Forme di resilienza filosofica nel De Profundis di Oscar Wilde

di Enrico Palma

 

 

Soffrire è produrre conoscenza.[1]

Les idées sont de succédanés des chagrins;

au moment où ceux-ci se changeant en idées,

 ils perdent une partie de leur action nocive sur notre cœur,

 et même, au premier istant, la transformation

elle-même dégage subitement de la joie.[2]

 

Una delle mie più profonde convinzioni esistenziali è che la sofferenza nella quale sprofondiamo per circostanze avverse alla nostra vita, così atroci da provare una sensazione di abbattimento estremo al punto da desiderare persino di scomparire, sia in realtà la più alta e la più feconda occasione per misurare noi stessi e soprattutto per conoscere. Ma conoscere cosa? Ciò che noi siamo essenzialmente, qual è l’energia più recondita che si sviluppa, brucia e avvampa nel nostro essere al mondo e in reazione, resistenza e adattamento al mondo stesso, la verità al cospetto della quale ci rimette la nostra identità di sofferenti. E cosa si scopre? Che tale identità è appunto la sofferenza, che siamo esseri addolorati per costituzione. Ma una volta appurata tale facies dolorosa, che fare allora? Basta rinchiudersi in un antro oscuro, cessare ogni relazione poiché gran parte dei mali esistenziali provengono proprio dal commercio umano? Oppure pensare a una risposta, a una disposizione esistenziale rinnovata che si faccia carico del peso della caduta e della gravità dello sprofondamento per durare ancora e con pienezza? Ritengo che nella grande letteratura occidentale una dinamica simile sia stata centrata e sviluppata da Oscar Wilde, il quale rappresenta più di ogni altro l’emblema dell’uomo sofferente scaraventato con la massima brutalità nel dolore e nella vergogna per poi concettualizzare un percorso di risalita, una vera e propria resurrezione.

Per parlare di resilienza[3] scelgo quindi di rievocare uno dei massimi capolavori filosofici dell’Occidente, un’opera a cui non è per nulla inappropriato attribuire una dignità evangelica, e cioè il De Profundis. In che senso Wilde può essere stato un resiliente? Lo è stato veramente? Quale strategia ha adoperato e propone al lettore a cui, da inguaribile istrione e saltimbanco, rivela tutto se stesso, confessandosi alla persona che era stata la causa del suo male? Wilde ha vissuto una crisi profondissima, ha toccato l’abisso con ogni sua fibra, ha reagito alla situazione avversa, alla grande violenza che la vita stava perpetrando nei suoi confronti con un’ironia persino più feroce di quella che nelle sue commedie aveva impiegato per dileggiare la società inglese, ha scavato in se stesso alla ricerca di quella forza che la sua condanna richiedeva per non soccombere, trovando una verità che solo un’immane sofferenza poteva suscitare.

Intendo dunque seguire l’argomentazione wildiana per rispondere a questi quesiti, con l’obiettivo di esplicitare un concetto di resilienza filosoficamente intesa, laddove cioè la conoscenza del proprio male esistenziale arrivi a esiti teoretici di portata universale. Cercherò quindi di mostrare come una crisi esistenziale talmente profonda da poterla chiamare con il nome di tragedia possa essere affrontata seguendo questa scansione: comprendere se stessi e ciò che ha consentito che il male accadesse; assorbire la situazione cercando di trasformare ogni goccia di sofferenza in qualcosa di spendibile nell’immediato futuro; una rivoluzione esistenziale che tramuti il dolore in conoscenza e che abbia come esito ultimo il condono del male personale e la benedizione di ciò che si è vissuto.

 

1. Capire per reagire

La storia è nota a tutti ma la ripercorro brevemente per rendere la lettura più agevole.[4] Wilde frequentava un ricco giovane inglese, Lord Alfred Douglas, detto Bosie, figlio del marchese di Queensberry, il quale non vedeva certamente di buon grado il fatto che il ragazzo si accompagnasse con lo scrittore irlandese di cui erano famose le inclinazioni e le bizze. A causa di un biglietto fatto recapitare dal marchese proprio a Wilde, in cui veniva apostrofato in quanto sodomita, all’epoca dei fatti pratica e modo di essere non solo disapprovati dalla buona società inglese ma anche puniti dalla legge, lo scrittore, istigato dall’amante capriccioso e viziato, fa causa al marchese, che gli risponde con una controaccusa. Wilde, insomma, si trova a difendersi nello stesso processo di cui era il promotore, costretto a smentire quello di cui Queensberry lo accusava di essere. Le prove addotte dal marchese sono schiaccianti, l’opinione pubblica è contro Wilde e così anche il giudice, che lo condanna a due anni di lavori forzati. Come si direbbe in questi casi, è l’inizio della fine. Wilde, da dandy dedito esclusivamente al culto del piacere, in una concezione dell’estetica come scienza della sensibilità portata alle sue estreme conseguenze, diviene la burla di se stesso e di quell’umanità che con così tanto gusto aveva scimmiottato nelle sue opere. Viene perciò condotto al carcere di Reading, nel quale patirà pene per lui insopportabili. Dai fasti della ricchezza e del suo genio totalmente dispiegato nell’arte di vivere, piomba improvvisamente nell’abisso.

A un certo punto, ed è qui che si evince il suo profondo gesto filosofico, Wilde decide di scrivere una lunga lettera al suo amante dal sapore di una confessione, rivelando le acquisizioni teoretiche raggiunte. La domanda che si pone Wilde è in fondo delle più semplici: come ci sono finito qui? Oppure: come ho fatto a ridurmi così? Prima di pensare a come poter reagire a una situazione, è sempre fondamentale, dice lo scrittore, tentare di capire, più in particolare i motivi per cui questo male ci è accaduto.

Non sbaglia di certo chi interpreta il De Profundis come una durissima rappresaglia mossa dal ravvedimento riguardo all’esistenza passata e alla relazione avuta con l’amante per il quale ci si è finiti per rovinare. Wilde, nonostante l’impressione sia forte e la lettera una confessione artisticamente concepita,[5] è tuttavia ben lontano dagli atteggiamenti isterici da donnicciola abbandonata che piange sull’avversità del proprio destino amoroso. Piuttosto infatti che accanirsi contro Bosie, Wilde commisera se stesso e la sua condizione attuale: «I blame myself for allowing an unintellectual friendship, a friendship whose primary aim was not the creation and contemplation of beautiful things, to entirely dominate my life».[6] Nel massimo dell’afflizione esistenziale, il prigioniero Wilde pensa dunque alla vita trascorsa, nella quale stava crescendo invisibile il germe del male che lo avrebbe divorato. Qualunque reazione, alla sua base, deve fondarsi sulla comprensione preliminare del passato, che a questo punto diventa il primo gradino della scala verso il riscatto. Wilde passa così in rassegna tutto il male che Bosie avrebbe causato al naturale dispiegamento del suo genio artistico, facendogli preferire vane occasioni mondane e di oblio del sé al lavoro letterario.

Wilde passa in rassegna tutte le sconcezze e l’inconsistenza caratteriale di Bosie, tratteggiandone un ritratto a dir poco pessimo, direi quasi diabolico:[7] dedito ai piaceri e non all’intelligenza, approfittatore seriale, vanesio, egoista, spendaccione, frivolo, avvelenato dal vizio, corroso dalla noia, insensibile all’arte. Eppure, come afferma lo scrittore, la sua volontà era totalmente aggiogata alla sua. Per quale ragione? Perché Wilde ne era immensamente innamorato. In ogni occasione in cui si trovasse, aveva preferito se stesso a un altro, e proprio in ciò, aggiungerei, consiste il punto più estremo dell’amore che si prova per qualcuno. Dovendo dunque trovare una ragione suprema alla condanna e alla sua abiezione attuale, Wilde non esita un istante e addita Bosie, senza tuttavia esimersi dal biasimare se stesso, poiché la fermezza di carattere che credeva di possedere riteneva che lo avrebbe risparmiato dagli eccessi verso i quali l’amante era invece sempre incline. Wilde dice di aver smarrito se stesso e di averlo affidato, per affetto, pietà e amore, alla persona sbagliata, che lo ha portato alla rovina. «Of course, I should have got rid of you. I should have shaken you out of my life as a man shakes from his raiment a thing that has stung him».[8] Tale presenza intossicava Wilde, e quando si crede che l’amore verso qualcuno sia la maggiore fonte di pienezza che possa capitarci nella vita, proprio qui si compie l’errore fatale, essendo la persona di cui si è innamorati allo stesso tempo la malattia e la cura a se stessa, e quindi, se si vuole, un gioco di forze a somma zero.

È a questaltezza che Wilde introduce il vero, grande concetto del De Pronfudis, il dolore.[9] Diversamente da Bosie per il quale ripescare ricordi di tre anni prima rappresenta un andare a ritroso con la memoria a un tempo fin troppo remoto, Wilde, in carcere, non può che pensare alle amarezze che quella memoria reca con sé e alla distanza che lo divide dalla felicità passata come da quella, se mai ci sarà, futura. Non c’è niente a cui il carcerato non sia rimesso al di fuori della sofferenza e, proseguendo con il sillogismo, se nella cella non ci si può spingere verso cose più estreme allora l’estremo lo si è già raggiunto: si è toccata l’identità più essenziale della vita stessa, il fondo più veritiero che ha nome suffering.

Suffering – curious as it may sound to you – is the means by which we exist, because it is the only means by which we become conscious of existing; and the remembrance of suffering in the past is necessary to us as the warrant, the evidence, of our continued identity.[10]

Ciò vuol dire, come affermato all’inizio, che la sofferenza ci pone dinanzi alla verità di noi stessi e dell’esistenza scoprendo che essa è appunto res dolorosa. La vita è dolore e vivere è produrre sofferenza.[11]

Se la vita è secondo Wilde una sofferenza continua e irrimediabile, vivere diventa una strategia anch’essa ininterrotta e rivolta non alla resa o all’appiattimento negativo sul dolore, bensì a un riscatto, alla formulazione di un proposito attivo, a un’azione risoluta che con un colpo di mano riesca ad avere ragione del dolore e a tramutarlo nell’opposto più naturale che riusciamo a concepire: la gioia. Colgo un fascino destinale nelle parole di Wilde, perché a suo giudizio era come se nella sua vita, e quindi in ogni vita, ci fosse una legge destinale che conduce inevitabilmente a una conclusione prestabilita, come se ogni piccolo gesto, nel suo caso specifico, avesse contribuito a gettarlo nella tenebra. Illuminante è in questo senso cosa dice Benjamin nel suo saggio Schicksal und Charakter: «Il destino appare quindi quando si considera una vita come condannata, e in fondo tale che prima è stata condannata e solo in seguito è divenuta colpevole».[12] Può sembrare una vana forma di giustificazionismo esistenziale, una sorta di determinismo del carattere che si incrocia alle volte con un destino generale che è prescritto al soggetto. Ritengo che Wilde, in una maniera che cercherò di spiegare, dica però il vero anche qui. La Sinfonia del Dolore che compone tra lacrime e inchiostro raggiunge infatti il suo momento trionfale: nelle invettive contro Bosie, nei tanti episodi della loro amicizia in cui il peggio dell’uno aveva rovinato il meglio dell’altro, nell’odio e nelle bassezze che Wilde schiaffa in faccia al suo amante, lo scrittore rinviene la definizione della materia bruta da cui partire per erigere una nuova vita.

Mi sembra chiaro che Wilde, pur nella confessione dei torti che ritiene di aver subito da parte del suo Bosie, non parli esclusivamente della vicenda del suo personale rinsavimento dopo una storia d’amore che l’aveva letteralmente annientato, ma della storia di tutti, cioè a dire non solo dei feriti a morte dall’amore ma da chiunque venga fatalmente ferito in generale. La forza filosofica di questo testo, nel triplice segno della tragedia, della resistenza e della reazione, sta nella metabolizzazione del male subito, nella capacità di adattamento e soprattutto nell’intelligenza dell’individuo nel saperlo trasformare in qualcosa di più alto e redentivo. Ciò a cui perverrà Wilde, infatti, sarà una totale benedizione del suo vissuto: niente di più importante poteva accadergli rispetto al sommo dolore in cui è piombato, per la ragione che senza la caduta non può esserci la spinta per andare oltre l’ostacolo. Sicché, piuttosto che respingere in modo assolutamente sterile la crisi da cui siamo travolti, Wilde, assorbendo in sé la carica del carcere, della pena e dello scoramento, esattamente come una molla che più viene compressa più energia incamera, acquista il vigore per un nuovo slancio. Il balzo che assicura l’utilizzo dell’intelligenza volta alla comprensione di quanto è accaduto e da cui ricavare, come esito più importante, gioia.[13]

Non è quindi con presunzione, né arroganza o sciocco desiderio di ribalderia retorica che Wilde, dopo aver riassunto tutte le meschinità di Bosie (che per quanto ne sappiamo devono realmente essere state tali), afferma: «You see that I have to write your life to you, and you have to realise it. We have known each other now for more than four years. Half of the time we have been together: the other half I have had to spend in prison as the result of our friendship».[14] Credo che Wilde possa presumere seriamente di conoscere il vero di Bosie, di averne capita la natura. Comprendere da parte di Wilde la vita di Bosie e la sua insulsaggine, nonché provare il dolore derivato dall’affidare il suo sé a un individuo simile, ha rappresentato per lo scrittore comprendere in fondo se stesso. Voglio dire che se Wilde aveva fatto della sua volontà, dei suoi desideri e del suo intero tempo esistenziale una proprietà del ragazzo, studiare Bosie significa per lo scrittore capire non altri che se stesso. Alla stregua di un chirurgo che seziona i corpi per studiarli e allo stesso tempo per guarirli da un male pur infliggendo dolore, a carne viva e con ricordi indelebili in mente Wilde opera sulla sua vita. Non possono esserci riscatto, ripresa e reazione se non c’è, quindi, comprensione.

Nessuno come Proust ha offerto con strepitosa precisione cosa significhi comprendere le persone nel più profondo della loro natura: una pratica difficile e molto rara, che necessita di una forza intellettuale di cui forse soltanto gli scrittori veramente grandi sono dotati. Si tratta di un’arte con cui Proust fa coincidere la gioia di vivere, quella che rende il mondo abitabile a tutti noi che gli uni con gli altri siamo destinati a infliggerci del male a vicenda:

Chaque personne qui nous fait souffrir peut être rattachée par nous à une divinité dont elle n’est qu’un reflet fragmentaire et le dernier degré, divinité (Idée) dont la contemplation nous donne aussitôt de la joie au lieu de la peine que nous avions. Tout l’art de vivre, c’est de ne nous servir des personnes qui nous font souffrir que comme d’un degré permettant d’accéder à leur forme divine et de peupler ainsi joyeusement notre vie de divinités[15].

Quella wildiana, illuminata da Proust, costituisce a mio giudizio la più cristallina delle applicazioni di tale arte a un essere umano, più in particolare alla persona per noi fatale, quella che ci ha inferto il male maggiore e che ha ridotto la nostra vita a un niente. Arte che, attuata su Bosie, l’ha reso proprio un’idea, facendogli conoscere il suo amante fin nel profondo, e per di più, cosa decisiva, trasformandolo in uno specchio in cui comprendere per ultimo se stesso e tutta la sua vita passata. Wilde ha reso Bosie un’idea, ma attraverso di lui anche se stesso.
Lo scrittore spera che le parole di fulmini e terribili arrivino a ferire Bosie, a infiammarlo di collera o di disperazione, quando cioè si è colpiti al punto dal racconto del dolore che abbiamo causato all’altro da volerci sostituire a lui e soffrire noi al suo posto. C’è un grande senso di giustizia nelle parole di Wilde, la speranza, chiaramente infondata e di cui non si illude, che la barriera di egoismo di Bosie possa infrangersi e fargli comprendere cosa il suo amante ha sofferto per causa sua. «The supreme vice is shallowness»,[16] il vero e proprio mantra di questo testo, che ricorre più volte come un Leitmotiv o il contrassegno della fine di un argomento e l’inizio di un altro. «Whatever is realised is right».[17]

Reagire, dunque, significa come prima cosa capire: immedesimarsi con la turpe condizione in cui si è piombati; analizzare il più finemente possibile, esercitando l’intelletto e la scrittura, la nostra vita passata densa di errori, pigrizia e rinunce, in modo che dagli sbagli commessi e dal male che abbiamo subito possa riemergere una luce nuova e più fulgida, un essere rinnovato. La resilienza wildiana consiste allora nell’utilizzare scientemente il tempo della crisi come strumento di conoscenza di sé e di trasformazione del proprio vissuto dapprima in scrittura e poi in una persona che accolga e promuova nuovi principi esistenziali.

 

2. Soffrire per reagire

Come si fa, quale domanda del tutto ovvia giunti a questo punto, a fidarsi esclusivamente del proprio intelletto, invece di seguire il consiglio di una persona cara, di un amico o nei casi più gravi di uno specialista? Non potrebbero essere la genialità di Wilde e la sua estrema abilità nello scrivere fuorvianti? Ritengo che la risposta risieda ancora una volta nella natura dell’evento avverso e soprattutto nell’intensità del dolore suscitato non appena si fanno i conti con ciò che ci ha ridotti in macerie. È il grado di distruzione a suggerirci la verità di ciò che va fatto. Con la massima chiarezza, Wilde scrive la conclusione a quanto si è cercato finora di argomentare, arrivando con la forza della sua sola intelligenza a isolare il suo male e la sua sostanza:

I had given you my own life, and to gratify the lowest and most contemptible of all human passions, Hatred and Vanity and Greed, you had thrown it away. In less than three years you had entirely ruined me from every point of view. For my own sake there was nothing for me to do but to love you.[18]

 

Aveva dato tutta la sua vita a Bosie ed egli l’aveva usata contro suo padre, finché Wilde, incapace a causa dell’amore di separarsi da lui, non ne è stato colpito a morte.

Il pensiero appena successivo di Wilde è allora rivolto al che fare durante la prigionia, alla risposta che avrebbe dovuto maturare, alla ragione che avrebbe dovuto ritrovare e impiegare per sopportare utilmente e reagire alla sua abiezione. Dopo aver raccontato la storia della sua caduta nell’abisso descrivendo Bosie e cogliendo se stesso nel suo opposto, Wilde inizia la pars construens della sua riflessione: «After my terrible sentence, when the prison-dress was on me, and the prison-house closed, I sat amidst the ruins of my wonderful life, crushed by anguish, bewildered with terror, dazed through pain. But I would not hate you. Every day I said to myself, ‘I must keep Love in my heart today, else how shall I live through the day».[19] Wilde era persino sicuro che sapere da parte di Bosie il suo amante imprigionato per una sua disputa familiare lo avrebbe rattristato e commosso, e che lo sarebbe stato al punto da supplicare il perdono dello scrittore. Tuttavia, la bassezza e soprattutto la codardia di alcune persone sono alcuni dei difetti più nefasti che si possano incontrare, i quali vengono scambiati a volte finanche per nostre colpe. Ma Bosie, come esatto contraltare all’essenza di questo testo sulle cose profonde, possiede il vizio rovinoso della superficialità.

Qual è dunque lo stato esistenziale di Wilde, adesso che si trova in carcere e nelle poche ore che gli vengono concesse per scrivere impugna la penna e usa, in una calligrafia di luce, l’inchiostro del suo dolore sul bianco di una carta evangelica? L’identità dell’uomo Wilde è interamente segnata dal dolore, nella sua indefettibile ricorsività e di una necessità pari a quella del corso di un corpo celeste intorno al proprio sole:

Suffering is one long moment. We cannot divide it by seasons. We can only record its moods, and chronicle their return. With us time itself does not progress. It revolves. It seems to circle round one centre of pain. The paralysing immobility of a life, every circumstance of which is regulated after an unchangeable pattern, so that we eat and drink and lie down and pray, or kneel at least for prayer, according to the inflexible laws of an iron formula: this immobile quality, that makes each dreadful day in the very minutest detail like its brother, seems to communicate itself to those external forces the very essence of whose existence is ceaseless change.[20]

La vita di Wilde, che è ridotta ai minimi termini e cioè alla sola vibrazione sofferente che è la nuda vita, la sua forma più elementare e non ulteriormente riducibile, è scandita dalla privazione e dalla regolarità esasperante, la quale, rispetto al mondo di fuori il cui andamento regolare prelude dopo la morte alla rinascita e alla vitalità, gira a vuoto su se stessa, non producendo alcunché. È nello sforzo di ricavare l’utile dalla condizione più estrema in cui ci si possa mai trovare che Wilde dà prova del suo genio filosofico e della sua fibra morale. Piuttosto che soccombere al male e al dolore, maledicendo il suo passato, il prigioniero finisce per assaporare le giornate, ad accarezzare il grigio delle pareti, a contemplare il soffitto come un cielo azzurro e sgombero di nubi, a provare gratitudine per la solitudine e le notti insonni e tremendamente buie intendendole come le migliori occasioni per pensare.

Con una delle frasi più emblematiche e allo stesso tempo adamantine del De Profundis, Wilde afferma: «Where there is Sorrow there is holy ground».[21] Dove c’è una cosa che soffre, lì avviene qualcosa di eccezionale, di fuori dal comune, di assolutamente intangibile e meritevole del massimo rispetto. Intenderei la frase in questo modo: colui che soffre, per il fatto stesso di provarne si immedesima con l’intero mondo creaturale, prolungando un’eco che avrà un riverbero anche in uno dei vertici del pensiero di Benjamin su tristezza, malinconia e luttuosità ontologica: «Vive, in ogni tristezza, la più profonda tendenza al silenzio, e questo è infinitamente di più che incapacità e malavoglia di comunicare. Ciò che è triste si sente interamente conosciuto dall’inconoscibile».[22] Nel silenzio e nell’oscurità della cella, Wilde è riuscito infine a farsi pervadere dal mondo, a risalire in se stesso alla scaturigine del suo male e a progettare un futuro in cui il mondo colto nella sua verità, che per lo scrittore del De Profundis è manifestazione dolorosa, è appunto sacro.

 

3. Accettazione e benedizione di sé

Per quanto l’odio possa aver accecato Bosie nel folle desiderio di vedere il proprio padre sconfitto, anche a scapito del suo amante che si è letteralmente immolato per i suoi divertimenti, Wilde non può accondiscendere alle stesse pratiche, non può strozzare la sua vita attuale e quella futura covando dentro di sé la serpe dell’avversione vendicativa nei suoi confronti. Per il suo benessere personale, Wilde dice di voler perdonare Bosie: «And the end of it all is that I have got to forgive you. I must do so. I don’t write this letter to put bitterness into your heart but to pluck it out of mine. For my own sake I must forgive you».[23] Può sembrare un gesto di egoismo ma è in realtà quello più ragionevole. Se l’oblio di un fatto per noi doloroso non è possibile perché anche a distanza di anni ne sentiamo la voce sussurrarci all’orecchio, e nonostante adoperiamo ogni sforzo per sciogliere questo peso esso ritorna con la stessa virulenza a turbarci nel profondo, allora, come fatto da Wilde, bisogna capire e intellettualizzare il vissuto, prendere di petto il demone che ci ha subissati e fare i conti con lui, cosa che, come si è cercato di spiegare, rappresenta forse il modo più proficuo per fare i conti con se stessi.

Dovremmo arroccarci, al contrario, dietro una fortezza di orgoglio, penare piuttosto dieci volte di più del dolore subito pur di non far sapere a quella persona quanto siamo stati male? L’umanità di alcuni sentimenti fa in modo che i gesti più insensati diventino infatti l’unico rimedio per le tribolazioni della mente, sicché alla fine si cede e si perdona, quando per perdono si intende una benevolenza, anche immotivata, verso chi ci ha fatto soffrire e gli si racconta con la verità in bocca tutte le parole del nostro patire che fin lì avevamo taciuto. E ci si sente liberati, come dopo aver vomitato in seguito all’ingestione di qualcosa di altamente tossico.[24] Aggiunge Wilde: «Only one whose life is without stain of any kind can forgive sins. But now when I sit in humiliation and disgrace it is different. My forgiveness should mean a great deal to you now. Some day you will realise it».[25]

Dopotutto il pensiero ricorrente è sempre questo: deve almeno sapere quanto ho sofferto per causa sua. E Wilde fece proprio ciò ma senza ottenere niente, se non una sua liberazione e l’ulteriore conferma sul carattere infimo del suo amante: Bosie negò per tutta la vita di aver ricevuto la lettera, sebbene gli amici fidati di Wilde fossero pronti a testimoniare che una delle tre copie manoscritte fosse stata indirizzata proprio a lui. Perché se la codardia e l’incapacità di affrontare situazioni simili c’è stata una prima volta, non c’è alcun motivo per non ritenere che non debba avvenire una seconda. La cosa veramente incomprensibile è per di più come alla maniera di Wilde questa persona la si possa in qualche modo continuare ad amare e insistere nel pensare a lei come alla più grande occasione persa della propria vita. Coerentemente con il nostro discorso, si potrebbe rispondere che l’immaginazione possiede una tenacia alla quale il resto delle cose umane non osa nemmeno avvicinarsi. Questo succede perché siamo restii ad abbandonare i bei sogni, e quando finiscono, benché non abbiano alcunché di vero, soffriamo poiché stupidamente vorremmo che continuassero ancora. Sicché non ha proprio senso rimpiangere qualcosa che non solo non è mai avvenuto, ma che è stata una creazione falsa e criminale della nostra testa.[26]

A un occhio superficiale il De Profundis potrebbe sembrare, come già detto, il resoconto delle litigate e delle incomprensioni da parte di uno degli innamorati, che si sfoga con il suo amante di tutte le scenate che ha dovuto sopportare per anni. E in parte è così. Ma è anche un mea culpa, la narrazione del ravvedimento su una persona il sentimento verso la quale ne aveva offuscato il vero aspetto.

La strategia wildiana, oltre dunque alla comprensione, consta di un altro punto: perdonare, che tradotto in termini più espliciti significa fare pace con il proprio passato. Ogni esperienza, bella o brutta, felice o dolorosa che sia, è alla fine formativa. Ma ci si può chiedere: si può capire tutto e tutto rappacificare, trasformando, con una formula luziana, il tutto perso in un tutto parificato? Credo che la risposta sia negativa. Persino Wilde è stato una pessima messa alla prova di se stesso. Uscito di prigione, finì per rivedere Bosie, convinto che nella morte che ancora lo attanagliava non avesse più niente da perdere, tanto da aggrapparsi all’unica cosa che lo facesse sentire ancora vivo. C’è da dire che molti uomini, per il loro carattere estremamente sensibile e autodistruttivo, tendono anche inconsapevolmente verso la rovina, perché li affascina o, come detto dallo stesso Wilde, lo sono destinati per natura. Infatti: «Nobody, great or small, can be ruined except by his own hand».[27] Ma questo vorrebbe forse dire che il De Profundis non è da prendersi sul serio? Se davvero lo credessi, anche alla luce degli ultimi anni di Wilde, non mi sarei preso certamente la briga di leggerlo, studiarlo e proporlo alla riflessione.

Oscar Wilde, animale pasciuto dallo scandalo, pastore di sghignazzo, signore della lingua, uomo d’arte, illustre, celebre, brillante, è divenuto la vittima di una commedia stavolta allestita dalla società che si era divertito a schernire sul palcoscenico, venendone affossato. La sua cometa, dalle altezze vertiginose del successo, dell’alterigia e della superbia artistica e caratteriale, ora che si trova affogata nel fango, deve trovare nuova linfa in quel sudiciume. Anche in questo caso è chiarissimo: «There is only one thing for me now, absolute Humility: just as there is only one thing for you, absolute Humility also. You had better come down into the dust and learn it beside me».[28] Ciò non significa che una volta caduti non si riesca più a tornare all’altezza di prima, o che si voglia evitare, se si è capaci di farlo, nuovamente di salire troppo in alto per paura di cadere e farsi male. La grandezza, sembra dire Wilde, non è una questione di altitudine, bensì di espansione in orizzontale, non di culto personale ma della riflessione sulla propria umanità e sul riconoscimento di una forza universale che può affratellare tutti e vincere il dolore della vita, far dissolvere i patimenti e le vergogne, indurre a concepire la salvezza come un concetto sostenibile, che solo nell’antro più profondo della vita giace il significato risolutivo.

 

But while there were times when I rejoiced in the idea that my sufferings were to be endless, I could not bear them to be without meaning. Now I find hidden away in my nature something that tells me that nothing in the whole world is meaningless, and suffering least of all. That something hidden away in my nature, like a treasure in a field, in Humility.[29]

 

L’intera via crucis patita da Wilde, il fatto che la caduta e il dolore lo abbiano deciso all’autenticità nei suoi confronti, ha come esito ultimo una radicale trasformazione interiore, una vita nova sotto un’altra luce, non del palcoscenico ma dell’amore reciproco, qualcosa che si sente di avere soltanto quando è stato tolto tutto, figli, mobili, quadri, libri, dignità, rispettabilità, lavoro e felicità. Bisogna, per reagire, accettare quanto ci è accaduto, comprenderlo, metabolizzarlo e mutare la vita affinché i presupposti individuati di quel dolore non determinino più alcuna sofferenza futura. La risoluzione di Wilde, che potrebbe anche essere definita come il frutto della reazione all’evento funesto, è di cambiare le coordinate della vita sulla base dell’esperienza dolorosa, cercando di trovare una soluzione la cui verità si era manifestata nel suo estremo: intendo dire che se la vita era apparsa a Wilde come ontologicamente dolorosa, la reazione è quella di votarsi al suo contrario.

La resilienza wildiana, il far fronte alla massima difficoltà a confine con la tragedia, ritengo possa sintetizzarsi in questa triplice affermazione: «I have got to make everything that has happened to me good for me»,[30] «There is not a single degradation of the body which I must not try and make into a spiritualising of the soul»,[31] «To reject one’s own experiences is to arrest one’s own development. To deny one’s own experiences is to put a lie into the lips of one’s own life. It is no less than a denial of the Soul».[32] Ciò non vuol dire un travisamento dell’estetismo come approccio filosofico al reale ma un’intellettualizzazione profonda, la trasformazione appunto della vita in scrittura, del dolore in concetto e della tenebra esistenziale altrimenti dannata in parola di luce.[33] Fare della vita una questione di sincerità esistenziale e di coraggio nell’affrontarla secondo la verità rivelata dalla sofferenza. Wilde, giunto in carcere, voleva porre fine alla sua vita suicidandosi al primo momento utile, salvo poi rassegnarsi a vivere da condannato e in lutto spirituale per il resto dei suoi giorni, e infine a desiderare ardentemente di tornare a vivere e a godere la vita in un mondo nuovo, quello rivelato dal dolore: «Clergymen, and people who use phrases without wisdom, sometimes talk of suffering as a mistery. It is really a revelation».[34]

Allora la vita che si è vissuta diviene improvvisamente qualcosa di immensamente caro, nonostante gli errori, le sconcezze, gli insopportabili motivi di vergogna che ci bruciano e che vorremmo non avere mai commesso. Ma ciò è accaduto. E Wilde dichiara con forza che la parola ultima da pronunciare sia benedizione. Congedandosi da Douglas e rendendogli grazie per il dolore che gli ha inferto, dice:

 

What lies before me is my past. I have got to take myself look on that with different eyes, to make the world look on it with different eyes, to make God look on it with different eyes. This I cannot do by ignoring it, or slighting it, or praising it, or denying it. It is only to be done by fully accepting it as an inevitable part of the evolution of my life and character: by bowing my head to everything that I have suffered.[35]

 

Non si tratta di una resa bensì della più intellettuale delle accettazioni di sé, un fatalismo che non rimane tale ma che cerca nella ragione più intima del suo inabissamento la forza per reagire e mutare. Significa allora caldeggiare lo sforzo immane di benedire quanto vissuto, persino la persona che abbiamo amato immensamente e che ci fa fatto soffrire, perché senza di lei non si sarebbe pensato tutto questo. Con una formidabile nota nietzschiana, si potrebbe così sintetizzare: «L’unica salvezza per colui che soffre a causa dell’esistenza è quella di non soffrire più per la propria esistenza. Come potrà ottenerlo? Con la rapida morte oppure con il lungo amore».[36]

Comprendere il dolore alla radice è dunque la migliore delle vie per conoscere veramente facendoci diventare più profondi. L’enorme patimento e l’immane afflizione in cui Wilde era sprofondato lo hanno indotto a concettualizzare l’arte e la filosofia come strategie di comprensione, reazione e trasformazione, riconoscendo da ultimo, nell’atteggiamento autenticamente conoscitivo che indaga se stessi e il mondo, nel massimo del dolore e nel punto più basso dell’esistenza, anche un percorso formativo di liberazione, alla fine del quale acquisire la consapevolezza che il malessere provato deve sempre essere riformulato in vista di un riscatto, in altre parole una forma di redenzione della gravosa difficoltà di vivere, in cui consiste il dono della filosofia quando la vita in sé, in ogni sua manifestazione, diventa strumento di conoscenza.

Concludo dunque con una magnifica riflessione di Susan Sontag, la quale in un insolito quanto sorprendente saggio su Pavese dal titolo per noi strepitoso, The artist as exemplary sufferer, sintetizza in modo icastico le riflessioni fin qui condotte:

The writer is the exemplary sufferer because he has found both the deepest level of suffering and also a professional means to sublimate (in the literal, not the Freudian, sense of sublimate) his suffering. As a man, he suffers; as a writer, he trasforms his suffering into art. The writer is the man who discovers the use of suffering in the economy of art – as the saints discovered the utility and necessity of suffering in the economy of salvation.[37]

In questo senso, dunque, subire, reagire e comprendere il dolore può significare sprigionare se stessi e, in ultima analisi, salvarsi.

 

 


[1] E.M. Cioran, Il funesto demiurgo (Le mauvais demiurge, 1969), trad. di D. Grange Fiori, Milano, Adelphi, 1986, p. 131.

[2] M. Proust, Le Temps retrouvé, in À la recherche du temps perdu, a cura di J.-Y. Tadié, Parigi, Gallimard, 2019, p. 2293. «Le idee sono dei surrogati dei dolori; nel momento in cui questi si tramutano in idee, perdono una parte della loro azione funesta per il nostro cuore, e anzi, in un primo momento, la trasformazione stessa sprigiona subito gioia», trad. di M.T. Nessi Somaini, Milano, Rizzoli, 2012, p. 293. Trovo particolarmente esatta per il nostro argomento wildiano la scelta della traduttrice italiana di rendere il dégager appunto con sprigionare.

[3] Per un accenno sulla resilienza filosofica cfr. B. Vergely, Approccio filosofico alla resilienza, in B. Cyrulnik, E. Malaguti (a cura di), Costruire la resilienza. La riorganizzazione positiva della vita e la creazione di legami significativi (La résilience: le réalisme de l’espérance, 2001), trad. di R. Sardi, Trento, Erikson, 2005, pp. 117-128.

[4] Per le informazioni sulla vita di Wilde contenute in questo testo, soprattutto in riferimento al processo e alla prigionia, ho tenuto conto di R. Ellmann, Oscar Wilde. Una biografia (1984), trad. di E. Capriolo, Milano, Rizzoli, 1991, pp. 505-602 e di M. Sturgis, Oscar. Vita di Oscar Wilde (Oscar. A life, 2018), trad. di L. Fusari e S. Prencipe, Milano, UTET, 2019, pp. 608-701.

[5] Su questo punto cfr. P.K. Cohen, il quale afferma che la tarda concezione wildiana è assimilabile a una «trasformation of life into confessional art», in Id., The Moral Vision of Oscar Wilde, Rutherford, FDU Press, 1978, p. 62.

[6] O. Wilde, De Profundis and Other Prison Writings (1904), edited by C. Toibin, London, Penguin Books, 2013, p. 47. «Mi rimprovero per aver permesso che la mia vita fosse interamente dominata da unamicizia così poco intellettuale: unamicizia il cui primo scopo non era la creazione e la contemplazione del bello», trad. di C. Salvago Raggi, Milano, Feltrinelli, 2021, p. 3. D’ora in avanti DP seguito dal numero di pagina e dalla traduzione.

[7] Ed è proprio in questi termini che Douglas viene considerato da C.S. Nassaar, il quale propone di leggere il De Profundis alla luce dei principi del demoniaco, incarnato da Bosie, e del cristologico. Una delle massime prove di Wilde, secondo lo studioso, fu quella di liberarsi di qualsiasi influsso di Douglas su di lui, estirpando da sé il suo demone. Così infatti Nassaar: «This, then, is going to be the test of Wilde’s success or failure in his attempt to rise from depths. If he cannot destroy the bitterness and hatred within himself, he will remain in hell long after the prison gates have opened and he has emerged into the fresh air and sunshine», in Id., Into the Demon Universe. A Literary Exploration of Oscar Wilde, New Haven and London, Yale University Press, 1974, p. 155.

[8] DP, p. 54. «È chiaro che avrei dovuto liberarmi di te. Avrei dovuto scrollarti dalla mia vita come si scrolla di dosso qualcosa che ci ha punto», trad. p. 11.

[9] Per riflettere in modo filosofico sulla questione del dolore per l’elaborazione di questo testo ho tenuto presenti i seguenti volumi, ai quali rimando: S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Milano, Feltrinelli, 2002; E. Mounier, Lettere sul dolore. Uno sguardo sul mistero della sofferenza, a cura di D. Rondoni, Milano, Rizzoli, 2020; P. Teilhard de Chardin, Sulla Sofferenza, a cura di D.M. Turoldo, Brescia, Queriniana, 2012; B.-C. Han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite (Palliativgesellschaft Schmerz heute, 2020), trad. di S. Aglan-Buttazzi, Torino, Einaudi, 2021.

[10] DP, p. 61. «La sofferenza, per strano che questo possa sembrarti, è il mezzo per cui esistiamo, perché è l’unico mezzo per cui diventiamo coscienti di esistere; e il ricordo delle sofferenze del passato ci è necessario come garanzia e testimonianza della nostra identità ininterrotta», trad. pp. 18-19.

[11] Con grande chiarezza, l’identità irriducibile tra dolore ed esistenza è affermata da R. Shewan in questo modo, benché naturalmente non ne condivida la premessa irrazionalistica: «The message of De Profundis is wholly anti-rational: not cogito ergo sum, but doleo ergo sum», in Id., Oscar Wilde. Art & Egotism, London, The Macmillan Press LTD, 1977, p. 197.

[12] W. Benjamin, Destino e carattere, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 2014, p. 35.

[13] A. Gide, ad esempio, in un breve scritto sul De Profundis, commentando un’affermazione di Wilde il quale parlava di se stesso in terza persona in quanto artista del piacere divenuto artista del dolore, coglie in pieno il senso della trasformazione wildiana: «Hélas! hélas! pauvre Wilde, ce n’était pas cela que disait votre conte; l’artiste dont vous parlez, tout au contraire, brisait la statue de la Douleur pour en faire celle de la Joie; et votre volontaire erreur reste plus éloquente qu’un aveu», in Id., In Memoriam (souvenirs). Le «De Profundis» d’Oscar Wilde, Paris, Mercure de France, 1947, p. 66.

[14] DP, pp. 77-78. «Vedi dunque che io devo scriverti la tua vita, e tu devi cercare di comprenderla. Ci conosciamo ormai da più di quattro anni. Metà di questo tempo siamo stati insieme, laltra metà ho dovuto trascorrerla in prigione, in conseguenza della nostra amicizia», trad. p. 37.

[15] M. Proust, Le Temps retrouvé, cit., p. 2287. «Ogni persona che ci fa soffrire può essere da noi collegata a una divinità di cui non è che un riflesso frammentario e l’ultimo stadio, divinità (Idea) la cui contemplazione ci suscita subito gioia in luogo della tristezza che sentivamo. Tutta l’arte di vivere consiste nel servirci delle persone che ci fanno soffrire solo come un gradino che ci permetta di accedere alla loro forma divina, e popolare in tal modo gioiosamente la nostra vita di divinità», trad. p. 284.

[16] DP, p. 78. «Il vizio supremo è la superficialità», trad. pp. 37-38.

[17] Ibidem. «Tutto ciò che è compreso fino in fondo, è giusto», trad. p. 38.

[18] DP, p. 82. «Ti avevo dato la mia vita, e tu per soddisfare la più bassa e spregevole di tutte le passioni umane, Odio e Vanità e Cupidigia, lavevi gettata via. In meno di tre anni mi avevi completamente rovinato sotto ogni punto di vista. Per il mio bene proprio non potevo far altro che amarti», trad. p. 42.

[19] Ibidem. «Dopo la mia terribile condanna, quando ebbi indossato la divisa da carcerato e le mura della prigione mi si chiusero intorno, rimasi affranto tra le rovine della mia vita miserabile, schiacciato dallangoscia, confuso di terrore, stordito di dolore. Ma non volli odiarti. Ogni giorno mi dicevo: Bisogna che oggi l’Amore rimanga nel mio cuore; come farò altrimenti a vivere fino a stasera?”», trad. ibidem.

[20] DP, pp. 88-89. «La sofferenza è un solo lunghissimo momento. Non possiamo dividerlo secondo le stagioni; possiamo soltanto registrarne i mutamenti e segnare volta a volta il loro ripetersi. Per noi, il tempo non progredisce. Esso ruota su se stesso; sembra girare su un perno di dolore. L’immobilità paralizzante di una vita di cui ogni particolare è regolato da un piano immutabile, così che mangiamo e beviamo e ci corichiamo e preghiamo, o almeno ci inginocchiamo nell’atto di pregare, secondo le leggi inflessibili di una regola di ferro, questo carattere di immobilità che fa ogni singola orrenda giornata identica alla precedente fin nei minimi dettagli, sembra comunicarsi a quelle forze esterne la cui essenza stessa è invece un continuo mutamento», trad. pp. 49-50.

[21] DP, p. 91. «Dov’è il Dolore, là il suolo è sacro», trad. p. 52.

[22] W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Angelus Novus, cit., p. 68.

[23] DP, p. 99. «E la conclusione di tutto ciò è che sono costretto a perdonarti. Devo perdonarti. Non scrivo questa lettera per far nascere l’amarezza nel tuo cuore, ma per eliminarla dal mio. Per il mio proprio bene devo perdonarti», trad. p. 61.

[24] Cfr. E. Colombetti, Etica del perdono, Milano, Vita e Pensiero, 2019, pp. 13-49.

[25] DP, p. 99. «Soltanto chi vive una vita senza macchia può perdonare i peccati. Ma ora che giaccio nell’umiliazione e nella vergogna, la cosa è diversa. Ora il mio perdono dovrebbe significare molto per te: un giorno te ne renderai conto», trad. p. 61.

[26] Riporto la bella espressione di M. Stella a proposito di Sybil Vane, personaggio del Picture e promessa sposa di Dorian, «la talentuosa attrice shakespeariana profeticamente suicida nel momento in cui scopre la siderante illusione dell’amore», in Id., A labbra aperte: l’Immagine-Ferita di Dorian Gray. A Portrait… a Picture… a Thing?, «Engramma», dicembre 2021, 187.

[27] DP, p. 99. «Nessuno, grande o piccolo, può rovinarsi eccetto che di propria mano», trad. p. 61.

[28] DP, p. 101. «C’è una sola risorsa per me adesso, l’umiltà assoluta: così come c’è una sola risorsa per te, di nuovo l’assoluta umiltà. Faresti bene ad abbassarti nella polvere e impararla con me», trad. p. 63.

[29] Ibidem. «Ma mentre vi sono state ore in cui mi sono rallegrato allidea che le mie sofferenze dovessero essere infinite, non avrei potuto sopportare che esse fossero prive di significato. Ora trovo nascosto in fondo alla mia natura qualche cosa che mi dice che nel mondo intero niente è privo di significato, e tanto meno la sofferenza. Quel qualche cosa nascosto in fondo alla mia natura, come un tesoro in un campo, è lumiltà. // È lultima cosa che mi sia rimasta, e la migliore di tutte; la scoperta finale a cui sono giunto; il punto di partenza per una evoluzione nuova», trad. ibidem.

[30] DP, p. 104. «Debbo far sì che tutto ciò che mi è accaduto sia un bene per me», trad. p. 66.

[31] DP, ibidem. «Non vi è una sola degradazione del corpo di cui io non debba tentare di fare una spiritualizzazione dellanima», trad. ibidem.

[32] DP, p. 105. «Respingere le nostre esperienze è arrestare il nostro sviluppo. Rinnegare le nostre esperienze è costringere la nostra vita alla menzogna. È niente di meno che rinnegare l’Anima», trad. p. 67.

[33] Cfr. L. Luzzi, La polvere che danza in un raggio di luce. Una suggestiva interpretazione del De Profundis di Oscar Wilde, Roma, Armando Editore, 2019, pp. 122-123.

[34] DP, p. 109. «I predicatori, e le persone che son solite ripetere sentenze a orecchio, parlano talvolta della sofferenza come di un mistero. In realtà essa è una rivelazione», trad. p. 72. Per la verità anche Wilde aveva parlato della sofferenza come di un mistero: «Cara piccola Rondine disse il Principe, tu mi racconti cose meravigliose, ma più meravigliosa di tutto è la sofferenza di uomini e donne. Non cè Mistero più grande della Sofferenza”», in O. Wilde., Il Principe Felice e altre storie (The Happy Prince, 1888), trad. e introd. di M. d’Amico, Milano, Mondadori, 2010, p. 11 (il corsivo è mio).

[35] DP, p. 161. «Ciò che ho davanti a me adesso, è il mio passato. Devo indurmi a guardarlo con altri occhi. E questo, non posso fare ignorandolo, o designandolo, o lodandolo, o rinnegandolo: posso farlo solo accettandolo, come una parte inevitabile dell’evoluzione della mia vita e del mio carattere: chinando il capo di fronte a tutto ciò che ho sofferto», trad. p. 130.

[36] F. Nietzsche, Frammenti postumi 1882-1884, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1982, p. 195.

[37] S. Sontag, The artist as exemplary sufferer (1962), in Against Interpretation and Other Essays, London, Penguin, 2009, p. 42. »Lo scrittore è lartista esemplare perché ha trovato sia il più profondo livello della sofferenza sia il mezzo di sublimare (nel senso letterale e non in quello freudiano) la sua sofferenza. Come uomo, soffre; come artista, trasforma la sua sofferenza in arte. Lartista è luomo che scopre luso della sofferenza nelleconomia dellartecome i santi scoprirono lutilità e la necessità della sofferenza nelleconomia della salvezza « (la traduzione è miaM .i sembra importante aggiungere che non ho mai trovato espresso con così tanta chiarezza, forza ed esattezza tale concetto.

 

 


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WILDE , letteratura , FILOSOFIA , RESILIENZA


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Filosofia

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