Storytelling, ‘biblioterapia’, performance e promozione della resilienza nel Bruce di John Barbour

di Valeria Di Clemente

[1]

Intorno al 1375[2] l’arcidiacono di Aberdeen John Barbour compose un poema di circa 14.000 versi[3] in volgare Early Scots, allo scopo di celebrare la vita e le imprese di Robert Bruce (Roberto I di Scozia, 1274-1329), protagonista della prima guerra di indipendenza contro il regno d’Inghilterra (1306-1328).

La Scozia aveva perso l’indipendenza negli anni ’90 del XIII secolo, quando, a causa dell’estinzione della linea di discendenza diretta della famiglia reale, era stata istruita una causa giudiziaria per stabilire chi avesse maggiore diritto ad ereditare il trono tra i discendenti dei rami collaterali. Questo aveva provocato l’intervento di Edoardo I d’Inghilterra che, nella sua qualità di giudice della causa, era riuscito nell’intento di farsi proclamare signore feudale della Scozia e qualche anno più tardi aveva risposto a una serie di iniziative indipendenti degli Scozzesi invadendo il paese e deponendo ed esiliando il re eletto, John Balliol; dopo una serie di ulteriori sollevazioni, nel 1303-1304 il re inglese aveva proceduto direttamente all’annessione della Scozia. Robert Bruce, discendente della famiglia reale scozzese dal lato femminile e nipote di uno dei protagonisti della causa giudiziaria del 1290-1292, tra febbraio e marzo del 1306 si fece proclamare re con un colpo di mano e conobbe una serie di pesanti sconfitte prima di scegliere una strategia di lotta non convenzionale che nel giro di poco meno di un decennio lo avrebbe portato ad acquisire un sicuro dominio sul territorio scozzese, anche se il riconoscimento inglese e internazionale arrivò solo nel corso degli anni ’20 del XIV secolo.[4]

È molto probabile che Barbour (c. 1319-13 marzo 1395), molto vicino a re Roberto II Stewart (1316-1390), avesse ricevuto da quest’ultimo l’incarico di scrivere un testo celebrativo su Bruce, suo nonno materno, nell’ottica di un rafforzamento della legittimità e credibilità della famiglia Stewart, solo recentemente ascesa al trono a causa della morte senza figli di Davide II Bruce nel febbraio del 1371.[5] Alcuni documenti dell’epoca testimoniano che Barbour aveva lavorato per il governo scozzese, e una registrazione negli Exchequer Rolls del 1429 certifica tra l’altro che gli era stata assegnata una pensione pro compilatione libri de gestis quondam regis Roberti de Brus.[6]

Nel terzo libro[7] del suo poema Barbour racconta le disastrose sconfitte patite da Bruce e dai suoi seguaci nell’estate del 1306 contro le forze inglesi e i MacDougall di Argyll. Implacabilmente inseguiti dai nemici, essi fuggono verso l’isola di Rathlin:[8] in questo contesto di guerra, sconfitta e fuga, il poeta mette in luce il protagonista, come è da aspettarsi in un’opera celebrativa, costruendo per il suo pubblico uno sfondo ideale di intervento per un leader che intuitivamente, grazie alla sua capacità di creare una sintonia comunicativa, offre ai suoi uomini strumenti cognitivi ed emozionali utili per agire in una situazione di continua paura, stress e rischio per la propria incolumità.[9] Il tipo di azione intrapresa e gli argomenti scelti (racconto di una storia esemplare e lettura performativa di un romance), benché scaturiti dalla creatività narrativa e dalle conoscenze letterarie di John Barbour, sembrano ancorarsi alla personalità e agli interessi della figura storica di Robert Bruce (si veda infra).
Chi scrive proverà innanzitutto a ricostruire il nucleo contenutistico dei due episodi (probabili fonti, eventuali forme di rielaborazione da parte del poeta); quindi analizzerà la funzione del racconto e della lettura performativa posti in atto, evidenziando le scelte lessicali compiute da Barbour per illustrare motivi, modalità, scopo e risultati ottenuti dal suo protagonista in qualità di intuitivo motivatore e ‘psicoterapeuta’.

 

1. Annibale alle porte: Bruce ‘storyteller’, la storia romana e la grazia divina

 

Bruce e i suoi uomini fuggono verso sud-ovest dopo le sconfitte di Methven e Dalrigh (estate 1306). Il protagonista esorta i suoi seguaci a mangiare, a stare in forze e a non abbattersi, poiché fra ye hart is discumfyt / Ye body is nycht worth a myt ,‘quando il cuore è sconfortato / il corpo non vale un soldo bucato’[10] e, per meglio chiarire il concetto, racconta alcune storie. Una di esse, significativamente, è tratta da un episodio della seconda guerra punica:

              Men redys off mony men yat war

Fer hardar stad yen we yhet ar

And syne Our Lord sic grace yaim lent

Yat yai come weill till yar entent.       

For Rome quhilum sa hard wes stad

Quhen Hanniball yaim vencusyt had

Yat off ryngis with rich [stane]

Yat war off knychtis fyngeris tane

He send thre bollis to Cartage,

And syne to Rome tuk his wiage

Yar to distroye ye cite all.

And yai within bath gret and small

Had fled quhen thai saw his cummyng

Had nocht bene Scipio ye king,

Yat or yai fled wald yaim haiff slayn,

And swagat turnyt he yaim agayn.

Syne for to defend ye cite

Bath serwandis and threllis mad he fre,

And maid yaim knychtis everilkane,

And syne has off ye templis tane

Ye armys yat yar eldrys bar,

In name off wictory offerryt yar.

And quhen yai armyt war and dycht

Yat stalwart karlis war and wycht

And saw yat yai war fre alsua,

Yaim thocht yat yai had lever ta

Ye dede na lat ye toun be tane,

And with commoune assent as ane

Yai ischit off ye toune to fycht

Quhar Hannyball his mekill mycht

Aganys yaim arayit was.

Bot throw mycht off Goddis grace

It ranyt sa hard and hewyly

Yat yar wes nane sa hardy

Yat durst in-to yat place abid,

Bot sped yaim intill hy to rid,

Ye ta part to yar pailyownys,

Ye toyer part went in ye toune is.

Ye rayne yus lettyt ye fechtyn,

Sa did it twys yar-efter syne.

Quhen Hanibal saw yis ferly

With all his gret chewalry

He left ye toune and held his way,

And syne wes put to sik assay

Throw ye power off yat cite

Yat his lyff and his land tynt he.

Be yir quheyne yat sa worthy

Wane sik a king and sa mychty,

Ye may weill be ensampill se

Yat na man suld disparyt be,

Na lat his hart be vencusyt all

For na myscheiff yat euer may fall,

For nane wate in how litill space

Yat God umquhile will send grace. […]

Yusgat yaim comfort the king

And to comfort yaim gan inbryng

Auld storys off men yat wer

Set in-tyll hard assayis ser

And yat fortoun contraryit fast,

And come to purpos at ye last.

Yarfor he said yat yai yat wald

Yar hartis wndiscumfyt hald

Suld ay thynk ententily to bryng

All yar enpres to gud ending [...] (libro III, vv. 203-248, 267-276).[11]

 

Potete leggere di molti uomini che si trovarono

in condizioni ben peggiori di quella in cui siamo noi,

ma poi Nostro Signore concedette loro tale grazia

che riuscirono bene nei loro intenti.

Roma, ad esempio, un tempo si trovò tanto a mal partito,

quando Annibale li aveva sconfitti,

che quest’ultimo inviò a Cartagine tre bollis[12]

piene di anelli con pietre preziose

presi dalle dita di cavalieri (romani),

quindi partì per Roma

per distruggere l’intera città.             

Quelli che erano all’interno, sia grandi che piccoli,

sarebbero fuggiti tutti quando lo videro avvicinarsi,

se il capo non fosse stato Scipione,

che li avrebbe uccisi prima che fuggissero,

e così li fece tornare indietro.

Quindi, per difendere la città,

(Scipione) liberò servi e schiavi,

e creò ognuno di loro cavaliere.

Poi prese dai templi

le armi che gli antenati avevano portato

e offerto lì nel nome della vittoria.

E quando furono armati ed equipaggiati

quelli, che erano duri e coraggiosi uomini,

e videro che erano pure liberi,

ritennero giusto piuttosto accettare

la morte che non lasciare che la città fosse presa,

e con il comune consenso, come di un solo uomo,

uscirono dalla città per combattere

là dove il grande esercito di Annibale

era schierato contro di loro.               

Ma per il potere della grazia di Dio

piovve così forte e intensamente

che non ci fu nessuno così ardito

da osare rimanere in quel luogo,

ma si affrettarono a cavalcare via,

una parte verso i loro padiglioni,

l’altra dentro la città.

Così la pioggia impedì ogni scontro,

e fece così due volte ancora dopo ciò.

Quando Annibale vide questo fatto incredibile,

lasciò la città con tutto il suo grande esercito

e continuò il suo viaggio,

ma fu sottoposto a tali prove

dal potere di quella città

che perse la vita e la sua patria.

Da questi pochi che così valorosamente

superarono un tal re e così potente

potete ben vedere un esempio

di come nessuno dovrebbe disperare,

né lasciare che il suo spirito venga totalmente sconfitto,

a causa di qualunque male possa accadere,

perché nessuno sa in quanto poco tempo

Dio prima o poi invierà la sua grazia. […]

Così il re diede loro conforto

e per incoraggiarli meglio incominciò a narrare

antiche storie di uomini che avevano dovuto

fronteggiare varie difficili circostanze,

che avevano avuto la fortuna contraria

e che tuttavia alla fine avevano raggiunto il loro scopo.

Perciò egli disse che quelli che volevano

mantenere il loro spirito imbattuto,

dovevano sempre essere concentrati nel portare

               a buon fine tutte le loro imprese […].[13]

Annibale assediò Roma nel 211 a.C., come parte della strategia elaborata per costringere i Romani a togliere l’assedio a Capua, alleata dei Cartaginesi. Polibio e Livio narrano dei saccheggi compiuti dallo stratega africano nel Lazio e di come i Romani avessero arruolato tutti gli uomini disponibili per far fronte alla minaccia; in particolare è Livio a raccontare che nel giro di due giorni si verificarono due terribili precipitazioni di pioggia mista a grandine, che i Cartaginesi interpretarono come segno sfavorevole degli dèi e che convinsero Annibale a togliere l’assedio (Ab Urbe condita, XXVI,11). Barbour cita l’episodio con qualche imprecisione, parlando di tre, non due, tempeste di pioggia e indicando Publio Cornelio Scipione il giovane (il futuro Africano) come capo della resistenza all’assedio: la difesa di Roma non era stata affidata a Scipione, che verso la fine di quell’anno, nonostante la giovanissima età, fu inviato come proconsole in Spagna,[14] ma fu coordinata dai consoli Gneo Fulvio Centumalo e Publio Sulpicio Galba e guidata militarmente dal proconsole Fulvio Flacco.
McDiarmid e Stevenson ritengono che la fonte diretta del poeta scozzese sia il Chronicon di Martino di Opava,[15] composto nel XIII secolo, cosa che si può confermare, aggiungendo tuttavia che Barbour doveva aver letto non solo Martino, ma anche una delle sue fonti principali, cioè le Historiae di Paolo Orosio, come si vedrà infra analizzando e confrontando i singoli passi. Inoltre possiamo ipotizzare che Barbour conoscesse anche altre testimonianze relative a questo episodio.

Il racconto di Bruce riassume e intreccia fatti narrati rispettivamente nei libri XXIII e XXVI dell’opera liviana, a cominciare dal fatto che Annibale aveva inviato suo fratello Magone a Cartagine, per convincere il senato della città a continuare il finanziamento della guerra, e a tale scopo Magone aveva portato con sé una gran quantità di anelli d’oro tolti agli equites periti durante la battaglia di Canne:

[Mago] effundi in uestibulo curiae iussit anulos aureos, qui tantus aceruus fuit ut metientibus dimidium supra tres modios explesse sint quidam auctores. Adiecit deinde uerbis, quo maioris cladis iudicium esset, neminem nisi equitum, atque eorum ipsorum primores, id gerere insigne (XXIII.11) […][16]

Martino di Opava così racconta:

Hanibal vero in testimonio tantae victoriae tres modios anulorum aureorum Carthaginem misit, quos ex manibus nobilium interfectorum extraxerat, sicut dicit Orosius.[17]

 

Martino non solo segue quasi verbatim Orosio, ma lo cita apertamente. Difatti Orosio riporta che, dopo la battaglia di Canne,

Hannibal in testimoni uictoriae sua tres modios anulorum aureorum Carthaginem misit, quos ex manibus interfectorum equitum Romanorum senatorumque detraxerat.[18]

 

Che Barbour avesse presente soprattutto Orosio si può ipotizzare dal fatto che egli parla di anelli presi dai knychtis ‘cavalieri’ uccisi: laddove Martino riferisce di nobiles interfecti ‘nobili uccisi’, Orosio dice che si trattava di equites interfecti ‘cavalieri uccisi’ (riprendendo il racconto liviano). Le fonti antiche e tardo-antiche potevano avere in mente gli equites tanto come i soldati di cavalleria quanto come i rappresentanti dell’ordo equester che avevano preso parte alla disastrosa battaglia: Barbour usa il termine knychtis, cioè militari di estrazione aristocratica che combattevano a cavallo, come quelli del suo tempo.
Un particolare interessante è quello relativo alla liberazione e all’armamento degli schiavi per la difesa di Roma, poiché gli effettivi dell’esercito erano stati pesantemente decimati durante la battaglia di Canne:

               […] for to defend the cite

Bath servandis and threllis mad he [scil. Scipio] fre,

               And maid aim knychtis everilkane […].

In questo caso, Barbour sembra citare il Breviarium historiae romanae di Eutropio:

              Servi, quod numquam ante, manumissi et milites facti sunt.[19]

Non è tuttavia escluso che il poeta avesse presente anche il Polychronicon di Ranulf Higden, che non a caso usa Eutropio come fonte: servi manumissi […] milites facti sunt; il cronachista inglese tuttavia aggiunge alla lista degli armati per l’emergenza anche latrones, homicidae, incarcerati e proletarii.[20]
Barbour compie un’opera di interpretazione/adattamento culturale in diversi punti del passo. Quando definisce Scipione king ‘re’, in qualche modo cerca di rendere in modo appropriato il concetto di comandante in capo e vertice dello stato, che nella repubblica romana era rappresentato dai due consoli (o dai proconsoli nelle province) e nel tardo Medioevo occidentale dal sovrano (king nel senso di ‘comandante in capo’ è usato una volta anche per riferirsi ad Annibale). Quando poi riferisce che Scipione maid thaim knychtis everilkane ‘rese tutti [gli schiavi] cavalieri’, Barbour offre probabilmente ancora una volta una traduzione del passo eutropiano strettamente legata alla cultura tardo-medievale. Eutropio, infatti, ci dice che servi […] milites facti sunt ‘gli schiavi furono fatti soldati’, ma in latino medievale il miles non indicava solo il ‘soldato’, bensì anche il ‘cavaliere’, cioè il militare di professione, per lo più di classe aristocratica, dotato di un equipaggiamento ben preciso e ufficialmente riconosciuto tramite la cerimonia dell’adoubement (in inglese medio ed Early Scots knycht).[21] D’altra parte, Barbour traduce con grande scrupolo anche il termine servi, che per i Romani indicava le persone legalmente non dotate di libertà personale, ma nel tardo Medioevo si riferiva per lo più a persone di umile estrazione sociale adibite a lavori di servizio o in generale a chi per compito era subordinato a qualcun altro;[22] e al lessema singolo che compare in Eutropio e Ranulf Higden ne fa corrispondere due, serwandis ‘servitori’ e threllis ‘servi, schiavi, non liberi’.[23]
Nel seguito del racconto, in cui Bruce passa a descrivere l’assedio di Roma da parte di Annibale, la premessa sul recupero delle armi dai templi sembra tratta da Higden, benché citata imprecisamente:

Tanta fuit tunc attritio rei publicae ut aes et ferrum de templis spoliaretur ad arma reparanda, quia arma quae prius secundum consuetudinem post victoriam oblata fuerant in   templis et diis dicata tunc reassumebantur.[24]

 

La fonte ultima sull’episodio principale è, come si è detto sopra, Livio:

Postero die transgressus Anienem Hannibal in aciem omnes copias eduxit; nec Flaccus consulesque certamen detractauere. Instructis utrimque exercitibus in eius pugnae casum in qua urbs Roma uictori praemium esset, imber ingens grandine mixtus ita utramque aciem turbauit ut uix armis retentis in castra sese receperint, nullius rei minore quam hostium metu. Et postero die eodem loco acies instructas eadem tempestas diremit; ubi recepissent se in castra, mira serenitas cum tranquillitate oriebatur. In religionem ea res apud Poenos uersa est […].[25]

Il racconto è ripreso anche da Ranulf Higden,[26] ma ci sono buone ragioni per pensare che le fonti su cui Barbour ha meditato debbano essere state Martino di Opava e Orosio.
Martino scrive:

Anno ab urbe condita 543° Hanibal de Campania movens exercitum, tribus miliaribus ab Urbe consedit. Romani tocius civitatis cum senatoribus populoque stupore et metu percussi, velud amentes facti sunt; femine quoque per propugnacula concurrerunt, in muris saxa reponendo, prime prompte de muris pugnare. Hanibal vero cum suo exercitu usque ad porta Colinam accessit, sed Fulvius proconsul cum Romanis adversus ipsum aciem direxit. At ubi congredi debuissent, pluvia cum grandine mixta tanta se effudit, ut turbata agmina vix ad castra possent redire. Deinde, cum serenitas rediisset, et illi acies iterato ad pugnam disposuissent, rursus violentior venit tempestas compellens exercitus ad tentoria confugere. Et sic Hanibal advertens quod ad subvertendam urbem Romanam non obstitit fortitudo, sed divina miseratio, ab Urbe recessit.[27]

 

Uno dei motivi che fanno sospettare che Barbour abbia letto non solo Martino, ma direttamente le Historiae orosiane, è questo: Martino, dopo aver narrato delle due prodigiose bufere avvenute nel giro di due giorni, commenta sobriamente: sic Hanibal advertens quod ad subvertendam urbe Romanam non obstitit fortitudo, sed divina miseratio, ab Urbe recessit,[28] ovvero si limita a constatare che Annibale avvertì lo sfavore divino rispetto alla sua impresa e decise di non insistere.
Nella versione di Orosio:

Decimo anno post quam Hannibal in Italiam uenerat, Cn. Fuluio P. Sulpicio consulibus Hannibal de Campania mouit exercitum et cum ingenti clade omnium per Sedicinum Suessanumque agrum uia Latina profectus ad Anienem fluuium tribus milibus ab urbe consedit incredibili totius ciuitatis metu, cum senatu populoque diuersis curis trepido matronae quoque amentes pauore per propugnacula currerent et conuehere in muros saxa primaeque pro muris pugnare gestirent. Ipse autem cum expeditis equitibus usque ad portam Collinam infestus accessit, deinde omnes copias in aciem direxit, sed et consules Fuluiusque proconsule non detractauere pugnam. At ubi expositae utrimque acies constiterunt, in conspectu Romae praemium uictoris futurae tantus se subito imber e nubibus grandine mixtus effudit, ut turbata agmina uix armis retentis in sua se castra colligerent. Deinde cum serenitate reddita in campum copiae atque in aciem redissent, rursum uiolentior fusa tempestas maiore metu mortalium audaciam cohercuit territosque exercitus refugere in tentoria coegit. Tunc conuersus in religionem Hannibal dixisse fertur, potiundae sibi Romae modo uoluntatem non dari, modo potestatem.[29]

Orosio, tuttavia, fa seguire alla narrazione un lungo commento su Roma, la volontà divina e la pioggia come metafora della manifestazione della grazia:

Respondeant nunc mihi obtrectatores veri Dei hoc loco, Annibali a capessenda subruendaque Roma utrum Romana obstitit fortitudo, an divina miseratio, aut forsitan conservati isti dedignantur fateri, quod Annibal et victor extimuit, et cedens probavit? At si istam divinam tutelam per pluviam de coelo venisse manifestum est, ipsam autem pluviam opportuniis et necessariis temporibus non nisi per Christum, qui est verus Deus, ministrari, etiam ab hujusmodi satis certo sciri, nec negari posse existimo, maxime nunc, quando ad documentum potentiae ejus cum siccitate turbante, pluviam poscere assidue contingit, et alternis vicibus nunc gentiles, nunc Christiani rogant: nec umquam etiam ipsis testibus factum est, ut optati imbres superveniant nisi in die, quo rogari Christum et Christianis rogare permittitur: procul dubio constat, urbem Romanam per hunc eumdem verum Deum, qui est Christus Jesus, ordinantem placitum ineffabilem secundum judicii sui, et tunc ad futuram fidei credulitatem servatam fuisse, et nunc pro parte sui incredula castigatam.[30]

È possibile che Barbour abbia usato come spunto proprio questa insistenza orosiana sulla pioggia. Il poeta scozzese riutilizza il tema in tre punti: nell’esordio del suo racconto (syne Our Lord sic grace yaim lent / Yat yai come weill till yar entent), quindi nella narrazione dell’assedio (throu mycht off Goddis grace / It ranyt sa hard and hevyly / Yat yar wes nane sa hardy / Yat durst into yat place abid, / Bot sped yai intill hy to rid) e nel commento alla storia, attraverso le parole del protagonista:

               Ye may weill be ensampill se

Yat na man suld disparyt be,

Na lat his hart be vencusyt all

For na myscheiff yat ever may fall,

For nane wate in how litill space

               Yat God umquhile will send grace.

Si osservino dunque i motivi evidenziati nella storia e il lessico scelto dal narratore. Un uomo può imbattersi in qualunque disgrazia (any myscheiff), in dure prove (hard assayis) e la sorte può essere accanitamente avversa, ma nessuno dovrebbe disperare (na man suld desparyt be) né lasciare che il suo cuore sia totalmente sconfitto (na lat his hart be vencusyt all), poiché è bene insistere nel portare a termine la propria impresa e perché la grazia divina (Godis grace) può arrivare in qualunque momento e sotto qualunque specie (ad esempio, le bufere di pioggia che convinsero Annibale a togliere l’assedio a Roma). Barbour/Bruce individua nel cuore (hart) l’insieme delle forze psicofisiche umane che possono essere colpite da disgrazie, prove, sorte contraria, e nella disperazione la condizione a cui non bisogna cedere. Un cuore disperato è un cuore vinto (vencusyt), mentre chi vuole mantenere il proprio cuore invitto deve rimanere fortemente concentrato sul proprio compito. Gli aggettivi che indicano lo sconforto, il lasciarsi andare, la perdita della speranza sono rispettivamente vencusyt, participio passato con valore passivo del verbo Early Scots vencus ‘battere, sconfiggere in battaglia’, e discumfyt, aggettivo formato sul participio passato, sempre con valore passivo, di discumfire ‘sconfiggere’ (il suo contrario, ‘imbattuto, invitto, non scoraggiato’, è undiscumfyt).[31] Bruce, «an accomplished storyteller who knew the effects of a good story well told»,[32] seleziona accuratamente la storia da proporre, che tocca l’esperienza dei suoi soldati e offre loro una possibilità di identificazione e di risposta:

    Yusgat yaim comfort ye king

And to comfort yaim gan inbryng

Auld storys off men yat wer

Set intyll hard assayis ser

And yat fortoun contraryit fast

   And come to purpose at ye last.

 Lo scopo del re è quello di ‘incoraggiare’ e ‘dare conforto’ ai suoi: comfort compare per ben due volte in due versi consecutivi.[33] Bernice Kliman individua in questo episodio un ricorso da parte di Barbour all’exemplum, nelle modalità descritte nella Rhetorica ad Herennium,[34] come parte dell’abilità retorica richiesta a un leader militare.[35] Il protagonista stesso dichiara che la sua narrazione è un ensampill (Ye may weill be ensampill se ‘potete ben vedere da questo esempio […]’).

 

2. Bruce menestrello: l’attraversamento del Loch Lomond e Ferambrace

Bruce agisce ancor più efficacemente nell’altro episodio chiave del libro III, quello dell’attraversamento del Loch Lomond. Sempre durante la fuga verso il Kintyre, il re e i suoi devono superare l’ampio lago, ma trovano solo una piccola barca che può portare tre persone alla volta, pilota compreso; la traversata avviene così con un continuo andirivieni della barca da una riva all’altra, mentre alcuni uomini, bagagli in spalla, attraversano il lago a nuoto.[36] In questa circostanza decisamente stressogena, Bruce riprende la sua funzione di raccontatore di storie/motivatore, ma vi aggiunge anche un impegno da intrattenitore:

               Ye king ye quhilis meryly

Red to yaim yat war him by

Romanys off worthi Ferambrace

Yat worthily our-cummyn was

Throw ye rycht douchty Olywer,

And how ye duk-peris wer

Assegyt in-till Egrymor

Quhar King Lawyne lay yaim befor

With may thowsandis yen I can say,

And bot [ellevyn] within war yai

And a woman, and war sa stad

Yat yai na mete yar-within had

Bot as yai fra yar fayis wan.

Yheyte sua contenyt yai yaim yan

Yat yai ye tour held manlily

Till yat Rychard off Normandy

Magré his fayis warnyt ye king

Yat wes ioyfull off yis tithing,

For he wend yai had all beyne slayne.

Yarfor he turnyt in hy agayne

And wan Mantrybill and passit Flagot,

And syne Lawyne and all his flot

Dispitusly discumfyt he,

And deliueryt his men all fre […] (libro III, vv. 435-460).[37]

 

Nel frattempo il re, alla maniera di un giullare,

leggeva [raccontava? recitava?] a coloro che erano con lui

il romance del valoroso Ferambrace

che fu sconfitto onorevolmente

dal valorosissimo Oliviero;

e come i duchi-pari[38] fossero stati

assediati dentro (al castello di) Aigremore,

dove il re Lawyne aveva posto loro l’assedio

con più migliaia di uomini di quante io possa dire.

All’interno vi erano undici uomini

e una donna, e la loro condizione era tale

che non avevano vettovaglie

tranne quelle che riuscivano a prendere ai loro nemici.

Tuttavia, essi si comportavano in modo tale

che difesero virilmente la torre,

fino a che Riccardo di Normandia,

a dispetto dei suoi nemici, avvisò il re,

che fu felice di questa notizia,

perché pensava che fossero stati tutti uccisi.

Per questa ragione (Carlo) tornò indietro,

conquistò (il ponte di) Mantrible, attraversò il (fiume) Flagot,

e finalmente sconfisse in maniera decisiva

Lawyne e tutta la sua flotta,

    e liberò tutti i suoi uomini […].[39]

 Oltre alla scelta mirata del testo, il romance Ferambrace, si può rilevare come il verbo scelto per indicare l’azione di Bruce sia quanto mai eloquente: to rede può indicare, rispetto a una storia o un testo, la lettura silenziosa o a voce alta, ma esprime anche il concetto del “dire, riferire” a proposito di un argomento.[40] L’interesse di Bruce per le canzoni di gesta e i romanzi cavallereschi è attestato storicamente; sembra che il re ne fosse un appassionato lettore, ne traesse spunti utili per la sua azione di governo e li avesse raccomandati come testi di istruzione al precettore di suo figlio Davide.[41] Questo renderebbe non inverosimile il racconto barbouriano, dal quale si può ipotizzare che Bruce, anche durante il primo periodo della guerra e la fuga verso il sud-ovest della Scozia, avrebbe potuto portare con sé alcune delle sue letture preferite; oppure, se si preferisce l’interpretazione di rede come ‘raccontare, riferire’, si potrebbe pensare alla recitazione di un testo conosciuto a memoria, circostanza meno plausibile ma più aderente alla funzione di menestrello che il poeta attribuisce al protagonista nel passo in questione: è improbabile che un aristocratico, sia pure appassionato di letteratura cavalleresca come Bruce, potesse conoscere a memoria un’opera lunga migliaia di versi, mentre il discorso si adatta perfettamente alla professionalità di un performer di mestiere. Anche l’uso dell’avverbio meryly è sintomatico in questo preciso contesto: a parere di chi scrive, infatti, esso fa qui esattamente riferimento alla modalità con cui un menestrello esegue la sua performance.[42]
Il risultato di questa performance è che

               Ye gud king apon yis maner

Comfort yaim yat war him ner

And maid yaim gamyn and solace

Till yat his folk all passyt was (libro III, vv. 463-466).[43]

In questo modo il nobile re

riconfortò coloro che gli erano vicini

e li fece distrarre e rallegrare

               fino a che tutti i suoi uomini non ebbero attraversato (il Loch Lomond).[44]

Significativi i verbi usati da Barbour nel suo commento: ritorna comfort, verbo-chiave che indica lo scopo dell’azione motivatrice di Bruce, rafforzato per mezzo di maid thaim gamyn and solace, letteralmente ‘creò per loro svago e divertimento’.[45] Il protagonista quindi non solo sceglie di fare ricorso a un testo che animi e incoraggi i suoi uomini innescando un meccanismo di identificazione, poiché il racconto espone una situazione simile alla quella in cui lui e i suoi si trovano, ma presenta un esito positivo; attraverso la ‘messa in scena’ di questo testo riesce anche a farli divertire e svagare. Bruce attiva un’esperienza ludica nei suoi seguaci, nel bel mezzo di un momento fisicamente stancante e in condizione di pericolo, tramite quella che potremmo definire ‘biblioterapia performativa’. La saggezza psicologica che si esprime nella performance di Bruce raggiunge tre scopi: promuovere emozioni positive e motivare all’azione, come nel precedente racconto dell’assedio di Roma da parte di Annibale, ma anche rallegrare lo spirito.

 

3. La fonte della ‘biblioterapia performativa’ di Bruce: Fierabras

Il Fierabras è una chanson de geste francese del ciclo carolingio, redatta verso la fine del XII secolo, il cui protagonista è il valoroso gigante saraceno Fierabras, leale avversario di Oliviero; dopo la sua sconfitta ad opera di Oliviero e la sua conversione al Cristianesimo Fierabras combatte per Carlo Magno.[46] L’episodio che Bruce legge o forse declama durante la traversata è quello in cui i dodici pari e Floripas, sorella di Fierabras, assediati da Lawyne nel castello di Aigremore, riescono a essere liberati perché uno di loro, Riccardo di Normandia, riesce a fuggire e a raggiungere re Carlo che col suo esercito parte per salvare gli assediati (Barbour parla di undici uomini e una donna).

McDiarmid e Stevenson ipotizzano che Barbour abbia potuto apprendere la storia attraverso una traduzione o rifacimento in inglese,[47] mentre per Rhiannon Purdie il poeta potrebbe aver fatto riferimento a una versione in anglo-normanno.[48] Della storia esistono anche redazioni francesi in prosa, la cui composizione o tradizione manoscritta risale per lo più al XV secolo.[49] È difficile tuttavia stabilire con precisione l’origine della citazione barbouriana, che rappresenta un riassunto piuttosto sintetico della vicenda. Le principali versioni/rielaborazioni inglesi sono tre e risalgono probabilmente al XIV secolo, benché in alcuni casi la tradizione manoscritta sia più tarda; si tratta dei romance chiamati Ferumbras, Sir Ferumbras e The Sowdone of Babylone.[50] La versione anglo-normanna è conservata nel ms. IV 578 della Niedersächsische Bibliothek di Hannover; una redazione abbreviata è tramandata nel ms. Egerton 3028 della British Library, risalente al secondo quarto del XIV secolo.[51] Balan, padre e poi fiero nemico di Fierabras, è citato come Lawyne nel Bruce:[52] nella versione anglo-normanna abbreviata del ms. Egerton 3028 e in The Sowdone of Babylone egli compare come Laban, di cui Lawyne (/‘lavɪn/ o /la’vɪn/) potrebbe rappresentare un adattamento in Early Scots. Inoltre, il nome dell’eroe eponimo, così come esso compare nel Bruce, suggerisce una filiazione dalla tradizione insulare, in cui il cavaliere saraceno è appunto Ferumbras, Fierembras, Fyrumbras, non Fier-à-bras;[53] l’aggettivo fer suggerirebbe una fonetica anglo-normanna.[54]                 

Rispetto alla materia francese originaria, che conta circa 6400 versi, i romance in inglese medio e anglo-normanno sono più brevi. Se si considera che Bruce e i suoi impiegano un giorno e una notte per attraversare il Loch Lomond, e che il tempo necessario all’enunciazione di alcune migliaia di versi occupa diverse ore, sembra plausibile che Bruce ripeta più volte la lettura o recitazione del Ferambrace.     

Si può inoltre supporre che Barbour abbia scelto di fare riferimento proprio alle gesta di Fierabras e dei suoi compagni perché le sapeva amate da Bruce e/o perché note e gradite al pubblico del suo poema: questo getta indirettamente una luce sulla diffusione della storia e delle sue rielaborazioni in Gran Bretagna e in particolare nella Scozia del XIV secolo.[55]

 

4. Un orizzonte di senso

Sono storicamente attestati il fatto che Bruce manifestasse un’incrollabile convinzione nella giustezza e legittimità della sua pretesa e la sua azione infaticabile nel portare a compimento il suo progetto, anche in condizioni di difficoltà e inferiorità numerica. Questi temi vennero largamente diffusi e sfruttati negli scambi diplomatici internazionali dell’epoca e nella cronachistica e la letteratura scozzese tra XIV e XV secolo; se ne trovano esempi celebri nella Dichiarazione di Arbroath, nella Chronica gentis Scottorum di John di Fordun, nello Scotichronicon di Walter Bower e negli anonimi Balletis of the Nine Nobles.[56] Nel poema barbouriano questo aspetto viene sottolineato fin dal principio e conferisce alla lotta del protagonista e dei suoi uomini un forte orizzonte di senso. Lo proclama Bruce stesso, quando dichiara che farà di tutto per ottenere il trono scozzese, che gli spetta di diritto:

               I will blythly apon me ta

Ye state, for I wate yat I have rycht,

And rycht mays oft ye feble wycht (libro I, vv. 508-510).[57]

Io prenderò lietamente su di me questa condizione,

perché so che ne ho il diritto

e il diritto spesso rende i deboli forti.[58]

Questo ragionamento sarà ripetuto nel discorso motivazionale che Bruce terrà al suo esercito prima della decisiva battaglia di Bannockburn, elencando i tre “vantaggi” degli Scozzesi rispetto ai loro nemici. Il primo, essenziale, è che

               […] we haf ye rycht

And for ye rycht ay God will fycht.[59]

[…] noi abbiamo dalla nostra la ragione

    e Dio combatterà sempre dalla parte della ragione (libro XII, vv. 235-236).[60]  

Gli altri due sono la possibilità di riportare un ricco bottino e la difesa delle proprie famiglie e della libertà della terra scozzese.

 

5. Conclusioni

L’esame dei due passi del libro III del Bruce in cui il protagonista attua strategie di incoraggiamento a favore dei suoi uomini in un momento di estrema difficoltà presenta due azioni della cui storicità non possiamo essere sicuri, ma che potrebbero essere plausibili, stando alla ricostruzione della personalità storica di Robert Bruce.

John Barbour utilizza come exempla due episodi, uno tratto dalla storia romana e l’altro dalla letteratura cavalleresca. Nel primo caso, Bruce (ovvero Barbour) rielabora la narrazione dell’assedio di Annibale contro Roma, così come raccontata da diverse fonti antiche e medievali, trasformandola in una storia esemplare di resistenza che viene aiutata dalla grazia divina; nel secondo caso l’episodio dell’assedio di Aigremore viene letto? recitato? raccontato? declamato? da Bruce ai suoi durante l’avventuroso attraversamento del Loch Lomond. In entrambe le circostanze vengono messe in scena due situazioni simili: i protagonisti, pur trovandosi in condizioni pressoché disperate, riescono ad ottenere un felice esito per la loro impresa, grazie al loro comportamento proattivo, reso più forte dalla dedizione al proprio compito, ma grazie anche a un aiuto esterno (grazia divina, intervento di Carlo Magno) che li premia. L’identificazione nelle storie (difficoltà, convinta resistenza, superamento) induce nei seguaci di Bruce ottimismo e speranza; la modalità di presentazione di questi exempla da parte del re, tramite la sua intelligenza intrapersonale e interpersonale, verbale e comunicativa, e le sue capacità narrative e performative,[61] aggiunge all’elemento motivazionale (incoraggiamento) quello ludico (divertimento, svago), ciò che permette agli uomini di affrontare lo sforzo emotivo richiesto ma anche di incrementare la loro resistenza fisica nei momenti della fuga e dell’attraversamento del Loch Lomond. In questo senso, John Barbour presenta il protagonista del poema come un leader ideale, abile non solo nel guidare militarmente, ma anche nel comunicare dal punto di vista emozionale, attivando efficaci procedure di riparazione dello stress, della paura, della fatica e della perdita di speranza.

 

 


[1] Il termine storytelling sarà applicato alla ‘narrazione di una storia’ ovvero un racconto ben selezionato, che crea una piattaforma di senso indirizzata a uno specifico destinatario e che elicita la risposta di quest’ultimo sotto forma di un atteggiamento o comportamento desiderato e sollecitato da chi racconta; in psicoterapia, allo scopo dell’individuazione e riparazione di una ferita psichica.

[2] Celebre il passo ai vv. 696-717 del libro XIII del poema, in cui Barbour, richiamando alla memoria la figura di Marjorie Bruce e Walter Stewart, presenta il loro figlio, re Roberto II Stewart, e spiega che al momento della stesura del poema era l’anno 1375, Roberto II aveva sessant’anni, era salito al trono da cinque anni dopo la morte di suo nipote Davide II, che aveva regnato per quarantadue anni (1329-1371), ed erano trascorsi quarantasei anni dalla morte di Bruce (M.P. McDiarmid, J.A.C. Stevenson (eds.), Barbour’s Bruce. A fredome is a noble thing!, 3 voll., Edinburgh, The Scottish Text Society, 1980-1985, vol. III, pp. 76-77).

[3] Lo schema metrico-strofico è quello di ottonari disposti in distici a rima baciata.

[4] Un’efficace introduzione alla figura storica di Bruce è la voce Robert I [Robert Bruce] dello Oxford Dictionary of National Biography, Oxford, Oxford University Press, 2004, versione online [consultato il 26.12.2021], a cura di G.W.S. Barrow; si vedano inoltre G.W.S. Barrow, Robert Bruce and the Community of the Realm of Scotland, 4a ed., Edinburgh, Edinburgh University Press, 2005; M. Penman, Robert Bruce King of the Scots, New Haven and London, Yale University Press, 2014.

[5] Roberto II Stewart era zio materno di Davide II, in quanto figlio della figlia primogenita di Bruce, Marjorie (c. 1296-1316); si veda G.W.S. Barrow, Stewart family (per c. 1110-c. 1350), in Oxford Dictionary of National Biography, Oxford, Oxford University Press, 2004, versione online [consultato il 16.3.2022]; S. Boardman, The Early Stewart Kings (1371-1394), Woodbridge, Boydell & Brewer, 1996, passim.

[6] Sulla vita di Barbour e l’opera si vedano tra gli altri A.A.M. Duncan, John Barbour. The Bruce, Edinburgh, Canongate, 1997, pp. 2-4; id., Barbour, John (c. 1330-1395), in Oxford Dictionary of National Biography, Oxford, Oxford University Press, 2004, versione online [consultato il 27.12.2021]; R. J. Goldstein, The Matter of Scotland. Historical Narrative in Medieval Scotland, Lincoln and London, University of Nebraska Press, 1993, pp. 139-141.

[7] Il poema originariamente non è diviso in libri; la suddivisione è opera degli editori moderni.

[8] Secondo Barbour, Bruce e i suoi uomini fuggirono verso l’isola di Rathlin, lungo la costa nord-orientale dell’Irlanda, ma storicamente non vi è certezza su dove Bruce si sia rifugiato nel periodo tra l’estate del 1306 e il febbraio 1307.

[9] Tra i testi di riferimento consultati in relazione ai concetti di resilienza, senso, emozioni positive, intelligenza emotiva, intelligenza interpersonale, storytelling e biblioterapia: R. M. Bergner, Therapeutic Storytelling Revisited, «American Journal of Psychoteraphy», 61/2, 2007, pp. 149-162; B. Cyrulnik, Resilience. How Your Inner Strength Can Set You Free from the Past, English translation by David Macey, London, Penguin Books, 2009; V. E. Frankl, Uno psicologo nei lager, traduzione italiana di Nicoletta Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 201323; B. L. Fredrickson, R. A. Mancuso, C. Branigan, M. M. Tugade, The Undoing Effect of Positive Emotions, «Motivation and Emotions», 24/4, 2000, pp. 237-258; H. Gardner, Multiple Intelligences, New York, Basic Books, 2008; D. Goleman, Intelligenza emotiva, trad. it., Milano, Mondadori, 1995, e Working with the Emotional Intelligence, New York et al., Bantam Books, 1998, 2000 (rist. 2006); A. S. Masten, Ordinary Magic: Resilience Processes in Development, «The American Psychologist», 56/3, 2001, pp. 227-238; J. Miller, Medicines of the Soul: Reparative Reading and the History of Bibliotherapy, «Mosaic. An Interdisciplinary Critical Journal», 51/2, 2008, pp. 17-34; C. L. Park, S. Folkman, Meaning in the Context of Stress and Coping, «Review of General Psychology», vol. 1, n. 2, 1997, pp. 115-144; P. Salovey, J. D. Mayer, Emotional Intelligence, «Imagination, Cognition, and Personality», 9, 1990, pp. 185-211; M. M. Tugade, B. L. Fredrickson, Resilient Individuals Use Positive Emotions to Bounce Back from Negative Emotional Experiences, «Journal of Personality and Social Psychology», 86/2, 2004, pp. 320-333.

[10] Libro III, vv. 187-198; M. P. McDiarmid, J.A.C. Stevenson, Barbour’s Bruce, cit., vol. II, pp. 52-53.

[11] M. P. McDiarmid, J.A.C. Stevenson, Barbour’s Bruce, cit., vol. II, pp. 53-56.

[12] Cioè tre grandi recipienti. Nelle fonti latine del brano, come si vedrà più avanti, l’unità di misura è il modium (moggio).

[13] V. Di Clemente, Strenuissimus princeps, Rex et dominus noster. Figure e temi della prima guerra di indipendenza scozzese tra storia e letteratura (XIV-XV sec.), Leonforte (EN), Siké Edizioni, 2020, pp. 58-59, con modifiche.

[14] Come riferito ad es. da Tito Livio nel XXIII libro della storia di Roma dalla sua fondazione.

[15] M. P. McDiarmid, J.A.C. Stevenson, Barbour’s Bruce, cit., vol. I, p. 73.

[16] Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, vol. 5 (libri XXI-XXIII), traduzione di Bianca Ceva, note di Mario Scandola. Testo latino a fronte, Milano, BUR, 19892, pp. 412-413.

[17] L. Wieland (ed.), Martini Oppaviensis Chronicon, in G. H. Pertz (ed.), Monumenta Germaniae Historica inde ab anno Christi quingentesimo usque ad annum millesimum et quingentesimum, SS XXII, Hannover, Hahn, 1872, pp. 377-475: 404.

[18] Pauli Orosii, Hispani Presbyteri, Historiarum libri septem, IV.XVI, in J.-P. Migne (ed.), Patrologia Latina, vol. 31, Paris, 1849-1855, col. 894.

[19] H. R. Dietsch (cur.), Eutropii breviarium historiae romanae, Lipsiae, in aedibus G. Teubnerii, 1883, p. 20.

[20] J. R.Lumby (ed.), Polychronicon Ranulphi Higden Monachi Cestrensis, vol. IV, London et al., Longman et al., 1872, p. 60.

[21] C. du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Niort, Favre, 1884-1887, tome 5, col. 377b, versione elettronica [consultato il 20.3.2022]; R. E. Latham et al., Dictionary of Medieval Latin from British Sources, Oxford, Oxford University Press for the British Academy, 1975-2013, s.v. miles, versione elettronica [consultato il 20.3.2022]; H. Kurath et al., Middle English Dictionary (= MED), Ann Harbor, University of Michigan Press, 1952-2002, versione eletttronica , s.v. knight [consultato il 20.3.2022]; W. A. Craigie et al. (eds.), Dictionary of the Older Scottish Tongue from the Twelfth Century to the End of the Seventeenth (= DOST), 12 vols., Aberdeen, Aberdeen University Press et al., 1931-2002, versione elettronica in Dictionaries of the Scots Language / Dictionars o the Scots Leid , University of Dundee, 2004, s.v. knicht, knycht [consultato il 10.4.2022].

[22] R. E. Latham et al., Dictionary, cit., [consultato il 9.4.2022].

[23] Si vedano DOST s.vv. servand, threll [consultato il 10.4.2022], e K. Bitterling, Der Wortschatz, cit., s.vv. serwand, threll.

[24] J. R. Lumby, Polychronicon, cit., p. 62.

[25] Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, cit., vol. 6 (libri XXIV-XXVII), pp. 350-353.

[26] J. R. Lumby, Polychronicon, cit., p. 68.

[27] L. Wieland, Martini Oppaviensis Chronicon, cit., p. 404.

[28] Ibidem. Martino ricava parte di questo passo direttamente da Orosio (si veda infra).

[29] Pauli Orosii Historiarum libri septem, cit., IV.16, coll. 897-898.

[30] Ibidem.

[31] La relativa metafora concettuale potrebbe suonare come “la disperazione è una sconfitta”. Si veda DOST s.vv. vencus, discumfire, discomfit, vencust, undisconfit; K. Bitterling, Der Wortschatz, von Barbours Bruce, Berlin, Freie Universität, 1970, s.vv. vencuß, discumfit, wndiscumfyt.

[32] W.F.H. Nicolaisen, Stories and Storytelling in Barbour’s Brus, in J. Derrick McClure, M. R. G. Spiller (eds.), Bryght lanternis. Essays on the Language and Literature of Medieval and Renaissance Scotland, Aberdeen, Aberdeen University Press, 1989, pp. 55-66: 63.

[33] DOST s.v. comfort n. e v.; K. Bitterling, Der Wortschatz, cit., s.vv. confort n. e v. Non è chiaro se nel verso Yusgat yaim comfort ye king la parola comfort sia da leggere come preterito indicativo terza persona singolare del verbo comfort o come sostantivo con funzione di oggetto diretto, intendendo yusgat non come l’avverbio thusgat ‘così’, ma come la sequenza thus ‘così’ + gat indicativo preterito terza persona singolare del verbo get ‘ottenere, procurarsi’ e quindi l’enunciato sia da intendersi ‘così il re li incoraggiò/confortò’ oppure ‘così il re recò loro conforto/incoraggiamento’. Il verbo, insieme al sostantivo confort che da esso deriva, entra nei dialetti inglesi tramite l’anglo-normanno conforter, confort (Anglo-Norman Dictionary = AND, versione elettronica , s.vv., consultato l’8.4.2022), francese antico id., da un verbo latino tardo di prima coniugazione confortāre, composto dal prefisso sociativo con- < cum ‘con, insieme’ e dall’aggettivo fortis, -e ‘forte’ (W. von Wartburg, Französisches Etymologisches Wörterbuch = FEW, Bonn, 1922-2002, versione digitalizzata , vol. 2, pp. 1044-1045, s.v. confortāre, consultata l’8.4.2022). Il senso originario del verbo è quindi ‘rendere forti, dare o portare forza’. Come si rileva nel FEW, le prime attestazioni del verbo in latino si trovano nel lessico medico e in quello cristiano, indicando il processo di rafforzamento della salute fisica e di quella spirituale.

[34] Exemplum est alicuius facti aut dicti praeteriti cum certi auctoris nomine propositio. Id sumitur isdem de causis quibus similitudine. Rem ornatiorem facit cum nullius rei nisi dignitatis causa sumitur; apertiorem, cum id quod sit obscurius magis dilucidum reddit; probabiliorem, cum magis veri similem facit; ante oculos ponit, cum exprimit omnia perspicue ut res prope dicam manu temptari possit ([Marci Tullii Ciceronis] ad C. Herennium de ratione dicendi (Rhetorica ad Herennium), with an English Translation by H. Caplan, London and Cambridge (MASS), William Heinemann, 1954 (repr. 1964), pp. 382, 384 (libro IV, capitolo XLIX).

[35] B. W. Kliman, Speech as a mirror of ‘sapientia’ and ‘fortitudo’ in Barbour’s Bruce, «Medium Ævum», 44, 1/2, 1975, pp. 151-161: 154-155.

[36] Secondo J. H. Taggart, The Historicity of Barbour’s Bruce, PhD Thesis, Glasgow, University of Glasgow, 2004, p. 294, l’attraversamento del Loch Lomond è un evento plausibile.

[37] M. P. McDiarmid, J.A.C. Stevenson, Barbour’s Bruce, cit., vol. II, pp. 61-62.

[38] Probabilmente una deformazione del francese douze pairs ‘dodici pari’.

[39] V. Di Clemente, Strenuissimus, cit., pp. 61-62.

[40] Dost s.v. red(e v.1; K. Bitterling, Der Wortschatz, cit., s.v. rede, v.

[41] M. Penman, Robert the Bruce, cit., p. 64.

[42] Dost s.v. meryly e K. Bitterling, Der Wortschatz, cit., s.v. meryly traducono l’avverbio ‘merrily, cheerfully, light-heartedly, gaily, happily, joyfully, delightfully, with mirth or jollity, jocularly, jestingly, agreeably, pleasantly’. L’avverbio assume qui l’accezione particolare che fa riferimento all’atteggiamento professionale del giullare, che promuove sentimenti ed emozioni di coinvolgimento, allegria e spensieratezza. Sull’assunzione del ruolo di “menestrello” da parte di Bruce in questo episodio, si veda B. W. Kliman, Speech as a mirror of ‘sapientia’ and ‘fortitudo’, cit., p. 155: «the Bruce performs the role of minstrel for them [for his men, NdA]».

[43] M. P. McDiarmid, J.A.C. Stevenson, Barbour’s Bruce, cit., vol. II, p. 62.

[44] V. Di Clemente, Strenuissimus, cit., p. 62.

[45] Bruce, artefice, crea, realizza (maid, indicativo preterito terza persona singolare di to make) gamin ‘gioco, sport, divertimento’ (inglese medio gāme, inglese antico gamen, dal norreno gaman, DOST s.v. gamin n.) e solace ‘azione del confortare o consolare; conforto e consolazione dall’avversità e dall’afflizione; gioia, felicità, soddisfazione, piacere, godimento; divertimento, intrattenimento, ricreazione, diporto’ (si veda inglese medio solas ‘gioia, piacere, felicità’, anglo-normanno solaz ‘conforto, agio, riposo, godimento’, dal latino sōlācĭum, che condivide la stessa base del verbo deponente di prima coniugazione sōlor ‘consolo’, DOST, MED s.vv.) a beneficio dei suoi uomini (thaim).

[46] A. Kroeber, G. Servois (eds.), Fierabras. Chanson de geste, Paris, Vieweg, 1860; ARLIMA, Archive électronique de la littérature française médiévale: Fierabras, Fierabras, [consultato il 21.9.2019].

[47] M. P. McDiarmid, J.A.C. Stevenson, Barbour’s Bruce, cit., vol. II, p. 74.

[48] R. Purdie, Medieval Romance and the Generic Frictions of Barbour’s Bruce, in S. Boardman, S. Foran (eds.), Barbour’s Bruce and its Cultural Context. Politics, Chivalry and Literature in Late Medieval Scotland, Cambridge, D. S. Brewer, 2015, pp. 51-74: 59 e nota 31.

[49] [consultato il 1.6.2022].

[50] Database of the Middle English Romance, University of York. Firumbras (Ashmole), ; Firumbras (Fillingham), ; Sultan of Babylon, [ il 24.7.2019]; E. Hausknecht (re-ed.), The romaunce of the Sowdoune of Babylone and of Fierabras his Sone who conquered Rome, London, Kegan Paul et al. for the Early English Text Society, ES XXXVIII, 1881 (repr. 1891, 1893); S. J. Herrtage (ed.), Sir Ferumbras, London, Kegan Paul et al. for the Early English Text Society, 1903; A. Lupack (ed.), The Sultan of Babylon, in Id. (ed.), Three Middle English Charlemagne Romances, Kalamazoo (MI), Medieval Institute Publications, Middle English Text Series, 1990, versione elettronica Robbins Library Digital Project, [consultato il 28.7.2019]; M. I. O’ Sullivan (ed.), Firumbras and Otuel and Roland, London, Oxford University Press for the Early English Text Society, OS 198, 1935.

[51] M. Ailes, Anglo-Norman Developments of the chanson de geste, «Olifant», 25, 2006 [2008], pp. 97-110; L. Brandin, La destruction de Rome et Fierabras, ms. Egerton 5028 [sic], Musée Britannique, Londres, «Romania», tome 64, n. 253, 1938, pp. 18-100: 55-99; P. Hardman, M. Ailes, Re-Presenting Otherness: the Fierabras Insular Tradition, in The Legend of Charlemagne in Medieval England. The Matter of France in Middle English and Anglo-Norman Literature, Cambridge, Boydell & Brewer, 2017, pp. 264-345 e 413-415; descrizione del ms. nel catalogo online della British Library, [consultato il 1.6.2022].

[52] M. P. McDiarmid, J.A.C. Stevenson, Barbour’s Bruce, cit., vol. II, p. 61, rilevano che nell’edizione a stampa del Bruce di Lekpreuik del 1571 la lezione è Balan.

[53] P. Hardman, M. Ailes, Representing Otherness, cit., p. 266.

[54] AND, s.v. fer 2 [consultato il 1.6.2022].

[55] Il contenuto di questo paragrafo riprende e rielabora quanto già scritto in V. Di Clemente, Strenuissimus, cit., pp. 63-65.

[56] Si veda V. Di Clemente, Tam iure quam meritis: narrazioni pro-Bruce tra XIV e XV secolo, in I linguaggi del potere, a cura di F. Rappazzo e G. Traina, Sesto San Giovanni, Mimesis, 2020, pp. 107-117; Ead., Strenuissimus, cit., pp. 11-50.

[57] M. P. McDiarmid, J.A.C. Stevenson, Barbour’s Bruce, cit, vol. II, p. 20.

[58] Si veda V. Di Clemente, Gli usi dell’elemento gnomico nel Bruce di John Barbour, in La tradizione gnomica nelle letterature germaniche medievali, a cura di M. Cometta, E. Di Venosa, A. Meregalli, P. Spazzali, Milano, LED, 2018, pp. 101-119: 112 (traduzione leggermente modificata).

[59] M. P. McDiarmid, J.A.C. Stevenson, Barbour’s Bruce, cit., vol. III, p. 36.

[60] Si veda V. Di Clemente, Gli usi, cit., p. 112 (traduzione leggermente modificata). Ho tradotto qui con ‘ragione’ il termine Early Scots rycht, che indica anche il ‘diritto’ nel senso strettamente giuridico del termine e che Bruce usa per esprimere il suo diritto al trono scozzese; la ‘ragione’ degli Scozzesi sta nel fatto di combattere per la libertà della propria terra, ovvero per l’indipendenza da un’autorità straniera.

[61] Sui diversi tipi di intelligenza e le articolazioni dell’intelligenza emotiva, si veda supra, soprattutto H. Gardner, Multiple intelligences, cit.; D. Goleman, Intelligenza emotiva, cit.; P. Salovey, J. D. Mayer, Emotional Intelligence, cit.

 


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