoscrizione non è sinonimo di resa, ma funge da presupposto dell’occasione di collocare la libera azione dell’uomo in un mondo intriso di necessità che si impone e margine d’azione nella stessa. In tal senso, nella proposta di Epitteto, la forza d’animo si compone della presa in carico della differenza tra ciò che dipende dall’uomo e ciò che non può essere, in alcun modo, governato dallo stesso, e della conseguente azione libera dell’essere umano sul fondo tracciato. 

[11] C. Sini, Postfazione in M. Merleau-Ponty, Elogio della filosofia, Milano, SE, 2008, p. 80.

[12] G. F. W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di V. Cicero, Milano, Bompiani, 2000, p. 85.

[13] Ibidem.

[14] Ivi, p. 87.

[15] Il dizionario di tedesco Sansoni, a cura di Edigeo, Milano, Rizzoli Larousse, 2003.

[16] G.B. Conte, E. Pianezzola, G. Ranucci, Dizionario della Lingua Latina, cit.

[17] M. Sgalambro, Teoria della canzone, Milano, Bompiani, 1997, p. 44.


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RESILIENZA , ETIMOLOGIA , FILOSOFIA TEORETICA


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Filosofia

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