Kierkegaard: resilienza nell’ermeneutica del ricordo

di Stefano Piazzese

 

Aspetto l’uragano e quindi aspetto la ripresa. Ma non importa se verrà l’uragano soltanto
sarò contento, sarò ineffabilmente contento lo stesso, anche se la sentenza sarà che la ripresa non è possibile.[1]

 

La consapevolezza del legame simbiotico che connette l’esperienza alla strutturazione di un pensiero appartiene al cammino storico della filosofia che, à la Dilthey, possiamo sussumere nel concetto di Lebesphilosophie: una filosofia radicata nella vita sempre collocata storicamente e che, allo stesso tempo, risulta animata dall’incessante tentativo di trascendere le stesse forme storiche da cui ha avuto scaturigine, in quanto tali strutture finite non possono esaurire l’inesauribile manifestarsi della vita, la forza vitale che, in termini esperienziali, rimanda sempre all’evento, al nuovo che Simmel definisce mehr als Leben (più che vita). Questa premessa è fondamentale per comprendere l’opera del filosofo e teologo danese Søren Kierkegaard, La ripresa. Un esperimento psicologico (Gjentagelsen. Et Forsøg i den experimenterende Psychologi af Constantin Constantius),[2] dove l’esperienza apre lo spazio al tentativo rigoroso di comprendere l’esistenza e quindi di esplorare la costellazione prismatica del dolore che, nel pluralismo nomade dell’esserci, costituisce l’evento determinante, più di ogni altro, la vita di Homo sapiens. Scopo del presente saggio è quello di approfondire il tema della resilienza in termini di ermeneutica del ricordo attraverso due tappe principali in cui verranno analizzati alcuni aspetti dell’opera in questione, e una finale in cui verrà tracciata una linea di confronto tra le coordinate del pensiero filosofico-teologico sviluppate e la definizione di resilienza qui proposta.

L’opera del 1843, riportante la firma di Constantin Constantius,[3] va collocata nel cuore della vicenda biografica del nostro autore, in quanto i riferimenti a quest’ultima ne sono il fondamento. In particolare, vanno ricordati la rottura definitiva del fidanzamento del filosofo con Regine Olsen,[4] avvenuta nell’ottobre del 1841, e il distacco dalla filosofia hegeliana. L’opera è costruita nella forma di un romanzo breve scritto in prima persona e, in parte, in forma epistolare, un dialogo fecondo con sfumature ironiche che Kierkegaard vuole intrattenere con chi legge i suoi pensieri; ciò si comprende principalmente dall’ultima parte dell’opera, dove il destinatario delle lettere è chiamato Mio silenzioso confidente. L’approccio alla lettura di Kierkegaard deve prendere le mosse da una premessa metodologicamente imprescindibile, ovvero: nel caso del filosofo danese «il rapporto tra l’autore e la sua opera, oggetto privilegiato d’indagine nel clima vagamente romantico e, più in particolare, in quello esistenzialistico, è semplicemente ineludibile».[5] L’universo semantico e teoretico di Kierkegaard, afferma Spera, è «una psicologia complessa e complicata, un continuo riflettersi negli scritti, in modo più o meno mediato, Carte e Opere, pseudonimi molteplici e diversi che prospettano possibili rapporti diversi con l’esistenza».[6]

Prima di entrare nel vivo dell’argomento è opportuno, nonché salutare ai fini della comprensione, leggere alcune considerazioni tratte dalla Postilla non scientifica alle briciole di filosofia (1846) dove Kierkegaard, attraverso uno sguardo retrospettivo, traccia i confini interpretativi de La ripresa e afferma: l’opera «non contiene materia cattedratica, tutt’altro, ed era propriamente quel ch’io desideravo; poiché la mia convinzione è sempre che la disgrazia della nostra epoca consiste nell’aver fatto un’indigestione di sapere, dimenticando l’esistere e cos’è l’interiorità».[7] Non è questo, forse, il medesimo dramma della nostra epoca? Il lettore stesso potrà (ri)trovare nella lettura kierkegaardiana qui proposta una prospettiva filosoficamente fondata per interpretare la propria esistenza e l’epoca in cui quest’ultima è collocata: il XXI secolo.

Quale significato dà il filosofo e teologo danese al concetto di ripresa? Sempre dalla Postilla leggiamo che bisogna intenderla come «l’espressione dell’immanenza, così che a furia di disperare si possiede se stessi e si ha la verità».[8] Immanente come immanente è il contesto in cui l’esserci è storicamente collocato e che, tuttavia, lo trascende dirigendo costantemente la stessa esistenza verso un quid che è altro da essa e su cui vuole dominare (libido dominandi) attraverso la spinta futurizzante della prassi trasformatrice; lo spazio dell’azione, in Kierkegaard, è sempre lo spazio delle possibilità in cui piomba il peso ineluttabile dell’angoscia: il prezzo che il singolo deve pagare per la propria illusione di libertà. L’angoscia di Constantin Constantius, un cervello estetico-intrigante, dispera della ripresa definita anche nuova immediatezza, un «movimento in virtù dell’assurdo»[9] la cui assurdità consiste nella sospensione della dimensione teleologica di tale evento. La ripresa non è mero ricordo, ma il tentativo che in esso ha luogo di ‘ri-creare’, ancora una volta, ciò che si era in quel passato a cui il ricordo rimanda. In questa immediatezza è assente ogni fine, dissolto è ogni τέλος. Alla domanda “perché avviene ciò?” non si trovano risposte valide se non nell’insuccesso dello stesso evento per cui ogni ripresa, o ripetizione,[10] è un tentativo volto al fallimento (questo l’elemento che accumuna i due resoconti) poiché l’entropia, legge suprema del tempo che governa ogni ente, declama che ciò che fu non può ritornare nel medesimo modo. Pertanto, il fallimento come esito finale della ripresa ha una ‘logica’ che qui viene definita in relazione alla sua determinazione ermeneutica: la prova,[11] concetto che sarà approfondito più avanti.

La dialettica dell’esistenza delineata da Kierkegaard è intrisa di tragicità: l’angoscia che caratterizza la vita è, stando alla definizione del filosofo, una vera determinazione tragica. La dimensione tragica dell’angoscia consiste nel fatto che essa «contiene un momento ulteriore che la porta ad attaccarsi maggiormente all’oggetto amato, così tutta l’occupazione dell’angoscia si volge in pena».[12] La ripresa si colloca all’interno di questo momento ulteriore. Quando si fa riferimento al pensiero filosofico e teologico di Kierkegaard in relazione alla ripresa bisogna aver ben chiaro il principio appena esposto: il concetto di angoscia è a fondamento del discorso filosofico sulla vita umana. Il momento ulteriore fa sì che l’angoscia si attacchi maggiormente all’oggetto, amandolo e temendolo allo stesso tempo. Esso ha una funzione doppia: se da una parte è il movimento che scopre, che procede per continui assaggi, e in questo modo individua la pena girandole attorno, d’altra parte è improvviso e genera tutta la pena nell’immediato.
In Kierkegaard filosofia e teologia coabitano e rendono ragione della definizione che Szondi ha dato di questo pensatore: il precursore religioso di un pensiero areligioso.[13]

 

1. Possibilità della ripresa nel sentimento amoroso          

La domanda fondamentale elaborata dal filosofo, posta in apertura della prima parte dell’opera, indica il nesso ineludibile tra l’esperienza della ripresa e il sentimento amoroso: «potresti partire a Berlino, mi dissi, dove sei già stato una volta, per accertarti se la ripresa è possibile e renderti conto del suo significato«[14] – Kierkegaard si recò per la prima volta a Berlino il 25 ottobre del 1841, quattordici giorni dopo la rottura definitiva del fidanzamento con Regine. Pertanto, la ripresa - tornare a Berlino – non è altro che il tentativo di ri-prendere, in modo consapevole, esperienze passate che appartengono, dunque, alla memoria del vissuto, alla teorizzazione di una coscienza storica in termini esistentivi. Il dato biografico che sta a fondamento dell’opera in questione non è la rottura del fidanzamento con Regine, avvenuta due anni prima, ma la notizia del suo matrimonio con Johan Frederik Schlegel: «Si è sposata«[15] – l’accettazione è compiuta. Berlino, infatti, è la città in cui il filosofo ritorna per verificare la possibilità e il significato della ripresa: il ricordo diventa il motore propulsore dell’azione trasformatrice del presente che Homo sapiens, attingendo alla memoria, vuole rivivere ancora una volta, ancora per poco. Ma tale reiterazione è destinata a fallire in termini di realizzazione teleologica poiché s’impone il principio di dissonanza con l’esistente: non vi può essere alcuna ripresa. Sopraggiunge, come dice il celebre canto leopardiano, amarissima allor la ricordanza.[16] Eppure, al di là di ogni fine, la ricordanza conserva la sua verità che la eleva, stando a Kierkegaard, a unica esperienza autentica, soprattutto in termini amorosi. Il filosofo veste i panni dello psicologo e afferma: «il solo amore felice è l’amore-ricordo».[17] Certamente ci troviamo di fronte a una prospettiva molto problematica, e dunque autenticamente filosofica. Problematica in quanto definisce lo stare del singolo come colui che vive perennemente nell’esperienza del ricordo - Animal memorans – e che, allo stesso tempo, traccia dei confini esperienziali risultanti alquanto riduttivi se si pensa alla celebrazione dell’istante il cui fulgore fa nuove tutte le cose, e il cui anelito a non trapassare declama il celebre verso faustiano: «Verweile doch, du bist so schön!» (Fermati, dunque, sei così bello!).[18]

Nella ripresa diversi elementi che determinano il sentimento amoroso cessano di manifestarsi: l’affanno della speranza, l’angoscia caratterizzante l’inquietudine del nuovo, l’ansia che scandisce il tempo della scoperta. Rimane solo la sicurezza beata dell’istante. Qui viene posta una fondamentale distinzione tra ricordo e ripresa in termini metaforici: «Il ricordo è un vestito smesso, per quanto bello non puoi indossarlo, perché non ti entra più. La ripresa è una veste che non si può consumare, che non stringe né insacca, ma dolcemente aderisce alla figura».[19]

Per il filosofo e teologo danese il nuovo che caratterizza la tensione di ogni esperienza reca con sé la noia, al contrario di quanto comunemente si possa sostenere, che invece risulterebbe estranea alla ripresa. Per tale ragione, l’apparente scissione tra ricordo e ripresa appare problematica se si pensa che quest’ultima è una costruzione in forza del ricordo, e che solo in esso la ripresa può avere il proprio fondamento prassico: io ricordo un determinato episodio e, in forza del fatto che ricordo tale episodio, dirigo la mia prassi in modo da mettere in atto il tentativo di riprendere quanto ho vissuto. In questa dinamica vengono conciliati e uniti due Ereignisse che per Kierkegaard risultano, almeno in sede di definizione teoretica, disgiunti e non reciprocamente implicanti.

Mal si concilia la linea di demarcazione posta da Kierkegaard con il dato fenomenologico, in quanto sempre più umano (troppo umano si direbbe) non è solo colui che vuol fare esperienza della ripresa e comprenderla nel profondo, altresì colui che ha la consapevolezza che vivere vuol dire ricordare e che riprende perché ricorda. La sete dell’eterna giovinezza che viene dalla ricerca tempo perduto non esclude il coraggio di una ripresa che pur ponendosi come antesignana nei confronti della noia del ricordo rimane, purtuttavia, un tentativo fallito in quanto s’infrange sullo scoglio invisibile di Necessità.[20] La ripresa reca sempre con sé il nuovo (e non la noia) di ogni esperienza in cui l’esserci, pur volendo, non potrà mai realmente riprendere il già vissuto. Il principio dell’entropia costituisce il limite che rende fallimentare ogni tentativo di ripresa, ma ciò non dice nulla sull’importanza e sulla necessità di questa illusione per la vita umana.

Poste le suddette premesse ermeneutiche, imprescindibili per cogliere l’argomento del filosofo, e fatte le dovute osservazioni critiche a tal riguardo, torniamo al contesto teoretico-esperienziale in cui il concetto kierkegaardiano di ripresa è sviluppato, ovvero la questione amorosa. Qui cessa ogni speranza, e il ricordo non soddisfa appieno la sete del ricordante. La ripresa è (ironicamente) quel di più che sazia e che, parimenti, dona alla vita il carattere di motilità che viene del ricordo. Se il ricordo non sazia, come sostiene il filosofo e teologo, la ripresa arriva laddove il ricordo stesso appare insoddisfacente.

L’amico, nell’ascoltare il racconto del giovane – la narrazione della sua stessa vicenda – che lo rende partecipe del proprio dolore causato della fine della relazione con la persona amata, comprende quanto il ricordo possa essere pervasivo e totalizzante nella spinta futurizzante di un’esistenza che, in forza della ricordanza di un amore perduto, sviluppa nuove potenzialità creatrici in modo tale che il ricordo e il dolore che lo accompagna diventino, secondo la metafora elaborata da Lukács per descrivere la filosofia di Schopenhauer, un elegante e moderno hotel fornito di ogni comodità sull’orlo dell’abisso, fra piacevoli festini e produzioni artistiche.[21]

È opportuno porre la giusta attenzione a ciò che, secondo lo studio qui condotto, fonda la ripresa nella dinamica del sentimento amoroso, l’osservatorio esperienziale privilegiato della biografia dell’autore, ovvero il resoconto di un amore infelice:

deve esser vero che la vita di un uomo è conclusa fin dal primo momento, ma vi deve pure essere una forza capace di uccidere questa morte e trasformarla in vita. Al primo barlume dell’amore, il presente cozza con il futuro per conquistare una espressione eterna e questo rimembrare non è che il rifluire dell’eternità nel presente, s’intende quando questo rimembrare sia sano. […] La fanciulla aveva destato in lui non l’innamorato, ma il poeta. Per questo l’amava, per questo non poteva dimenticarla, né amare altri fuori di lei, ma per questo era condannato a perennemente languire per lei. Quella fanciulla aveva penetrato di sé la sua vita, il ricordo di lei non poteva appassire. Aveva significato moltissimo per lui, lo aveva reso poeta, ma così aveva sottoscritto la sua condanna.[22]

Ci troviamo ancora nella fase del ricordo. Non è scattata la dinamica a cui Kierkegaard dedica l’opera presa in esame. Com’è possibile notare, il dolore del ricordo ha fatto sì che venisse risvegliato lo spirito poetico del giovane deluso, il quale ha cristallizzato la propria esperienza amorosa fallita facendo di questa una cripta, il santuario della sua autocompiacente dissipatio.

Kierkegaard, in un dato momento del resoconto di cui parliamo, e dunque in riferimento alla vicenda dell’amore perduto di cui ha fatto esperienza, si domanda cosa sarebbe accaduto se il giovane avesse creduto nella ripresa: quale interiorità non avrebbe avuto la sua vita?[23] Ovvero: se il giovane non si fosse limitato a dimorare entro i confini del ricordare, se si fosse spinto al di là dello stesso ricordo, se avesse cessato di essere esclusivamente il viandante angosciato presso i sentieri dell’unico amore di cui ormai poteva fare esperienza – quello del ricordo, appunto.

È opportuno soffermarsi su questa parte del testo per rilevare un particolare psicologico significativo che mette in risalto il movente psichico da cui scaturiscono le considerazioni filosofiche di Kierkegaard, il quale afferma, in merito alla propria natura, che all’incombere del primo presentimento la sua mente «riesce a vivere in un attimo tutta la successione delle conseguenze che, spesso, richiedono lungo spazio di tempo per manifestarsi nella realtà dei fatti. L’intensità del presentimento non si può mai dimenticare[24]

Ragion per cui l’osservatore, nel tentativo di analizzare l’evento narratogli, risulta emotivamente coinvolto in forza del presentimento che agisce su di lui dando origine al dolore di cui fa esperienza e che, per via del ragionamento, conduce il pensiero sino ai confini delle sue estreme conseguenze. Questa è la prospettiva da cui l’amico analizza il resoconto del giovane: uno stare ermeneutico che gli permette di penetrare nel profondo del dolore. Contestualizzando quanto appena detto, è interessante notare come, sin dall’inizio, l’esperienza del giovane costituisca il punto di partenza per confrontare il concetto di ripresa con il pensiero di altri filosofi: gli Eleati ed Eraclito insegnavano la cosiddetta reminiscenza. Qui la ripresa è definita serietà dell’esistenza[25], nel senso che «quello che si può riprendere è già stato, altrimenti non si potrebbe riprendere, ma proprio in questo essere già stato consiste la novità della ripresa«.[26] Ripresa e reminiscenza sono lo stesso movimento ma in direzione opposta: «perché ciò che si ricorda, è stato, ossia si riprende retrocedendo, mentre la vera ripresa è un ricordare procedendo».[27]

Ci troviamo nella fase della teoresi kierkegaardiana dove viene inequivocabilmente ammessa l’identità bivalente della ripresa, e dunque il suo fondamento pagano. Ciò potrebbe risultare alquanto strano se si considera la radice cristiana, dimensione che verrà approfondita nel paragrafo successivo, da cui gli argomenti del filosofo si sviluppano. È ragionevole dedurre, quindi, che bisogna intendere il significato più autentico della ripresa proprio su questo sfondo filosofico-religioso. Difatti, Kierkegaard afferma che la «reminiscenza rappresenta la concezione pagana della vita, la ripresa la concezione cristiana. La ripresa è l’interesse della metafisica e allo stesso tempo l’interesse sul quale la metafisica si arena».[28] Se la metafisica si dice in molti modi, e se non esaurisce il proprio valore speculativo in un solo modo d’esser θεωρία, la metafisica a cui si fa riferimento qui è certamente la spiegazione/chiarificazione dell’esistenza nei modi e nei limiti in cui quest’ultima si dà. I filosofi dell’antichità pagana hanno parlato di reminiscenza, nella modernità si parla di ripresa.

Il secondo soggiorno berlinese del filosofo, di cui è possibile leggere il resoconto, è un tentativo di saggiare, entro i confini speculativi ed esistenziali, il significato della ripresa e le possibilità che da essa si diramano. La ripresa è fonte di eterna giovinezza per chi comprende che la vita è questo fluire incessante scandito dal tentativo di riprendere quanto è stato, affinché venga dissetato il bisogno di significato che caratterizza lo stare di Homo sapiens. Nella ripresa vi è anche la resilienza di colui che, attraverso l’esperienza del dolore, ha imparato ad abitare il tormento, l’angoscia, le esperienze più dolorose dell’esistenza senza tuttavia nullificarsi in esse, senza cedere alla tentazione gradevole di estinguersi, di donare a se stesso la morte:

O mia indimenticabile nutrice, o ninfa fuggitiva che dimoravi nel ruscello davanti alla rustica casa paterna, e non sdegnavi di soccorrermi nei giochi, malgrado tu avessi una tua vita segreta e lontana, tu, mia consolatrice, che nella fuga degli anni hai saputo mantenere intatta la tua innocenza, tu che non sei invecchiata con me, tacita ninfa alla quale di tanto in tanto tornavo per chiedere asilo, stanco degli uomini, stanco di me stesso, così stanco che avevo bisogno dell’eternità per ristorarmi, così dolente che avevo bisogno di un’eternità per dimenticare. Tu non mi negavi quel che gli uomini mi negavano, rendendomi l’eternità piena di fatiche e ancora più spaventosa del tempo. Allora io mi sdraiavo al tuo fianco e svanivo nell’immensità del cielo che vedevo sul mio capo e dimenticavo me stesso nella dolcezza di sentirmi cullato da te. O altro mio Io più felice, o vita fuggevole che dimori nel ruscello davanti alla rustica casa paterna, io me ne sto buttato su quella sponda, come se la mia persona non fosse che il bastone di un viandante, mentre la mia anima si sente sanata e liberata dalla malinconica dolcezza della tua voce.[29]

La resilienza non è un edulcorato svuotamento del dolore, ma il suo attraversamento, il dimorare presso le sue lande oscure e desolate per dire ancora alla vita. Paradosso. Ecco la ragione per cui il filosofo, in merito all’epilogo della propria vicenda, scrive: «sono di nuovo me stesso. Ecco la ripresa».[30]

 

2. Il caso di Giobbe

Osservando il dipinto di Léon Bonnat Job (Musée d’Orsay, 1880) è possibile rilevare i connotati narrativi ed esistentivi di questa celebre figura biblica corrispondenti alla tradizionale prospettiva teologica della cosiddetta sofferenza del giusto. L’opera presenta un Giobbe provato fisicamente dall’ingiustizia devastatrice che piomba improvvisamente sulla sua vita causando mali e sventure. Tra i libri veterotestamentari quello di Giobbe costituisce una rigorosa e radicale critica, su base esperienziale, alla tradizionale dottrina ebraica della retribuzione. La vicenda narrata pone in crisi ogni spiegazione che pretende di essere l’ultima e definitiva parola sul mondo e sulla vita. Giobbe, levando il proprio lamento, declama: «Dio ha fiaccato il mio cuore, l’Onnipotente mi ha frastornato».[31] La sua esperienza è la stessa di ogni essere umano posto di fronte allo scandalo della duplice domanda «si Deus est unde malum? Et si non est, unde bonum?»: antico interrogativo della teodicea che riguarda, da prospettive diverse, certo, il credente e l’ateo, l’agnostico e il cercante, il sofferente e il trionfatore.

Giobbe conviene con Eschilo, secondo modo e fondamento diversi, nell’affermare l’irremovibilità della necessità che s’impone nelle vicende esistentive: il primo dice: «comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile»32]Deus Omnipotens; il secondo afferma: «saggio è colui che s’inchina di fronte all’inevitabile»[33]Ἀνάγκη. Affinità elettive che, nella loro diversità, rispondono in modo simile al problema della sofferenza umana. Qui la necessità è il giusto mezzo per conquistare la libertà, «perché ci inserisce di nuovo nel destino generale degli uomini, i quali in realtà raramente si trovano a poter scegliere».[34]

Giobbe è effrazione di ogni spiegazione che non considera quanto sfugge ai processi del pensiero, è fatica del concetto che individua i limiti della ragione, è riconoscimento di quanto va ben oltre ogni pensiero già dato, già chiarito, già sviluppato. Per questa ragione, e per tante altre motivazioni, il libro di Giobbe ha esercitato un’influenza particolare nella letteratura, nella filosofia, nella poesia, nella teoresi politica, nell’arte.

Quali sono le motivazioni per cui Kierkegaard ha inserito la figura biblica nell’opera qui presa in esame? In che modo tale figura è collocata, a pieno titolo, in una tappa dello sviluppo dell’argomento? In Giobbe Kierkegaard trova l’interpretazione religiosa della propria vicenda amorosa. Secondo la lettura qui proposta, ne La ripresa è possibile cogliere una nuance che pertiene all’argomento esposto dal filosofo e che s’inserisce, a pieno titolo, all’interno della struttura teorico-esistentiva analizzata. Questa sfumatura consiste nella capacità umana definita resilienza. Ma prima di andare avanti è opportuno chiarire il significato del suddetto concetto, oggi forse troppo inflazionato. Il termine resilienza non compare nell’opera di Kierkegaard, ma la sua pertinenza con il concetto kierkegaardiano di ripresa riposa nel suo stesso etimo: «l’accezione è legata alla sua origine latina: il verbo latino resilire, composto da re- e salire, ‘saltare’ si usava nel significato di ‘ritornare di colpo’, ‘rimbalzare indietro’, per estensione anche ‘ritirarsi’, ‘contrarsi’».[35]

Se il ricordo è il fondamento della ripresa, quest’ultima è possibile anche grazie alla resilienza di cui Homo sapiens fa esperienza. Si tratta di analizzare il termine in questione da una prospettiva semanticamente e teoreticamente diversa da quella che lo rende un concetto alla moda. In altre parole: ciò che non mi uccide non ha lo scopo di rendermi più forte ma, attraverso il tentativo fallimentare della ripresa, continuamente ritorna per uccidermi ancora, e ancora una volta. E da questo continuo perpetrarsi della mia morte sgorga l’incessante forza vitale che la ripresa, serietà dell’esistenza, cerca di raggiungere nei suoi tentativi autotelici. La noia è altrove. E »chi vorrebbe essere una tavola sulla quale il tempo a ogni istante scrive una nuova frase o prende a ogni istante nota di quello che è passato?».[36] La ripresa comporta questo rimbalzare indietro che è la resilienza.

VVostro amico senza nome - così si firma Kierkegaard il 19 settembre al Mio tacito confidente - invoca Giobbe, i suoi tormenti. La vicenda biblica diviene la vicenda del filosofo, poste le dovute differenze sul piano biografico e narrativo. Il dolore per la perdita dei figli è lo stesso dolore di cui fa esperienza chi ha perduto la persona amata. Ecco le ulcere maligne incise sulla carne di chi ha smarrito finanche la ragione di vivere:

mio indimenticabile benefattore, Giobbe coperto di piaghe, lascia che io mi unisca ai tuoi, lascia che io ti ascolti. Non mi mandar via, io non sono venuto a te per ingannarti, le mie lacrime non sono false, anche se io altro non posso che piangere con te. […] Io non ho posseduto il mondo, io non ho avuto sette figli e tre figlie, ma può aver perduto tutto anche chi poco possedeva, può aver perduto figli e figlie anche chi ha perduto la donna che amava, può esser colpito da ulcere maligne anche chi ha perduto l’onore e l’orgoglio, la forza e la ragione di vivere.[37]

La passione del dolore si evince dalle molteplici sfumature di significato che fanno di Giobbe una parola tragico-esistentiva che scuote l’uomo dal letargo, come afferma Kierkegaard, ma per destarlo a nuova inquietudine, e non per placare i terribili tumulti delle passioni. È confermata la dinamica ricordo-ripresa di cui la resilienza costituisce una tappa della sua evoluzione fenomenologica. La ripetizione che nasce dal ricordo non ha lo scopo di guarire o di rendere più forti – qui bisogna porre la distinzione tra presupposto e risultato: se la guarigione dal dolore non è il presupposto della ripresa, ciò non esclude, altresì, che possa essere un suo risultato –, bensì essa permette al singolo di penetrare nelle pieghe più oscure e profonde del patimento che caratterizza l’esistenza. Un evento che si oppone, dunque, alla spasmodica ricerca dei tentativi di fuga o di liberazione dal dolore per abbracciarlo come inevitabile.

Il silenzio della lettura dei versi è spezzato dalle grida di tormento di Giobbe, grida che il filosofo e teologo danese fa sue fino a comprenderle, fino ad avvertire la contraddizione che lacera una vita tormentata. Dalla prospettiva kierkegaardiana bisogna domandarsi: per quale ragione la vicenda biblica parla di noi in relazione al concetto di ripresa? Stando al racconto biblico, a Giobbe ritorna tutto ciò che aveva perduto, tranne i figli. E in riferimento a ciò Kierkegaard sostiene che «in questo caso soltanto una ripresa dello spirito è possibile, sia pure imperfetta, perché la ripresa non avviene mai compiutamente nel tempo», ma soltanto nell’eternità;[38] nel tempo può accadere solo la redintegratio in statum pristinum della personalità. Difatti, parafrasando le domande che leggiamo nel testo: in merito a Giobbe, non c’è dunque una ripresa? Non ha avuto tutto al doppio? Non ha riavuto se stesso in modo tale da poterne sentire doppiamente il valore?[39] A Giobbe tutto viene restituito raddoppiato tranne i figli, poiché il generato non è mai realmente del generante, così come a Kierkegaard non verrà restituita Regine.

Dalla lettura è possibile dedurre che la ripresa di Giobbe sia la piena realizzazione della resilienza intesa non come capacità di fortificarsi per mezzo del patimento, ma come abbandono totale alla pars destruens del dolore che nel suo annientamento è potenza creatrice, è salvezza dalla noia dellesistenza. Da ciò si evince come la resilienza sia tutt’altro che facile da comprendere, le dinamiche che la riguardano non sono di semplice, immediata e lineare intuizione. Giobbe è colui che nel mezzo di atroci sofferenze conosce e sperimenta la prova, categoria non estetica «ma del tutto trascendente»[40] in quanto pone l’esserci in relazione con altro da sé, ovvero: il singolo in rapporto con l’oggetto e il singolo in rapporto con un altro singolo. Giobbe, difatti, è una tregua e non la pace che gli eroi della fede concludono (vedi Abramo in Timore e tremore).

Il saggio di Recupero, dedicato allo scritto kierkegaardiano in questione, ha mostrato secondo quale prospettiva è possibile considerare la ripresa una categoria della ragione simbolica, e per quanto concerne il riferimento alla vicenda di Giobbe si legge:

la ripresa restituisce e raddoppia, per assurdo, tutto quello che Giobbe aveva perché lo ha perduto. “Per assurdo” è da intendersi qui letteralmente, poiché tutto avviene secondo canoni difficilmente esprimibili in termini logicamente sensati e non sarebbe, pertanto, pienamente accessibile alla comprensione senza introdurre quel parametro simbolico che colma il vuoto della mancanza entro l’orizzonte di un senso impossibile. Se è assente, nell’ottica storicistica non è possibile. Ma se è impossibile, è. Al limite, è assurdo.[41]

Il simbolo sta a rappresentare, e/o rimandare, a un’incompiutezza di fondo. Ciò che oltrepassa i confini della ragione logica, e che dunque non può essere letto attraverso il principio di non-contraddizione, trova nell’assurdo la propria collocazione simbolica. Difatti, come fa notare Recupero, il Giobbe di Kierkegaard non prova, non spiega, ma testimonia. E la testimonianza non è l’assunzione fideistica di quanto accade, non è accettazione passiva, bensì la consapevolezza che non è possibile afferrare la passione attraverso la ragione calcolante, non la si può compenetrare attraverso i più potenti schemi logico-concettuali.

Qui l’abbandono totale alla fede è appassionato, coraggioso, mai fideistico e sempre animato dalla speranza della possibilità dell’impossibile: Spes contra spem. La resilienza non è mai superamento della sofferenza, oltre-passamento dell’esperienza dolorosa, ma il tentativo di scandagliarla che ha luogo nel movimento della ripresa. La resilienza di Giobbe, il suo balzo indietro, sarebbe incomprensibile senza il concetto di ripresa: «ma ecco, il silenzio è rotto e l’anima piagata di Giobbe erompe in potentissime grida. Io comprendo quelle grida, faccio mie le sue parole. Ma nello stesso tempo sento il contrasto e rido di me».[42] Ridere della contraddizione, ridere dell’assurdo con il sorriso di chi sorride a tutte le tragedie della vita è pura resilienza. La sofferenza di Giobbe è la stessa del teologo e filosofo danese, il quale a conclusione della parte dell’opera che precede il riferimento alla figura biblica, quasi a volerla introdurre in questo modo, afferma: «il mio dolore e la mia sofferenza sono senza nome come me stesso».[43] Testimonianza e prova sono i due poli della resilienza di Giobbe che, stando a Kierkegaard, rientrano nella dimensione della fede concepita come salto nell’ignoto e vissuta come risposta all’assurdo che caratterizza le vicende umane.

3. Resilienza nell’ermeneutica del ricordo

Una volta approfondita la ripresa in relazione al sentimento amoroso, considerata anche in riferimento alla vicenda biblica di Giobbe, e dopo aver definito la resilienza come dinamica che ha luogo nella dialettica ricordo-ripresa, adesso si vuole sviluppare la definizione di resilienza nell’ermeneutica del ricordo. L’ermeneutica del ricordo può essere spiegata con le parole di Ernst Cassirer: in essa «lo sguardo della filosofia, il quale vuole abbracciare il mondo come unità assoluta, particolarmente la varia molteplicità dei simboli, come in genere ogni molteplicità, si deve dissolvere: la realtà ultima, la realtà dell’essere in sé deve diventar visibile».[44] L’ermeneutica del ricordo è l’impulso fondamentale del sapere, di quel sapere che salva, che viene dal dolore delle esperienze esistentive; dolore che dice, in ultima analisi, in cosa consistono il mondo e la vita e che, tuttavia, come accade proprio nel tentativo fallimentare della ripresa, può condurre colui che interpreta a una forma di rigenerazione della vita dalla morte.

Come si caratterizza la resilienza che viene dall’ermeneutica del ricordo? Tornando alla triade posta in essere – ricordo-ripresa-ermeneutica del ricordo –, il singolo fa esperienza dell’eccezione che rompe ogni sua connessione con le narrazioni universali che accomunano tutte le esistenze. L’eccezione, pertanto, costituisce il punto di vista privilegiato per arrivare all’universale in quanto «l’eccezione nel pensarsi pensa anche l’universale, agisce sull’universale mentre agisce su se stessa. L’eccezione, dunque, spiega l’universale e allo stesso tempo se stessa».[45] Una vicenda diviene l’osservatorio privilegiato per arrivare a una comprensione profonda della vita, mai ultima, mai definitiva. Homo sapiens, dispositivo semantico, procede in questa direzione riprendendo, attraverso il ricordo, il dolore provato, il dolore vissuto che diviene nuovamente, che non cessa di esser presente nell’istante. E all’interno di questo processo, da non intendere come una malattia psichica,[46] si fa strada il sentimento descritto dal poeta: «E pur mi giova | La ricordanza, e il noverar l’etate | Del mio dolore».[47] Può il singolo assumere su di sé il respiro resiliente così descritto? Può la ripresa che viene dal ricordo aprire i vasti orizzonti dell’ermeneutica di quest’ultimo vissuto nella resilienza che accoglie il dolore in termini di necessità e non, dunque, come condizione di cui si pretende il totale superamento?

La resilienza in Kierkegaard è la dimensione agonica dell’esistere, una lotta che cerca, nonostante il peso dell’incontrovertibile contraddizione in cui geme l’esistente, una via d’uscita. Ma l’istante dell’annientamento coincide con l’assoluzione. Pertanto, è chiaro che se in Kierkegaard esiste una resilienza essa ripercorre il cammino fisico e metafisico del celebre frammento anassimandreo[48] secondo cui ogni ente commette l’ingiustizia di occupare un determinato spazio e un determinato tempo; Ἀδικία che l’ordine del tempo s’incaricherà di ‘punire’:

la vita di un poeta comincia in contraddizione con tutto, si tratta anche per lui di trovare un acquietamento o una giustificazione; al primo scontro perde sempre, se vince al primo scontro si tratta di un’eccezione ingiustificata. Il mio poeta trova ora una giustificazione nel fatto che il mondo l’assolve nell’istante in cui egli per così dire sta per annientarsi.[49]

 

La triade concettuale che ha guidato l’analisi del testo kierkegaardiano preso in esame costituisce una prospettiva ermeneutica che indica all’essere umano del Ventunesimo secolo alcune chiavi di lettura per comprendere meglio la propria collocazione come singolo, come componente della grande comunità umana e come abitatore del cosmo di cui è minuscola particella. Ci troviamo in un territorio del pensiero molto distante, certo, dallo spirito del tempo presente. La resilienza che viene dall’ermeneutica del ricordo si concretizza nell’abitare le contraddizioni dell’esistere, nell’assunzione del paradosso come eccezione a partire dalla quale considerare l’universale; essa vuol dire, ancora, penetrare non in modo definitivo la realtà e la serietà dell’esistenza. Homo sapiens ricorda, riprende, interpreta e dimora presso le lande desolate del proprio dolore. Eppure, anche dalle più fitte tenebre che incombono improvvisamente sulla vita possono sopraggiungere, nell’istante, il volo del pensiero, il rischio nel servizio dell’idea, il pericolo della lotta, la solenne felicità della vittoria, la danza nel vortice dell’infinito, l’ondata che trascina nel fondo degli abissi, l’ondata che lancia alle stelle.[50] È possibile provare, nonostante il dramma dell’esserci, lo stupore che viene dal disincanto del mondo ed esclamare assieme al filosofo: «comprendo tutto e la vita non mi è apparsa mai così bella. Anche questo è venuto come un uragano».[51]

 

 


[1] S. Kierkegaard, La ripresa (Gjentagelsen. Et forsøg i den experimenterende Psychologi af Constantin Constantius, 1843), trad. A. Zucconi, Milano, Edizioni di Comunità, 1963, p. 24.

[2] Alcuni traduttori hanno scelto di tradurre l’espressione danese Gjentagelsen con ripetizione. Cfr. la seguente traduzione: S. Kierkegaard, La ripetizione, trad. di D. Borso, Milano, BUR, 1995.

[3] La scelta di velarsi sotto uno pseudonimo va intesa, negli scritti del filosofo danese, come il tentativo di parlare per conto di un’altra persona.

[4] Cfr. D. Borso, Postfazione, in La ripetizione, Milano, BUR, 2008, pp. 145-184.

[5] S. Spera, Kierkegaard (Introduzione a), Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 3.

[6] Ibidem.

[7] S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filosofia» (Afsluttende uvidenskabelig Efterskrift til de philosophiske Smuler, 1846), in Le grandi opere filosofiche e teologiche, trad. di C. Fabro, Milano, Bompiani, 2013, p. 1109.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Per quanto concerne la scelta di tradurre il termine danese Gjentagelsen con ripresa e non con ripetizione si rimanda il lettore all’Introduzione del traduttore di A. Zucconi in S. Kierkegaard, La ripresa, cit., p. 15, nota 3.

[11] C. Fabro (introduzione di), Il Pensatore: per la ripresa del realismo cristiano, in S. Kierkegaard, «Le grandi opere filosofiche e teologiche», cit., pp. 73-74.

[12] S. Kierkegaard, Aut-Aut (Enten-Eller, 1843), in Le grandi opere filosofiche e teologiche, cit., p. 175.

[13] P. Szondi, Saggio sul tragico (Versuch uber das Tragische, tratto da Schriften I. Theorie des modernen Dramas, 1978), trad. di G. Garelli, Milano, Aesthetica, 2019, p. 48.

[14] S. Kierkegaard, La ripresa, cit., p. 21.

[15] Ivi, p. 139.

[16] G. Leopardi, Il primo amore, in Canti, a cura di D. Consoli, Torino, Società Editrice Internazionale, 1967, p. 43.

[17] S. Kierkegaard, La ripresa, cit., p. 22.

[18] J. W. Goethe, Faust, trad. di F. Fortini, Milano, Mondadori, 2015, vv. 1700, 11582, pp. 138-139, 1098-1099. 

[19] S. Kierkegaard, La ripresa, cit., p. 22.

[20] Eschilo, Agamennone, vv. 1005-1007 in Le tragedie, traduzione, introduzione e commento a cura di M. Centanni, Milano, Mondadori, 2003, p. 461.

[21] Cfr. G. Lukács, La distruzione della ragione (Die Zerstörung der Vernunft, 1954), trad. di E. Matassi, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2011, vol. I, p. 248.

[22] S. Kierkegaard, La ripresa, cit., pp. 29-30.

[23] Ivi, p. 41.

[24] Ivi, p. 42.

[25] Ivi, p. 24.

[26] Ivi, p. 46.

[27] Ivi, p. 22.

[28] Ibidem.

[29] Ivi, pp. 68-69.

[30] Ivi, p. 139.

[31] Giobbe, 23,16 (La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2011, p. 1160).

[32] Giobbe, 42,2 (ivi, p. 1194).

[33] Eschilo, Prometeo incatenato, v. 936, in Le tragedie, cit., p. 365.

[34] A. Zucconi, Introduzione del traduttore, in S. Kierkegaard, La ripresa, cit., pp. 8-9.

[35] M. V. D’Onghia, Resilienza, una parola alla moda. Dagli usi tecnici agli editti del Comune di Bugliano, in Treccani, 16 ottobre 2020, (consultato il 15.03.2022) url: https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Resilienza.html#:~:text=Prima%20venne%20resiliente&text=L’accezione%20%C3%A8%20legata%20alla,ritirarsi’%2C%20’contrarsi’.

[36] S. Kierkegaard, La ripresa, cit., p. 23.

[37] Ivi, p. 109.

[38] Ivi, p. 140.

[39] Ibidem.

[40] Ivi, p. 125.

[41] M. G. Recupero, La ripresa di Sören Kierkegaard. Un esperimento simbolico, «Heliopolis. Culture Civiltà Politica», XIII, 1, 2015, p. 104.

[42] S. Kierkegaard, La ripresa, cit., p. 120.

[43] Ivi, p. 116.

[44] E. Cassirer, Filosofie delle forme simboliche (Philosophie der symbolischen Formen, III, Phänomenologie der Erkenntnis, 1923), III/1 – Fenomenologia della conoscenza, Firenze, La Nuova Italia, 1966, p. 3.

[45] S. Kierkegaard, La ripresa, cit., p. 148.

[46] Cfr. A. V. Horwitz, J. C. Wakefield, La Perdita della tristezza. Come la psichiatria ha trasformato la tristezza in depressione (The Loss of Sadness. How Psychiatry Transformed Normal Sorrow into Depressive Disorder, 2007), trad. di M. Sampaolo, Roma, L’Asino d’oro edizioni, 2015.

[47] G. Leopardi, Alla Luna, in Canti, cit., p. 82.

[48] H. Diels, W. Kranz, I Presocratici DK12 B1, trad. di G. Reale, Milano, Bompiani, 2006, p. 197.

[49] S. Kierkegaard, La ripresa, cit., p. 150.

[50] Ivi, pp. 141-142.

[51] Ivi, p. 139.

 

 


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KIERGEGAARD , ERMENEUTICA , RICORDO , RIPRESA


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Filosofia

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