Tornando a Pavese. Una storia di resilienza per l’anno venturo

di Liborio Barbarino

 

 

1. La terra

Qualche tempo fa, prima che il secolo scorso si facesse beffe del ‘breve’ attaccatogli sopra, che questo nobile foglio riprendesse a uscire saldando futuro e passato, la letteratura cercava di mettere a fuoco temi come l’intangibile, l’invisibile. Interrogate, per certi versi assediate dalla smaterializzazione, dalla modernità liquida, le humanae litterae si trovavano di fronte al sempre ritornante dilemma del proprium: cosa distingue il nostro sapere? «Cossí capetàva» come in quella giullarata di Fo «che uno […], tutto priso dentro l’àuri cielèsti, se levàva di quarche spanna dallu terreno e ce restéva suspéso».[1] Non mancavano tendenze di segno opposto, che riportavano al centro del dibattito l’ipermoderno: si trattava in qualche modo di una fame di realtà saziabile, o saziata, da una rappresentazione del mondo più che da una sua visione. Lo ricordava infatti un altro fortunato libro, quella Grande cecità che dura ancora, e che denunciava proprio la mancanza di immaginazione, una chiusura fantastica che non accenna a diradarsi.[2] Gli ultimi eventi ci hanno costretto nuovamente a fare i conti con i nostri corpi, i nostri corpi reclusi, malati, costretti. La pandemia ci ha ricordato che nemmeno la libertà del mondo sul pollice è poi così sconfinata e che insomma la siepe va bene ma solo a patto di poterla aggirare volendo. Poi è arrivato il 24 febbraio, una data che sembra ancora enorme, come più di un settembre trascorso. Abbiamo pensato che forse era soltanto una questione di prospettiva – spaziale quindi eurocentrica, o temporale – a mostrarla così. Oggi siamo, è vero, molto vicini ma quel giorno sta lì, grande e spaventoso, a ricordarci che le guerre si combattono ancora, che sono solide, boots on the ground. Avevamo immaginato, con la scarsa fantasia di cui prima si diceva, che non ci riguardassero più. Come non ci riguardano i numerosi conflitti sparsi in giro per il mondo, in Africa, in Asia, vittime e profughi, volti riversi nella sabbia e piedi intirizziti dal gelo.[3] Sbagliavamo. Adesso che bussano alla porta di casa cerchiamo appigli nella memoria, nei riferimenti culturali, il simile dalle mutate forme, prima e seconda guerra mondiale. Si ristampano, o si stampano per la prima volta in Italia, libri come Stalingrado e volano in cima alle classifiche.[4] Ci sorprendiamo della chiamata alle armi degli uomini dai 18 ai 60 anni. E pensiamo alle famiglie che lasciano, «le donne accorate, tornanti all’addio».[5] Esausti di geopolitica, riprendiamo in mano la complessità che costruisce senso, i romanzi, le poesie, i racconti. Con più urgenza ci facciamo i conti.

E allora pensavo a Pavese, a quando ho letto la prima volta La casa in collina. Ero «giovane e senza volerlo»[6] avevo cominciato un romanzo sulla Resistenza, con l’idea che fosse quella di Milton, dell’Agnese, la guerra di Lorca e Neruda. Ero arrivato alla fine senza che Corrado ne avesse fatta una. Sembrava sempre preso da altro questo professore di Torino, sempre sul punto di o che già… si fermava, ti fermava un attimo prima di saltare. Non sapeva sparare, non sapeva tenersi la donna o il bambino. E poi c’era quel finale commovente dove tutto tornava, ma davanti al morto di Salò: «Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile».[7]

 

2. La morte

Anche Pavese è il morto. Nemmeno caduto, solo morto, nell’estate del 1950 alle soglie dei quarantadue anni che avrebbe compiuto due settimane dopo. E qualcuno se lo è trovato davanti. La scena nota è quella della camera al terzo piano di un albergo Roma, vicino alla stazione di Porta Nuova, nella Torino deserta e canicolare del tardo agosto. Natalia Ginzburg, moglie del compianto Leone, amatissimo amico (e primo sponsor del Cesare poeta)[8] dirà: «nella città che gli apparteneva, come un forestiero».[9] Suicidio meditato, affidato ai sonniferi che lo lasciarono «riverso sul letto, senza giacca, un braccio penzoloni sino a sfiorare il pavimento, l’altro piegato sul petto».[10] Le ultime parole – vergate sul frontespizio del suo libro più caro, i Dialoghi con Leucò editi nel 1947 – singolarmente vicine a quelle di un altro illustre suicida, «il “tamburino” più rumoroso della rivoluzione di Lenin», che Cesare prima di Pavese aveva probabilmente letto in traduzione mentre studiava per la tesi; un lungo articolo apparso su «La Stampa» di Torino poco dopo la scomparsa di Majakovskij, nell’aprile del 1930:

 

A tutti! Del fatto che io muoio non incolpate nessuno, e prego non farne argomento di pettegolezzi. Il defunto ciò detestava. Mamma, sorelle e amici, perdonatemi, — questo non è il modo — ad altri non lo consiglio, ma io non ho altra via di uscita. Lilja, amami […]. Come suol dirsi, “l’incidente è liquidato”, la barca d’amore si è infranta contro la vita. Con tutti io sono in regola e a nulla vale enumerare i reciproci dolori le miserie e le offese. Felice permanenza.[11]

A tutti, perdòno, niente pettegolezzi, i conti in ordine. Il cristallo d’aforisma pavesiano screziato da un intercalare piemontese che appena formalmente conserva il punto di domanda:

Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.

 

Poche parole. Lascito del suicida incruento che aveva corteggiato a lungo la rivoltella. Almeno da quel dicembre del 1926 in cui si era si era tolto la vita il compagno di ginnasio Elico Baraldi[12] (è del gennaio successivo la lirica giovanile Sono andato una sera di dicembre).[13] Cupio dissolvi che sempre tornava e si era rinvigorito proprio nell’ultimo anno, aperto dalla notazione diaristica su un irreale silenzio romano, silenzio minerale (e vegetale) siglato dal paradossale: «Che morte non voler più morire».[14] Un anno nel quale il lemma «suicidio» ricorre, cresce, s’ingrossa. Anno di distacco progressivo, di anestesia che prepara l’ultimo squarcio, aperto dal batticuore di marzo per l’allodola Connie Dowling, che ad aprile volge in sangue.[15] L’inizio di primavera è una ferita che i versi[16] non guariscono, dilatata dal distacco («Tutto tende a separarmi da lei» è accompagnato dalla citazione oraziana «Si fractus illabatur orbis»).[17] Poi in maggio comincia «la cadenza del soffrire. Ogni sera, all’imbrunire»;[18] il ricorso all’«archetipo ancestrale» di amore e morte anticipa l’asciutta nota del 16 maggio: «Adesso il dolore invade anche il mattino».[19] In giugno il viaggio a Roma per ritirare il premio Strega (per La bella estate), e poi tre settimane di silenzio diaristico spezzate da una domanda che non vuole risposta: «A Roma, apoteosi. E con questo?». «Tutto crolla», come raccontano i «sacrifici aztechi»[20] osservati con gli occhi dei posteri, e i versi del Last blues, to be read some day messi in fondo alla stessa nota. Poco altro inchiostro in luglio e già l’ora s’avvicina. Gli appunti s’infittiscono ad agosto: scrive il 13, il 14, il 16, il 17, il 18. Prima un rigo, poi di più; la lettera del 16, i chiodi («Chiodo scaccia chiodo. Ma quattro chiodi fanno una croce»), la legacy in tricolon («Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti»)[21] del monarca in disgrazia («Nel mio mestiere, dunque, sono re») portano al primo «consuntivo dell’anno non finito, che non finirò»,[22] conservando con puntiglio la scansione ormai raggiunta nel diario. Questione di ore e la conclusione s’impietra in «un gesto. Non scriverò più»[23] che tiene insieme sul limitare di Dite mestiere di vivere e mestiere di scrivere.

Settant’anni dopo ricercarne le motivazioni appare inutile e superfluo. La solitudine, la politica, la donna, la mancata corrispondenza tra diagramma creativo ed esistenziale,[24] il «vizio assurdo»,[25] un destino. Certo la fallimentare esperienza con l’attrice americana ha avuto la sua parte a riprecipitarlo nel «gorgo»:[26] «in lei non c’è soltanto lei, ma tutta la mia vita passata».[27] Ce lo ricorda anche quell’altro ipse dixit, scelto proprio per la quarta di copertina di una celebre edizione del diario («Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla»),[28] forse per rispondere subito alla prima questione e guardare avanti, cioè indietro. Si tratta di un ritorno che non è bouncing back, rimbalzare indietro, ma un rimbalzare all’indietro, praticamente il contrario della resilienza. Un suicidio anch’esso novecentesco insomma, che non ha nulla dell’eroico uticense, della rumorosa dissipazione del colpo di fucile o di pistola, ma del consumarsi, dello spegnersi (la «candela» non a caso evocata dallo stesso autore nelle ultime lettere),[29] dello scolorare di postere celebrità sempre in stanze d’albergo o in deserte ville.

Nessuno ha badato a non fare troppi pettegolezzi, anzi, dopo qualche tempo si è messa distanza tra noi e il morto, una distanza di sicurezza. Percezione di superiorità nei confronti dell’uomo incoraggiata dalle pubblicazioni postume, dalle scritture private diventate pubbliche, dalle pagine strappate (per essere) ritrovate:[30] le esitazioni, l’equivoco del confino e la domanda di grazia, la tessera del PNF e la tardiva adesione al PCI, la Resistenza elusa o tradita, realtà e irrazionale, la storia contro il mito. Un rosario di spine che ha messo in parentesi l’opera. Anche nelle scuole, nei manuali, quando si studia Pavese, vengono prima la vita le tare, poi l’opera, chiusa a doppia mandata dallo sfondo autobiografico che la giustifica e spiega, da un asse dicotomico che la rifinisce e cristallizza.[31]

 

3. La vita

Studioso che esordisce nell’Italia dell’autarchia guardando fuori, scrivendo saggi, traducendo autori nordamericani. Autore a sua volta, che scrive guardando alle cose («un’espressione essenziale di fatti essenziali»)[32] nell’epoca della parola assoluta, e dunque poeta narrativo e narratore lirico, poesie lunghe e romanzi brevi. Orfano di padre allevato da una madre dura, poi orfano di madre cresciuto dalla sorella sposata. Scrive poesie partendo dagli antenati per concludere che si può essere padri senza perdere il ragazzo. Ma poi ci ripensa. Campagnolo inurbato a Torino e cittadino nella campagna santostefanese. I paradossi (ché tali appaiono ad elencarli così) potrebbero continuare. Proprio quest’ultimo, campagna e città, è perfetto metro della teoria dei poli opposti, il fuoco attorno a cui copiose misletture di tutto il suo lavoro si sono alimentate. Dall’origine, dal primo libro che al tema intitola una poesia (Città in campagna) e poi una sezione (nella seconda edizione). L’autore, certo, ha soffiato sulle vampe stampando in bolla d’appendice quella definizione di «Lavorare stanca come l’avventura dell’adolescente che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città, ma vi trova la solitudine…».[33] Il soffio è diventato vento, un domino che ha innescato infinite repliche di questa antinomia prima, il modulo prestampato di un’interpretazione: lavoro-ozio, uomini-donne, infanzia-maturità, olimpici-titanici, fino alle classi sociali (operai-borghesi), a sistemi-mondo (impegno-disimpegno, realismo-decadentismo). La perfetta impalcatura che tiene insieme uomo dei contrasti e autore degli opposti. I due mestieri allineati e pacifici, cui è mancata la sintesi.

Certe strutture tengono benissimo fino a quando non si scoprono poggiate sul nulla. Se la città-abisso fa dire al ragazzo «mi ha insegnato infinite paure» (I mari del Sud) come si spiega poi che sempre al ragazzo sarà «bella città» che lo accoglie nella favola del ritorno con cui si conclude il primo libro (Paesaggio VI)? Se è «mio» il «vecchio» che difende la vigna «col fucile puntato» (Paesaggio II), come sentiamo anche viva la simpatia per «l’uomo lacero» (Paesaggio III) che gli ruba la frutta: «Nella notte la terra non ha più padroni». E quando l’autore manda alla sorella una sua poesia «a memoria» (dal carcere, sul carcere), perché in alcuni versi scrive l’esatto opposto di quanto pubblicherà?[34] E come mai negli autografi troviamo antinomie in paradigma dove ci aspetteremmo sinonimi? E la sentenza d’apertura in Lavorare stanca, nella poesia che dà il titolo alla raccolta, che definisce il ragazzo, è tormentata tra le carte di segni opposti: leggiamo «Traversare una strada per correre a casa» dove avremo «Traversare una strada per scappare di casa», oppure «lo fa solo un bambino» in luogo di «lo fa solo un ragazzo». E altrove la «festa alla capra» era già «festa alla lupa» e aveva come sfondo la «campagna», poi la «città», prima che s’imponesse la lezione iniziale di «pianura» («far festa alla capra e gridare di là alla pianura», Paesaggio I, v. 22).[35]

Che il lessico fosse semplice ma il messaggio da avvicinare con cura lo suggerisce anche la storia editoriale dell’opera, la censura che nel 1935 ne colpisce la morale (con scorno dell’autore!).[36] Sangue e sesso del Dio-caprone, la nudità ‘gender fluid’ di Pensieri di Dina («ha pensato che fossi un ragazzo»), il «culetto» di Balletto e la Paternità di chi aspetta, per berseli, i soldi guadagnati dalla «figlia che «balla» nuda.[37] Una forbice distratta non ne tocca la sostanza, la teoria di sbandati, ubriaconi, pezzenti, scioperati che serbano o hanno avuto una scintilla di pienezza. Un racconto di formazione, un «sogno»,[38] che è promessa, fiduciosa apertura all’altro e al mondo, che nulla ha a che vedere con il fascismo. Il fascismo non è mai esplicitamente nominato, ma è marcato col sangue versato e la «prigione», in Legna verde, in Rivolta, in Una generazione. Quest’ultimo componimento, a lungo immaginato da Pavese come finale del primo libro – è ripubblicato nel secondo, e stampato ancora all’indomani della guerra –,[39] si riferisce proprio a un episodio di violenza fascista. A raccontarlo è lo stesso autore.

In tre lasse dal simile incipit («Un ragazzo veniva a giocare nei prati», «Domattina i ragazzi ritornano in giro», «Vanno ancora ragazzi a giocare nei prati») verdi d’erba e di voci di ragazzi, giunge a sera l’eco di spari («Una sera di luci lontane echeggiavano spari / in città»). Sono quelli che attraversano Torino nel dicembre del 1922: undici vittime ufficiali, oggi ricordate da una lapide in piazza XVIII dicembre 1922, di fronte alla stazione di Porta Susa. Pavese stesso, molti anni dopo, le elenca su una copia di Lavorare stanca in possesso del suo amico (e biografo) Davide Lajolo, nelle pagine dove è stampata la lirica, insieme al memento: «Ricorda: eccidio di Torino (Brandimarte) Barriera di Nizza».[40]

Che sono questi nomi? Piero Brandimarte è il comandante della Milizia di Torino, il regista della strage. Il luogo invece («Barriera di Nizza») si riferisce alla vicenda di Francesco Prato, tramviere comunista che aveva generato il casus belli uccidendo due fascisti (il ferroviere Dresda e lo studente Bazzani) per motivi che probabilmente non molto hanno a che fare con la politica. Nel racconto delle loro vite, un pezzo della storia d’Italia. Dopo aver aderito alla Repubblica di Salò, Brandimarte viene riconosciuto a Brescia il 29 maggio del 1945; condannato in primo grado nel 1950 a una punizione esemplare (oltre venticinque anni di detenzione), sarà assolto in appello solamente due anni dopo per insufficienza di prove. Morirà nel 1971, con aquile fasciste, medaglie e picchetto dei bersaglieri, alcuni dei quali lo saluteranno sull’attenti «dimenticando di essere soldati della Repubblica italiana».[41] Il tramviere seguirà un destino opposto: condannato all’ergastolo in contumacia per il doppio omicidio, sarà costretto latitante ad espatriare in Unione Sovietica, dove finirà in un gulag, e morirà accusato di trotskismo.

Prima che questo incrocio si compia, l’autore pubblicherà il testo su «l’Unità» all’indomani del 25 aprile, accompagnandovi una nota dolce-amara che riannoda il filo con la cronaca da cui mosse. Non allineata con le celebrazioni dell’immediato dopoguerra appare invece sinistramente in sintonia con gli eventi che abbiamo detto, con il tempo lungo della storia:

La generazione dei “ragazzi” che ascoltò gli spari e i clamori del ’22 – che per vent’anni tese l’orecchio e il cuore alle voci soffocate del carcere e dell’esilio – ha finalmente riudito i clamori e gli spari. Nel ’34 – sembra ieri – nasceva questa poesia, dedicata alla memoria e alle speranze. Altro sangue nel frattempo ha macchiato le strade, sangue di quei ragazzi, e qualche volta fu così prezioso che ci parve uscisse dal nostro stesso cuore. Le donne che come allora tacciono sanno quanto è costato tutto questo. Noi vorremmo che i nuovi ragazzi guardassero all’avvenire con la stessa gioia e la stessa tristezza con cui gli altri giocarono in quei prati.

I ragazzi del ΚΌ22 giocavano sui prati mentre «in città si moriva». Attraverso un calcolato equilibrio di ripetizioni, la storia si ripete nella poesia, generazione dopo generazione: «Vanno ancora i ragazzi a giocare nei prati / […]. E la notte è la stessa». Anche «in prigione ci sono gli stessi».

 

4. Le lettere

       Il Pavese che scriveva su «l’Unità» era già il romanziere che aveva pubblicato Paesi tuoi, incipit del Neorealismo. Era insomma quasi canone già in vita, con un libro solo. Lavorare stanca, quello del 1936, di Solaria, era praticamente passato inosservato (altro discorso per la seconda edizione), mentre alla Spiaggia (Istituto Grafico Tiberino, Roma, 1942) spettava un ruolo ancillare rispetto al libro edito nel 1941. Paesi tuoi trovò infatti da subito un buon riscontro di pubblico e di critica, con letture complessivamente positive. Se ne lodava l’America e più ancora il Piemonte arcaico, l’attenzione verso il mondo rurale, la denuncia di una condizione di sfruttamento e subalternità cui non era estraneo, sul piano linguistico o su quello tematico, il nome nobile di Verga.[42] Si sarebbe poi capito come sotto la scorza delle cose, di campagna e di città, l’autore mettesse insieme Steinbeck e Mann, i miti e i misteri, e Dante, la rischiosa scommessa del desiderio di fronte al mondo caduto.[43]

Era il Pavese che avrebbe di lì a poco «regolato»[44] la sua posizione iscrivendosi al PCI, sostanzialmente per dovere d’ufficio. Non sarebbero mancati i contrasti, le tensioni portate anche all’interno di Casa Einaudi (la Collana viola, la questione della traduzione del Fiore del verso russo).[45] Un chiacchierato disallineamento[46] che è invero fedeltà alla sua linea, quella che teneva da casa all’ufficio anche mentre cadevano le bombe (a Torino oppure a Roma).[47] Una religione laica e inclusiva che lo spinge, una settimana dopo la poesia, ad affidare allo stesso giornale una Ginestra in prosa, l’idea di una cultura che torni all’uomo:

il discorso è questo, che noi non andremo verso il popolo. Perché già siamo popolo e tutto il resto è inesistente. Andremo se mai verso l’uomo. Perché questo è l’ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell’uomo – di noi e degli altri. La nuova leggenda, il nuovo stile sta tutto qui. E, con questo, la nostra felicità. Proporsi di andare verso il popolo è in sostanza confessare una cattiva coscienza […]. Noi abbiamo molti rimorsi ma non quello di aver mai dimenticato di che carne siamo fatti […]. Questi anni di angoscia e di sangue ci hanno insegnato che l’angoscia e il sangue non sono la fine di tutto. Una cosa si salva sull’orrore, ed è l’apertura dell’uomo verso l’uomo.[48]

Quel mondo, infatti, a cui lui parlava stava cominciando a guardare alle opere nel senso del loro contributo alla liberazione sociale. «Secol superbo e sciocco» che per assolversi aveva bisogno di condannare. È evidente che per questa via Pavese potesse rientrare solo forzatamente. Che La casa in collina finisse poi per essere la resa dei conti dell’autore rispetto alla Resistenza mancata, il non essersi schierato mentre i suoi amici lo facevano. Che quei Dialoghi con Leucò fossero mattane, «quarti di luna»,[49] come appunto scrive l’autore nella presentazione (dicendo naturalmente tutt’altro), offrendo in pegno nello stesso anno Il compagno Pablo.

Cartina al tornasole dello scivolamento su questo piano sono le recensioni di Prima che il gallo canti, dittico come noto che mette insieme Il carcere, prima prova compiuta del narratore Pavese, e La casa in collina, capolavoro dello scrittore maturo, sotto il titolo biblico del tradimento di sé. Il fuoco di fila è talmente serrato che spinge l’autore a scrivere a Cecchi ringraziandolo per la «discrezione» del suo giudizio, a fronte dell’«inevitabile piano politico su cui la discussione del mio libro sta precipitando», vedendosi Pavese stesso «adoperato per dimostrare che ormai tra fascisti e patrioti c’è parità morale».[50] Insieme a Cecchi, importanti lettere vanno a De Robertis,[51] a Lalla Romano[52] che contrariamente alla maggior parte dei lettori, e con gratitudine dell’autore, riporta il titolo al cosmo di un tempo «antelucano», del sonno sorpreso dalla luce.[53] Sonno appunto, da cui Corrado si sveglia di fronte al morto repubblichino.

Tempo era servito al ragazzo che fui per capire che quello che succedeva non era malgrado il «cadavere imbrattato» fosse del nemico, ma proprio per questo motivo («ogni guerra è una guerra civile»).[54] Per riuscire a vederlo quel morto, l’altro che ci interroga. La risorsa di accogliere, senza nemmeno saper la sua storia, quel morto senza nome che ci parla di tutti gli altri, di tutti i morti, di tutti quelli che muoiono e non siamo noi. Che ci mette davanti alla vita nella sua forma più nuda[55] («È nel più nero che entra»),[56] diversa da come la sapevamo «nel pensiero»,[57] che ci scandalizza. Dicendoci che resilire non può essere la meccanica risposta della molla, risposta solo fisica che si esaurisce nel gesto, con l’usura del materiale. Resilire è invece far tesoro delle cose, nutrirsene il cuore. Solo in questo modo la risposta, il tornare alla forma, può essere un arricchimento, lo snodo di un cammino. Come accade in quel viaggio sognato all’inizio di tutto Pavese, nella domanda di senso che il ragazzo pone al cugino che «pescava le perle», tornato dai Mari del Sud, nella risposta che il ragazzo si dà «bevendo il mattino» nella bella città: «Val la pena tornare, magari diverso».[58]

 


[1] D. Fo, Storia di san Benedetto da Norcia, in Id., Mistero Buffo, a cura di F. Rame, Torino, Einaudi, 2003, p. 284.

[2] Per puro scrupolo documentario esplicito i riferimenti a: E. Hobsbawm, The age of extremes: The Short Twentieth Century, 1914-1991, Michael Joseph, 1994 (I trad. it. Rizzoli, Milano, 1995); Z. Baumann, Liquid modernity, UK-Malden (MA), Polity Press, 2000 (trad. it., Laterza, Roma-Bari, 2002); R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2014; A. Ghosh, The Great Derangement. Climate Change and the Unthinkable, Penguin Books, 2016 (trad. it. La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2017).

[3] Basta dare un’occhiata alla mappa interattiva di ACLED (Armed Conflict Location & Event Data Project): <https://acleddata.com/dashboard/#/dashboard> [accessed, 15 april 2022].

[4] V. Grossman, Stalingrado, traduzione di Claudia Zonghetti, a cura di Jurij Bit-Junan, Robert Chandler, Elizabeth Chandler, Milano, Adelphi, 2022 (I ed. 1952; ed. di riferimento, Penguin, 2019). Si veda la recente classifica di «La lettura» supplemento culturale del «Corriere della Sera», n. 542, 17 aprile 2022, p. 28.

[5] A. Manzoni, Adelchi, atto III, coro, v. 38.

[6] C. Pavese, Una stagione, in Id., L’opera poetica, Milano, Mondadori, 2021.

[7] Id., La casa in collina, Milano, Mondadori, 2021, p. 147.

[8] Per il ruolo di mediazione che ebbe Ginzburg nella pubblicazione della raccolta solariana, mi permetto di rimandare a L.P. Barbarino, Dai testi al testo. “Lavorare stanca” attraverso le Lettere, in Id., Il primo “Lavorare stanca” di Pavese (1936). Edizione critica, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2020, pp. xiv-xvii. Da qui sono tratti anche i riferimenti alle varianti che inframezzano il discorso.

[9] N. Ginzburg, Le piccole virtù, Torino, Einaudi,  p. 14.

[10] «La Stampa», 29 agosto 1950, p. 2 <http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/mod,libera/action,viewer/Itemid,3/page,2/articleid,0044_01_1950_0204_0002_10470032/>. Il fatto era stato annunciato già nell’edizione serale: «La Stampa Sera», 28 agosto 1950, pp. 1-2. Qui si fa menzione anche di una «lettera bruciata sul davanzale della finestra: impossibile decifrarla». <http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/mod,libera/action,viewer/Itemid,3/page,1/articleid,1602_02_1950_0202_0001_22254785/> [accessed, 15 april 2022].

[11] «La Stampa», 23 aprile 1930, p. 3 <http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/mod,libera/action,viewer/Itemid,3/page,3/articleid,1151_01_1930_0096_0003_24890278/> [accessed, 15 april 2022]. «Singolari rassomiglianze» nelle vicende umane dei due scrittori, oltre che nelle lettere d’addio sono notate anche da C. Segre, Introduzione a C. Pavese, Il mestiere di vivere. (Diario 1935-1950), a cura di Marziano Guglielminetti, Laura Nay, Einaudi, Torino, 1990, p. x (in nota).

[12] Si cfr. C. Pavese, Frammenti della mia vita trascorsa, in Id., Il mestiere di vivere. (Diario 1935-1950), cit., pp. 404-406.

[13] «immaginavo / quando afferrando quella rivoltella, / nella notte che l’ultima illusione / e i terrori mi avranno abbandonato, / io me l’appoggerò contro una tempia, / il sussulto tremendo che darà, / spaccandomi il cervello». C. Pavese, Sono andato una sera di dicembre, in Id., L’opera poetica, cit., p. 514.

[14] «Roma è un crocchio di giovanotti che attendono per farsi lustrare le scarpe. Passeggiata mattutina. Bel sole. Ma dove sono le impressioni del ’45-’46? Ritrovato a fatica gli spunti, ma niente di nuovo. Roma tace. Né le pietre né le piante dicono più gran che. Quell’inverno stupendo; sotto il sereno frizzante, le bacche di Leucò. Solita storia. Anche il dolore, il suicidio, facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazione suicida. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell’armatura. Eri ragazzo. L’idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler più morire». C. Pavese, Il mestiere di vivere. (Diario 1935-1950), cit., p. 384 (1 gennaio 1950).

[15] Si veda la lettera che probabilmente accompagnava i versi del Last blues, to be read some day: «Dearest, I am no more in a mood to write poems. They came with you and go with you […]. Viso di primavera, good-bye». C. Pavese, Lettere 1945-1950, a cura di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1966, pp. 506-507 (17 aprile 1950 a Constance Dowling).

[16] Il riferimento al volumetto pubblicato postumo da Calvino e Mila con il titolo Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (Einaudi, Torino 1951), che raccoglie insieme alle liriche eponime (radunate nella seconda sezione), quelle di La terra e la morte, da queste distinte per periodo di composizione, occasione e storia editoriale.

[17] «Se dovesse cadere infranto il mondo»: C. Pavese, Il mestiere di vivere. (Diario 1935-1950), cit., p. 393 (21 marzo 1950). Il riferimento alle Odi di Orazio (III, iii, 7) è notato dai curatori (ivi, p. 502).

[18] Ivi, p. 395 (8 maggio 1950).

[19] Ivi, p. 396 (16 maggio 1950).

[20] Ivi, pp. 397-398 (14 luglio 1950).

[21] Ivi, p. 399 (16 agosto 1950).

[22] Ivi, pp. 399-400 (17 agosto 1950).

[23] Ivi, p. 400 (18 agosto 1950).

[24] Cfr. C. Segre, Introduzione, cit., p. xi.

[25] Il riferimento alla celebre biografia di D. Lajolo, Il vizio assurdo. Storia di Cesare Pavese, Milano, Il Saggiatore, 1960.

[26] «Adesso, a modo mio, sono entrato nel gorgo» scrive l’autore nel diario: C. Pavese, Il mestiere di vivere. (Diario 1935-1950), cit., p. 396 (27 maggio 1950). Ma «gorgo» è naturalmente anche lemma delle coeve liriche («Verrà la morte e avrà i tuoi occhi» e «I mattini passano chiari», datate rispettivamente 22 e 30 marzo 1950). C. Pavese, L’opera poetica, cit., pp. 209, 214.

[27] C. Pavese, Il mestiere di vivere. (Diario 1935-1950), cit., p. 395 (26 aprile 1950).

[28] Ivi, p. 394 (25 marzo 1950).

[29] Cfr. C. Pavese, Lettere 1945-1950, cit., pp. 559-560 (agosto 1950 a una ragazza).

[30] Dalla pubblicazione postuma del diario (la prima edizione è Einaudi, Torino, 1952), al doppio volume delle Lettere (Einaudi, Torino, 1966) al caso del cosiddetto ‘taccuino segreto’ pubblicato per la prima volta da Lorenzo Mondo su «La Stampa» (Torino, 8 agosto 1990), e recentemente edito in volume: C. Pavese, Il taccuino segreto, a cura di F. Belviso, Aragno, Torino, 2020.

[31] Cito solo pochi casi paradigmatici di letture improntate a una superiorità nei confronti dell’uomo: A. Moravia, Fu solo un decadente, «L’Espresso», Roma, 12 luglio 1970; oppure F. Fortini, Il disagio di vivere nelle note di un diario, in Scritti sul manifesto 1985-1994, Manifestolibri, Roma, 1996. Tralascio i manuali scolastici data la facilità nel constatare ciò che noto, per soffermarmi solo sul recente esempio dei podcast a fini didattici, come Maturadio. La puntata dedicata a Pavese, scritta da Simona Menicocci e letta da Daniele Parisi, si può ascoltare sulle più comuni piattaforme o su browser <https://www.raiplaysound.it/audio/2020/05/MAturadio-Podcast-di-italiano-Cesare-Pavese-edbfdf16-c32a-48a0-9eca-a690568fd02f.html> [accessed, 15 april 2022].

[32] C. Pavese, Il mestiere di poeta (a proposito di “Lavorare stanca”), in Id., L’opera poetica, cit., p. 178.

[33] C. Pavese, A proposito di certe poesie non ancora scritte, in Id., L’opera poetica, cit., p. 189.

[34] Cfr. C. Pavese, Lettere 1924-44, a cura di L. Mondo, Torino, Einaudi, 1966, pp. 383-384 (29 maggio 1935 alla sorella Maria). Ho indugiato altrove – L. Barbarino, Dalla poesia epica a una poesia etica. Tra le carte di Lavorare stanca (1936), in F. Rappazzo, G. Traina (a cura di), I linguaggi del potere. Atti del convegno internazionale di studi (Ragusa, 16-18 ottobre 2019), Sesto San Giovanni (MI), Mimesis, 2020, pp. 19-20 – sulle principali differenze tra la poesia della lettera (di seguito segnalata con L) e il testo della versione a stampa (di seguito T). «Forse a terra cammina un viandante, che vede la nube» (L) «Viandanti tranquilli / vanno lungo quel fiume e nessuno s’accorge / della piccola nube» (T); «S’invola uno strido di rondine, / ma non tocca quel cielo» (L) «vi piomba lo strido / di un uccello, che spezza il brusio» (T).

[35] Com’è noto nella prima edizione di Lavorare stanca, l’autore non numera le poesie a titolo Paesaggio. Per comodità del lettore ho dunque aggiunto i numeri romani. I luoghi citati si possono leggere in C. Pavese, L’opera poetica, cit., rispettivamente alle pp. 8, 74, 24, 25, 56, 13. Le varianti genetiche di Lavorare stanca e di Paesaggio [I] sono integralmente in L.P. Barbarino, Il primo “Lavorare stanca” di Pavese (1936). Edizione critica, cit., rispettivamente alle pp. 261, 33.

[36] «Sono avvilito. Mi attendevo l’onore della censura politica, e quelli me la fanno puritana»: Lettere a Solaria, a cura di G. Manacorda, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 569 (11 marzo 1935 a Carocci).

[37] C. Pavese, Il dio-caprone, Pensieri di Dina, Balletto, Paternità, in Id., L’opera poetica, cit., pp. 86, 230, 135, 136.

[38] Mi riferisco qui alla lettura di A. Sichera, Pavese. Libri sacri, misteri, riscritture, Firenze, Olschki, 2015, pp. 15-32 (in particolare a p. 30).

[39] Una generazione è pubblicata vivente l’autore in C. Pavese, Lavorare stanca, Firenze, Edizioni di Solaria, 1936, pp. 87-88. Nella seconda edizione dell’opera è terza delle sette poesie della sezione «Legna verde»: C. Pavese, Lavorare stanca, nuova edizione aumentata, Torino, Einaudi, 1943, pp. 132-133. È infine ripubblicata in questa redazione su «l’Unità» di Torino il 13 maggio 1945, accompagnata da una nota dell’autore.

[40] D. Lajolo, Il vizio assurdo. Storia di Cesare Pavese, cit., p. 38.

[41] B. Maida, La memoria della strage 1922-2019, in N. Adduci, B. Berruti, B. Maida (a cura di), La nascita del Fascismo a Torino, Torino, Edizioni del Capricorno, 2020, pp. 145-157 (la citazione a p. 151). Da qui i dati delle due vicende biografiche che ho messo in relazione.

[42] Positive sono infatti le recensioni di P. Pancrazi (Cesare Pavese e il monologo interiore, «Corriere della Sera», Milano, 8 luglio 1941) o di M. Alicata (con lo pseudonimo di Don Ferrante), Il Piemonte di Pavese, «Oggi», Roma, 10 luglio 1941. Il nome di Verga è per la lingua nella recensione di M. Fubini (con lo pseudonimo di Luigi Vigliani), «Leonardo», Firenze, XII, settembre-ottobre 1941, pp. 216-218; ma può vedersi anche E. Cecchi, «Nuova Antologia», Roma, marzo 1942, n. 1679, pp. 66-77.

[43] Cfr. A. Sichera, Pavese, cit., pp. 133-190. Poi in modo più discorsivo in Id., Introduzione a C. Pavese, Paesi tuoi, Mondadori, Milano, 2021, pp. v-xxviii.

[44] C. Pavese, Lettere 1945-50, cit., p. 34 (10 novembre 1945 a Massimo Mila).

[45] Sulla corrispondenza con Poggioli si veda C. Pavese, R. Poggioli, «A meeting of minds». Carteggio (1947-1950), a cura di S. Savioli, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010; sull’antologia in particolare La curiosa fortuna del Fiore, pp. 133-145. La corrispondenza tra Pavese e De Martino è invece in C. Pavese, E. De Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, a cura di P. Angelini, Torino, Bollati Boringhieri, 1991. Per gli Atti del XXIV Congresso ADI, 23-25 settembre 2021, è di prossima pubblicazione uno studio di M. Grasso, Cesare Pavese e la Collana viola, che ho potuto leggere in bozze per cortesia dell’autrice.

[46] Lo stesso autore appunta sul diario le «losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che più ti stanno a cuore […]. P. non è un buon compagno». C. Pavese, Il mestiere di vivere. (Diario 1935-1950), cit., p. 389 (15 febbraio 1950).

[47] Cfr. ad esempio C. Pavese, Lettere 1924-44, cit., pp. 659 e 714 (3 dicembre 1942 e 19-20 luglio 1943).

[48] C. Pavese, Ritorno all’uomo, «l’Unità» di Torino, 20 maggio 1945, poi in Id., La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1990, pp. 197-199.

[49] C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino, Einaudi, 1947.

[50] C. Pavese, Lettere 1945-50, cit., pp. 340-41 (17 gennaio 1949 a Emilio Cecchi). Cecchi aveva recensito Prima che il gallo canti il giorno appena precedente: «L’Europeo», Milano, 16 gennaio 1949 (poi in Id., Letteratura italiana del Novecento, II, a cura di P. Citati, Milano, Mondadori 1972, pp. 1062-1064).

[51] Cfr. C. Pavese, Lettere 1945-50, cit., p. 344 (20 gennaio 1949 a Giuseppe De Robertis).

[52] Cfr. C. Pavese, Lettere 1945-50, cit., p. 373 (6 aprile 1949 a Lalla Romano).

[53] Cfr. L. Romano, recensione a Prima che il gallo canti, «La Rassegna d’Italia», Milano, IV, marzo 1949, n. 3, pp. 306-308.

[54] C. Pavese, La casa in collina, cit., p. 148.

[55] Queste righe si sono rapprese, e ne sono debitrici, attorno alla bellissima Introduzione di A. Sichera a C. Pavese, La casa in collina, cit., pp. v-xxxiv.

[56] P. Russo, Gli anni non invano, in Id., A questa vertigine, Ancona, Italic, 2016, p. 22.

[57] P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, iv, v. 4, in Id. Tutte le poesie, I, a cura di W. Siti, Milano, Mondadori, 2003 («I Meridiani»), p. 820.

[58] C. Pavese, Paesaggio in Id., L’opera poetica, cit., p. 74 (la precedente citazione dai Mari del Sud è ivi, p. 8).


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PAVESE , letteratura , VITA , RESILIENZA


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Letteratura

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