DArzo interprete del suo tempo

di Giulia Cacciatore

 

 

Il contributo vuole analizzare le diverse accezioni che il concetto di resilienza assume allinterno dellʼopera di Silvio DArzo (1920-1952). Particolare riferimento verrà fatto a un abbozzo di romanzo rimasto incompiuto intitolato Adamo Kerps, nel quale DArzo racconta loccupazione del villaggio immaginario di Pictaun da parte di un dittatore, chiamato Dio Kronos, e della resistenza organizzata dal protagonista per porre fine al suo dominio. Questo abbozzo inedito, emerso solo di recente dagli archivi darziani conservati alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, consente di rileggere attraverso una nuova specola le altre opere del giovane scrittore, in particolare il suo capolavoro, pubblicato anchesso postumo, Casa dʼaltri. Da sempre considerato un intellettuale daltri tempi”, avulso dalle problematiche del suo oggi, DArzo con la sua opera, invece, sembra affrontare in maniera pervasiva il trauma della guerra e la conseguente crisi identitaria causata dalla difficoltà di reinserimento nella società civile del dopoguerra. Tema, questo, non a caso posto al centro dellultimo romanzo cui lo scrittore stava lavorando prima della morte prematura, da lui definito «romanzo Eneide» perché rappresentativo della sua generazione, Nostro lunedì di Ignoto del XX secolo.
 

La breve ma prolifica attività letteraria di Silvio D’Arzo, pseudonimo di Ezio Comparoni, ha radici lontane, risale alla prima giovinezza quando pubblica il racconto La valanga nell’Antologia dei giovani scrittori e poeti italiani (1934) seguito, a soli quindici anni, dalla sua prima e unica silloge, Luci e penombre (1935), e dalla raccolta Maschere. Racconti di paese e di città, data alle stampe con la prestigiosa casa editrice Carabba di Lanciano, la stessa che annoverava nel suo catalogo testi di D’Annunzio, Serao, Pirandello, di cui pubblica la prima edizione dellUmorismo (1908), gli Ossi di seppia di Montale nelledizione definitiva del 1931 e, soprattutto, nello stesso anno in cui escono i due testi darziani, Scrittori inglesi e americani di Emilio Cecchi, che sarà uno degli interlocutori privilegiati e tra i primi estimatori del giovane scrittore. In quel breve torno d’anni D’Arzo firma, sotto le mentite spoglie di una lunga e fantasiosa serie pseudonimica, altri racconti come I morti nelle povere case, Una storia così, Sera sul fiume (1940), Peccato originale, Fine di Mirco (1941). Nei primi mesi del 1943 esce per i tipi di Vallecchi il romanzo All’insegna del Buon Corsiero, la cui trama si svolge nei confini ristretti di una settecentesca locanda, e si sviluppa intorno alle figure del poeta Androgeo, alter ego dell’autore, del Funambolo, sorta di entità angelica e luciferina al contempo, descritto non «come un uomo, ma come un lontano ricordo d’uomo […] nel tagliare il filo sul quale quello attraversava il vuoto, non gli sarebbe parso di far precipitare e morire un uomo sulle pietre, ma di spegnere in mezzo all’aria qualcosa come un ricordo un poco strano»,[1] e della Marchesa, sedotta dal fascino soprannaturale dell’equilibrista.

La produzione darziana si arricchisce in breve tempo, grazie anche alle esortazioni di Enrico Vallecchi, di altri racconti – Due vecchi e Elegia della signora Nodier (1947), Io prete e la vecchia Zelinda (1948) e Una fasciatura ben fatta (1950) – e di numerosi saggi dedicati alla letteratura inglese e americana[2]Inchiesta sulla narrativa (1944), Invito a Conrad (1945), Polonio o il sentimento serio della vita, Io, Robinson Crusoe (1946), solo per citarne alcuni, — pubblicati sulle prestigiose riviste «Paragone» su invito di Attilio Bertolucci, «Il Ponte», «La Fiera Letteraria» nei quali, in filigrana, traccia non solo un bilancio dei cambiamenti in atto nella letteratura del dopoguerra, ma mette per iscritto anche la sua programmatica dichiarazione di poetica.

Dopo la morte prematura per una leucemia nel 1952, a soli trentadue anni, uscirà il suo capolavoro, Casa d’altri, apparso dapprima sulla rivista «Botteghe oscure» di Giorgio Bassani,[3] dopo aver ricevuto il rifiuto di Pavese per Einaudi, di Garzanti e dello stesso Vallecchi, poi pubblicato in volume lanno successivo, nel 1953, da Sansoni. Il romanzo postumo attirò sin da subito lattenzione di illustri scrittori come Montale, che recensendolo sul «Corriere della Sera» nel 1954 lo definì il «racconto perfetto» riferendosi, in particolare, allo stile, costruito sulla partitura di decasillabi ed endecasillabi, l’esile quanto compiuta trama, la caratterizzazione forte ma con brevi e rapidi tratti dei personaggi, in particolare del prete. Come nel Corsiero, lo spazio è quello chiuso di un piccolo e isolato villaggio immaginario, Montelice, alle pendici dellAppennino emiliano, nel quale vivono solo vecchi e capre, un villaggio di «Sette case. Sette case addossate e nientaltro: più due strade di sassi, un cortile che chiamano piazza, e uno stagno e un canale, e montagne fin quanto ne vuoi».[4] I personaggi principali sono due, un vecchio «prete da sagre»,[5] un Falstaff, e l’anziana Zelinda, tormentata da un dubbio teologico. Inizialmente Zelinda affida il suo interrogativo per il parroco a una lettera che tuttavia, per timidezza, riprenderà con sé. Alla fine del racconto e dopo tante esitazioni, la donna riuscirà a formulare la sua domanda chiedendo al prete «se in qualche caso speciale, tutto diverso dagli altri, senza fare dispetto a nessuno, qualcuno potesse avere il permesso di finire un po’ prima […] anche uccidersi».[6]

Il romanzo breve, lontano dagli stilemi della narrativa del tempo, dalle testimonianze della guerra, della Resistenza, della deportazione, racconta, attraverso figure volutamente sbiadite, le atmosfere rarefatte permeate da sfumature crepuscolari su cui prevalgono i colori prediletti dallo scrittore, il blu e il viola, langosciata rassegnazione degli umili, degli ultimi, di coloro che si sentono sulla terra in casa daltri («Il mondo non è casa tua, e a te sembra di starci a dozzina», scrive DArzo),[7] e cercano stancamente il conforto nella religione. Si tratta quindi di un dramma quotidiano e universale al contempo, esistenziale e teologico, espresso tramite il correlativo oggettivo di un paesaggio desolato e di un tempo sospeso, come si legge nella chiusa:

 

C’è quassù una certora. I calanchi ed i boschi e i sentieri ed i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia, e poi viola, e poi blu: nel primo buio le donne se ne stanno a soffiar sui fornelli chine sopra il gradino di casa, e i campanacci di bronzo arrivan chiari lì giù fino a borgo. Le capre saffacciano agli usci con degli occhi che sembrano i nostri.[8]

 

Dopo Casa d’altri, e grazie all’attenzione che il libro suscitò in scrittori e critici tra cui Pier Paolo Pasolini, il già menzionato Bertolucci, Giorgio Bassani, Pier Vincenzo Tondelli, Giovanni Raboni, Pietro Citati, altre opere rimaste sconosciute mentre il giovane era in vita vedranno la stampa nel volume Losteria, Prefazione a «Nostro lunedì», unitamente ad altri racconti, alcuni saggi e poesie sparse (Vallecchi, 1960).[9] A questi si aggiungeranno Essi pensano ad altro (1976), Luomo che camminava per le strade (1981), Un ragazzo daltri tempi (1983) e, soprattutto, la produzione per ragazzi, cui diede il primo impulso proprio Enrico Vallecchi esortando lo scrittore a dedicarsi al genere, Penny Wirton e sua madre (1978), Il pinguino senza frac (1978), Tobby in prigione (1983), Una storia così (1990).

La recente donazione alla Biblioteca «Panizzi» di Reggio Emilia, nell’aprile del 2016, del materiale posseduto da Macchioni Jodi ha dato un nuovo impulso agli studi darziani. Il fondo conserva sia le stesure delle opere maggiori come il Buon corsiero e Casa daltri, sia le carte relative alle opere avviate e poi abbandonate in corso di progettazione o di elaborazione.[10] È il caso di un progetto di romanzo intitolato Adamo Kerps[11] incominciato verosimilmente intorno al 1943, unitamente a un altro testo, anch’esso abbozzato e mai sviluppato, Androgeo Zurbaran, seguito ideale del Buon Corsiero e, infine, del libro per ragazzi Gec dell’avventura. Tutte e tre queste opere sembrano, nel loro insieme, costituire un punto di svolta nella maturazione letteraria dello scrittore, si configurano come cantieri nei quali D’Arzo si misura con un nuovo sentire letterario e creativo anche perché investito in prima persona dai fatti relativi alla guerra e all’immediato dopoguerra che, verosimilmente, influenzarono questo cambiamento anticipando, per alcuni temi e topoi narrativi, quello che sarà il successivo sviluppo della sua opera, ovvero il capolavoro Casa d’altri e Nostro lunedì. È il contatto con la Storia, probabilmente, a dare un corso nuovo alla via precedentemente tracciata, ad aprire una riflessione sulla società, in particolare sulla sua generazione, e sulle prospettive nuove e incerte che si prefiguravano nell’imminente futuro.

Questi progetti riemersi, pertanto, anche se rimasti allo stadio di abbozzo, a eccezione di Gec dell’avventura cui manca solo il finale, consentono di rileggere l’opera darziana sotto una lente diversa, quella dell’impegno civile, di una riflessione profonda sui modi di fare letteratura a partire da una nuova e disincantata consapevolezza del suo tempo. È a partire da questo cambiamento che il concetto di resilienza sembra emergere in filigrana nelle sue pagine, laddove D’Arzo tenta di individuare una strada di rinnovamento a partire dalle macerie personali, individuali, e collettive della guerra. Il contraltare critico, quasi con valore di autoesegesi, di questa svolta letteraria sembra emergere nei saggi di Contea inglese, nelle riletture e interpretazioni darziane degli scrittori prediletti, Stevenson, Conrad, Kipling, nel nuovo contesto storico ed esistenziale, biografico, del dopoguerra.

La prima ideazione di Adamo Kerps si attesta al 1943, quando cioè lo scrittore è ad Avellino, e precisamente alla Scuola Allievi Ufficiali,[12] e prosegue anche nel periodo successivo allarmistizio dell8 settembre, quando egli, dopo essere sfuggito alla deportazione in Germania, rientra a Reggio Emilia e dà annuncio a Vallecchi, con una lettera del 17 novembre 1943, di aver da tempo avviato un nuovo romanzo:[13]

 

sto lavorando ad un libro di intenti […] vastissimi: il titolo è soltanto «Adamo Kerps» e rappresenta lUomo, lUmanità: e poi cè il Diavolo Mugnaio, Dio Kronos, i Soldati, tutto un mondo. Vi dico, caro Vallecchi, che il libro potrà riuscire anche malissimo: può darsi che sia penoso addirittura: ma qualche cosa dentro ci sarà: non vivo che per questo, in questi giorni.[14]   

 

Il romanzo si svolge a Pictaun, un villaggio immaginario, dal nome anglosassone che riecheggia quelli dei libri di avventure cari allo scrittore, descritto attraverso i paesaggi tipici della provincia reggiana, le strade montane, la torre dell’orologio, i portici, popolato da «Uomini, dai mestieri umili ed umilissimi: fabbri, postini, ferrai, stallieri, garzoni, calzolai».[15] L’“intelaiatura”, come D’Arzo definisce la trama, è costruita intorno ai due temi dell’equivoco e della sopraffazione:

il reverendo Streik, per un equivoco quasi inesplicabile (lui non può giustificarsi in nessuna maniera) viene condannato (dietro istigazione e volontà del mugnaio Kronos; dal giudice Pask), ad abbandonare la vecchia abbazia e parrocchia ed andarsene.

Più che questo grande dolore, lo sorprende la novità e il sospetto che tutti, tutti i parrocchiani, e tutti gli uomini vivano in un equivoco: tutti hanno un equivoco.

Allora, prima di andarsene, dal pulpito […] prega tutti di confessarsi, di confessarsi essenzialmente, di essere se stessi: cinque o sei o sette rispondono, e in tutti c’è il terribile, doloroso equivoco.[16]

La trama doveva essere costruita anche da sette racconti, corrispondenti alle lettere-confessione scritte dai parrocchiani al reverendo, verosimilmente inseriti in una sezione intitolata Dio Kronos e le sette verità. Tutte le confessioni si intrecciavano, per una serie di vicende, al personaggio del mugnaio, chiamato Dio Kronos, un ricco possidente che arriva a Pictaun per comprare i tre mulini presso cui lavora la piccola comunità, e che ne costituiscono l’unica fonte di ricchezza. Alle ambizioni del Dio Kronos si oppone il protagonista, un calzolaio, l’«ingenuo rivoluzionario» Adamo Kerps, che tenta di dissuaderlo dapprima attraverso il dialogo, poi uccidendo un generale, personaggio succube e corrotto dal Dio Kronos.

Kronos requisisce i mulini obbligando la popolazione a lavorarvi sotto il controllo dei doganieri, devia il corso del fiume per costruirne altri.[17] Kerps confessa nella lettera al reverendo l’uccisione del generale, raccontando che tra i suoi compagni se ne parlava come della soppressione di una causa, eseguita da Adamo «con una facilità senza nulla d’eroico o di dubbioso, gli porta via un paio di scarpe, solo per diminuire la portata eroica del suo delitto».[18] Il finale del romanzo è prefigurato dalla presenza di alcune carte contenenti «i verbali della giunta» nei quali viene decretata la demolizione del monumento eretto tempo addietro in onore di Adamo Kerps nella piazza principale di Pictaun, decisione infine revocata. Da questa prima ricostruzione del progetto di romanzo emergono due aspetti principali: il primo riguarda la trasposizione in chiave fortemente allegorica del dato storico; il secondo l’emergere, nell’immaginario letterario dello scrittore, di quegli elementi narrativi che saranno alla base del capolavoro Casa d’altri e dell’ultimo romanzo Nostro lunedì di Ignoto del XX secolo,[19] l’“opera-mondo” cui egli stava lavorando poco prima della morte.

Con Adamo Kerps D’Arzo dà vita a una storia di sopraffazione che investe non soltanto il potere spirituale, rappresentando il reverendo come vittima di un equivoco, ma anche quello politico, infrangendo i sogni ingenuamente rivoluzionari di Adamo e della comunità. Il nome del protagonista, peraltro, è fortemente allusivo, poiché richiama biblicamente il primo uomo, l’Umanità, in aperta contrapposizione a quello del Dio Kronos, Dio del Tempo, esplicito riferimento alla figura mitologica di Saturno, che uccide i figli per preservare il suo potere.    

Le vessazioni di Kronos nei confronti della piccola comunità di Pictaun, che si concretizzano nell’espropriazione dei mulini, sembrano riferirsi alla progressiva liquidazione delle cooperative in Italia e nel territorio di Reggio Emilia operata dal fascismo sin dalla sua ascesa al potere, al fine di controllare quegli enti storicamente legati al socialismo. Si trattava di una battaglia politica contro quello che veniva definito dalla propaganda il «paradiso terrestre creato dal cooperativismo rosso».[20] D’Arzo, pertanto, sembra guardare alle ricadute sociali e politiche conseguenti alla frattura che dal socialismo aveva portato al fascismo, quindi al crollo degli ideali della piccola comunità, che neanche l’uccisione simbolica del potere militare, rappresentata dal generale a cui Adamo ruba le scarpe come se si trattasse di un soldato semplice, riesce a risanare.

Un aspetto invece legato alla brutalità della guerra è lo stupro che le donne subiscono dal Dio Kronos. Il corpo violato della donna, di Eva, assurge a simbolo della disperazione dell’umanità, porta i segni della ferocia di quegli anni: «l’ira e l’offesa della donna si diluisce alla fine in una universale, cameratesca commozione – deve riuscire corale, di una umiltà disperata».[21] A tenere insieme le vicende, infine, ci sono le lettere-confessioni scritte dai personaggi di notte: un aspetto che richiama da un lato l’oscurità della censura, dall’altro evoca il raccoglimento spirituale, la preghiera, e scandisce un tempo biblico, quello dei sette giorni della Creazione.

Se l’ideazione e il primo abbozzo del romanzo si attestano al biennio ’43-’44, la fase successiva, quella dal dopoguerra alla morte dello scrittore, sembra rappresentare lo sviluppo di questa fase intermedia, meditativa, di approssimazione a quella più matura del capolavoro Casa d’altri. È dello stesso parere Alberto Sebastiani, che ha ricostruito filologicamente il testo di Gec dell’avventura ravvisando in quel progetto rimasto poi incompiuto, ma embrione di Penny Wirton e sua madre, una preparazione o prima apertura alla maturità letteraria di D’Arzo. Un testo, quello di Gec, legato a doppio nodo con Adamo Kerps, sia perché seguirebbe cronologicamente (biennio ’44-’45) l’ideazione del romanzo, verosimilmente abbandonato proprio per dare corso alla stesura di Gec, sia per la medesima ambientazione nella cittadina di Pictaun descritta, nella sua topografia e nelle architetture, in maniera analoga allo sfondo immaginifico nel quale si sviluppa l’abbozzo di Adamo Kerps.[22] Gec è un romanzo di formazione e narra la storia del ragazzino orfano che, attraverso un’avventurosa esperienza a bordo di una nave di pirati, passerà la “linea d’ombra” dall’infanzia alla giovinezza.

Se Casa d’altri  è stato spesso interpretato come il libro del dubbio teologico ed esistenziale, quindi di una storia universale, quasi senza tempo, o quantomeno avulsa dalla sua contemporaneità, un brano sembra suggerire una chiave di lettura ulteriore, legata ai fatti successi in quegli anni in Emilia. Nel paese desolato in cui è ambientato il libro, dove vivono solo gli anziani e le capre, la vecchia Zelinda «cera venuta a stare da poco, e senza dire niente a nessuno, venendo su dalle parti di Bobbio dove quattro anni prima i tedeschi avevano bruciato anche i sassi […] e adesso lavava stracci e budella dalla mattina alla sera».[23] La scelta del luogo e il riferimento all’incendio sembrano tutt’altro che casuali.[24] Come hanno dimostrato alcune ricerche recenti,[25] durante la guerra il piccolo paese di Bobbio era considerato un luogo strategico perché crocevia tra Emilia-Romagna, Piemonte, Liguria e Lombardia, e per questo fu un territorio a lungo conteso tra formazioni partigiane e nazifascisti. Dichiarata Repubblica già nel luglio del ’44, la città e la Val Trebbia furono teatro di scontri, incendi e rastrellamenti che costarono la vita non solo ai Resistenti, ma anche al parroco di San Pietro Casasco, don Paolo Ghigini, fino alla definitiva liberazione (la terza) avvenuta nel marzo del ’45. Il passo contenuto nel romanzo potrebbe fare riferimento a questi fatti e, anzi, essi potrebbero costituire il presupposto dal quale la narrazione prende forma: la crisi spirituale ed esistenziale di Zelinda, la sfiducia nella vita e nella fede, potrebbe essere letta come la conseguenza di quei traumi, come la fine di ogni speranza davanti alla brutalità della guerra. Casa d’altri, inoltre, eredita da Adamo Kerps il tema dell’equivoco – stavolta tra il prete e la vecchia Zelinda, declinato anche nei termini dell’incomunicabilità tra il mondo reale e quello spirituale – realizzato attraverso l’espediente della lettera-confessione, nucleo di entrambi i romanzi, ma anche quello della sopraffazione nelle sue conseguenze più estreme, e di cui D’Arzo pare mostrarci gli esiti con il breve riferimento al passato di Zelinda.

Nostro lunedì trae da Adamo Kerps la struttura a episodi, la molteplicità dei punti di vista dei personaggi, la coralità, anticipando di qualche anno quella che si riteneva come una svolta nella costruzione romanzesca darziana.[26] Nostro lunedì è un «romanzo Eneide», pensato dallo scrittore come il racconto della sua generazione prima, durante, e dopo la guerra, e già dall’incipit si è immersi nella Storia: «Come tutte le cose al mondo, anche questo libro ha una specie di storia. Forse la prima ragione per cui ogni cosa ha diritto sempre ad un po’ di rispetto è proprio quella di avere una storia».[27] Si tratta di un passaggio sostanziale per il superamento della poetica “arcadica” della prima produzione, quella in cui le figure funamboliche nel lontano Settecento popolavano le locande e le piazze, al fine di immergere la narrazione nel suo tempo, pur senza rinunciare alla parte più immaginifica della prima fase creativa. Lo scrittore adesso si cala nel suo quotidiano e tenta di rileggerlo anche attraverso la lente degli autori prediletti.

Riconsiderare l’opera narrativa del Silvio D’Arzo più maturo alla luce dei fatti storici in cui essa fu meditata ed elaborata consente di reinterpretare anche la produzione saggistica di Contea inglese, nella quale proprio il concetto di resilienza, di trasformazione dopo la Seconda Guerra Mondiale, sembra offrirci un’efficace chiave interpretativa. Un tale atteggiamento critico di resistenza alle oltranze della storia («Niente è meno cavalleresco della storia» scrive D’Arzo nel saggio su Henry James) si nota già nei primi saggi del ’46 come Polonio o il sentimento serio della vita in cui lo scrittore prende a modello i personaggi shakespeariani per parlare del «dono morale della morte […] restitutrice di dignità umana»[28] anche per coloro che hanno commesso atti esecrabili, o Robinson ’48, nel quale analizza proprio il concetto di un’umanità che, «nelle attuali assurdità e ambiguità del dopoguerra», vorrebbe vivere come Robinson, isola dentro l’isola. Lo scrittore oppone alla solitudine la ricerca dell’altro, la prossimità tra gli individui, perché solo attraverso lo scambio con gli altri è possibile trasformare l’inferno in un paradiso:

[…] l’unica maniera, comunque, per fare con certa dignità il Robinson 1948 sia proprio quella di restarsene in mezzo agli altri, uscio contro uscio, cercando semmai di fare il paradiso di un inferno, come Robinson fece ai suoi tempi col suo. E se si riuscirà solo a un purgatorio, meglio ancora. Perché sarà con più onore per gli uomini.[29]

La via per ricostruire la società dopo i drammi della guerra è quella di uscire dal proprio individualismo, cercare con dignità di riparare, «trasformare» appunto, le macerie in qualcosa di nuovo. Una rinascita, dunque, è per D’Arzo possibile guardando alla storia di una generazione come all’intersecarsi di una serie di storie minori e individuali; è lo sguardo e il confronto con l’altro che conferisce un significato all’uomo. Se si pensa a Casa d’altri, infatti, dopo il dialogo tra il prete e Zelinda sul suicidio, il loro rapporto si interrompe. Eppure il prete continua a vigilare sulla sua esistenza, si reca ogni sera presso la casa isolata dell’anziana:

 

Per tre mesi ero andato ogni sera al canale, e ogni sera l’avevo trovata laggiù coi suoi stracci. La sua capra frugava qua e là. Mi fermavo lì, sopra l’argine sempre come per caso e mai più d’un minuto, appena il tempo che lei s’accorgesse o mostrasse d’accorgersi. E poi indietro ancora, in parrocchia. Mai una volta in tre mesi che m’abbia fatto il più piccolo segno o abbia alzato anche solo la testa. Lei c’era ancora: ecco tutto; e io dall’argine vedevo che c’era, ed il resto non voleva dir niente. E tutti e due sapevamo benissimo che non ci saremmo parlati mai più, neanche più salutati incontrandoci, ma anche questo era meno di niente.

E adesso era finita. Qualcosa era successo, una volta, e adesso era tutto finito.[30]

 

La mancanza di dialogo, di scambio, tra i due protagonisti, determina la morte di Zelinda, la sua resa. L’estraneità al mondo, l’isolamento, la mancanza di un senso di appartenenza alla società rendono impossibile la vita a Zelinda. Tale pensiero è ripreso ed esplicitato con maggior forza in Henry James (di società, di uomini e fantasmi). D’Arzo parla dei fantasmi, ovvero dei personaggi senza storia né origini, opponendoli agli uomini, ovvero non ai personaggi che sembrano fatti di carne e ossa, ma a quelli che parlano dell’esistenza, non dei fatti. L’esistenza non comincia nel giorno della nascita, trova la sua origine nelle generazioni che hanno preceduto quella nascita. Il compito della letteratura del dopoguerra, dice D’Arzo, è quello di rileggere l’oggi con gli occhi rivolti anche al passato, e fare di quel passato la lente attraverso la quale ricostruire il futuro, senza tralasciare neanche i giorni vuoti, la monotonia del quotidiano:

che uno sciopero, per quanto esteso sia, letterariamente parlando, non sono che dei fatti, falsi e gratuiti come tutti i fatti se, in quella puntualità, se in quello sciopero non si farà apparir riflessa una lunga serie di giorni senza nome. Anno per anno, tutta quanta una miseria quotidiana. Perché niente che non abbia una storia può essere vero. Solo i fantasmi non hanno storia. E sono fantasmi.[31]

La resilienza per D’Arzo potrebbe inverarsi proprio in questo, nell’accettazione dei giorni monotoni, nella pazienza dei periodi di bonaccia, quando il vento non sospinge verso una direzione chiara, nel saper vivere la «moltitudine dei giorni feriali» come i personaggi conradiani che sanno attraversare con sofferenza, ma senza rinunciare alla loro «esemplare dignità»,[32] la “linea d’ombra” della Storia.

 

 


[1] S. DArzo, All’insegna del Buon Corsiero, in Id., Opere, a cura di S. Costanzi, E. Orlandini, A. Sebastiani, introd. di A. Bertoni, F. Frasnedi, Parma, Monte Università Parma, 2003, pp. 216-217.

[2] Poi raccolti in volume per la prima volta nel 1987 con il titolo, ricavabile dal carteggio intrattenuto dallo scrittore con Enrico Vallecchi, Contea inglese, a cura di Eraldo Affinati per i tipi di Sellerio.

[3] A Bassani si deve anche la sceneggiatura cinematografica di Casa daltri (secondo episodio del film Tempi nostri) scritta insieme al regista Alessandro Blasetti nel 1956.

[4] S. DArzo, Casa daltri, in Id., Opere, cit., p. 378.

[5] Ivi, p. 383.

[6] Ivi, p. 420.

[7] La frase si legge manoscritta sulla copertina del dattiloscritto di Casa daltri e poi è confluita in Nostro lunedì (Opere, cit., p. 502).

[8] Ivi, p.425.

[9] S. D’Arzo, Nostro Lunedì. Racconti, poesie, saggi, a cura di Rodolfo Macchioni Jodi, Firenze, Vallecchi, 1960.

[10] Per una dettagliata descrizione del fondo si veda il catalogo della mostra allestita alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia dal 27 gennaio all8 aprile 2018, pubblicato a cura di A. Ferraboschi e con un saggio introduttivo di S. Costanzi, Silvio DArzo ritrovato. Il Fondo DArzo-Macchioni Jodi, Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi Editore, 2018.

[11] I primi risultati relativi allo studio dei materiali autografi di Adamo Kerps sono stati pubblicati di recente in un mio contributo, cui mi permetto di rimandare, intitolato «Solo i fantasmi non hanno storia». Limpegno civile nellopera di Silvio DArzo (in F. Rappazzo, G. Traina [a cura di], I linguaggi del potere, Sesto San Giovanni, Mimesis, pp. 47-57). Esprimo la mia gratitudine ad Alberto Ferraboschi e al personale della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia per aver agevolato le mie ricerche.

[12] La permanenza ad Avellino va dal maggio al giugno 1942 e dal gennaio al 28 agosto 1943. La fondatezza del dato cronologico è data dal materiale redazionale del romanzo, originariamente conservato all’interno di una cartella recante la dicitura «Avellino-Tipografia e cartoleria Pergola».

[13] Si tratta della prima lettera in cui D’Arzo esplicita il titolo dell’opera. Tuttavia, Anna Luce Lenzi interpreta l’allusione apparentemente generica a “due nuovi lavori” contenuta nella missiva precedente, del 9 agosto 1942, come un chiaro riferimento alle opere Madre buona e Adamo Kerps. La genesi dell’opera, pertanto, potrebbe risalire all’estate del 1942.

[14] S. D’Arzo, E. Vallecchi, Carteggio 1941-1951, in A.L. Lenzi (a cura di), «Contributi», VIII, 15-16, 1984, p. 102.

[15] FDM serie VI, sottoserie VI/8, fascicolo 37, c. 2v.

[16] FDM serie VI, sottoserie VI/7, fascicolo 1, sottofascicolo 8, c. 1r/v.

[17] In alcune carte delle Serie I Sottoserie I/4 fasc. 1 (3) relative all’Osteria, e precisamente nel verso di c. 19, si legge: «Subito dopo, appena giunto Dio Kronos, avvengono in paese grandi avvenimenti: due nuovi mulini sorgono, vengono fatti venire nuovi cavalli, si fa cambiare corso al fiume; di fronte alle sue ricchezze, e a quei suoi disegni, a quella sua volontà senza entusiasmi, gli uomini del paese si sentono terribilmente avviliti, neanche uomini: buttano via le zappe, stanno interi pomeriggi in casa; scene tristi avvengono. I grandi lavori colossali, ciclopici (frasi alla Melville occorrono: acque che escono fuori, gente che viene sommersa e… facce di lune spaventate, uomini mutilati) vengono eseguiti da uomini venuti dal di fuori, dai paesi delle Alte provincie».

[18] FDM serie VI, sottoserie VI/7, fascicolo 1, sottofascicolo 8, c. 3v.

[19] La pubblicazione della prefazione al romanzo si deve a Rodolfo Macchioni Jodi (in Nostro Lunedì. Racconti, poesie, saggi, cit.), mentre la ricostruzione filologica del libro è apparsa la prima volta con il titolo Nostro lunedì di Ignoto del XX secolo, per le cure di Anna Luce Lenzi (Modena, Mucchi, 1986).

[20] M. Storchi, La cooperazione reggiana nel fascismo: strutture e gerarchie, in M. Degl’Innocenti, P. Pombeni, A. Roveri (a cura di), Il PNF in Emilia Romagna. Personale politico, quadri sindacali, cooperazione, Milano, Franco Angeli, 1988, p. 55.

[21] FDM serie VI, sottoserie VI/8, fascicolo 27, c. 3v.

[22] Il lavoro pionieristico di A. Sebastiani si legge in Il manoscritto ritrovato: «Gec dellAvventura» di Silvio DArzo. Questioni filologiche preliminari, «Studi e problemi di critica testuale», XCIX, 2, 2019, pp. 207-252. Il ritrovamento e lo studio del manoscritto ha portato alla pubblicazione del romanzo con Einaudi, di cui Sebastiani ha curato con grande perizia filologica la trascrizione del testo e ne ha ricostruito nella prefazione, intitolata non a caso Gec dell’avventura, un altro D’Arzo possibile, la vicenda elaborativa ravvisando come quella fase cronologica abbia coinciso con un cambiamento di poetica. Essendo il libro rimasto incompiuto, lo scrittore Eraldo Affinati ne ha proposto un finale possibile. Cfr. S. D’Arzo, E. Affinati, Gec dell’avventura, a cura di A. Sebastiani, Torino, Einaudi, 2020.

[23] S. D’Arzo, Casa daltri, cit., p. 386.

[24] Eppure, nel ricco saggio introduttivo alle Opere darziane, Alberto Bertoni scrive che nonostante l«esattezza e familiarità topografiche, […] i nomi di luogo sono di fantasia (né la sua Bobbio ha qualcosa a che vedere con la Bobbio piacentina)». Cfr. A. Bertoni, Verso lopera mondo: per unintroduzione a DArzo, in S. DArzo, Opere, cit., p. XIX.

[25] Mi riferisco, in particolare, allo studio approfondito di Matteo Mielati, Bobbio e la Resistenza: una storia dimenticata, Modena, Ponte Gobbo, 2014.

[26] Rispetto a quanto sostenuto sinora, ovvero che nella composizione di Nostro lunedì D’Arzo sentì la “necessità di inquadrare il proprio nuovo progetto di romanzo in una struttura altrimenti innovativa”. A. Bertoni, Verso l’opera mondo: per un’introduzione a D’Arzo, cit., p. XXIII.

[27] S. D’Arzo, Prefazione a Nostro Lunedì, in Id., Opere, cit., p. 495.

[28] S. D’Arzo, Polonio o il sentimento serio della vita, in Id., Opere, cit., p. 561.

[29] S. D’Arzo, Robinson ‘48, in Id., Opere, cit., p. 575.

[30] S. D’Arzo, Casa d’altri, cit., p. 423.

[31] S. D’Arzo, Henry James (di società, di uomini e fantasmi), in Id., Opere, cit., p. 607.

[32] S. D’Arzo, Joseph Conrad o dell’“umanità”, in Id., Opere, cit., p. 591.

 

 

 


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D'ARZO , letteratura , GUERRA , RACCONTI


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Letteratura

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Siculorum Gymnasium

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