Ibridazioni teoriche, implicazioni territoriali: la Resilienza in Geografia

di Caterina Cirelli e Teresa Graziano

 

 

1. Resilienza, una parola passe-partout?[1]

Nel gennaio del 2013 “resilienza” è dichiarata “parola dell’anno” dal Time, in un contesto, quello anglosassone, dove il termine è storicamente radicato e le occorrenze letterarie numerose, tanto da comparire precocemente, nell’accezione concettuale moderna di “spirito di adattamento”, già nell’Independent di New York nel 1893: “The resilience and the elasticity of spirit which I had even ten years ago”.[2] Com’è noto, il termine ha un forte ancoraggio teorico ai domini scientifici della fisica e della matematica, nell’ambito dei quali si riferisce all’abilità di un sistema o materiale di riacquisire la sua forma a seguito di una perturbazione,[3] e dell’ecologia. Holling[4] nel 1973 elabora il concetto per descrivere la capacità di persistenza dei sistemi naturali dinnanzi alle alterazioni innescate da eventi naturali e/o antropici.

Se il latino resiliens circola in letteratura scientifica sin da fine Seicento, riferendosi alla capacità dei corpi di rimbalzare, con la stessa accezione il termine è accolto nel vocabolario italiano nel XVIII secolo fino a diventare «una parola passe-partout, capace di funzionare in qualsiasi campo perché rappresenta forse una promessa, quella cioè di poter sopravvivere, cadere senza farsi male»[5] e a ricorrere come parola chiave nei discorsi istituzionali e nelle politiche relativi alla ripartenza post-Covid. L’iniziativa dell’Unione Europea “Next Generation EU”, che prevede il finanziamento di interventi per favorire la ripresa attraverso la transizione a un’economia più sostenibile e adattabile alle crisi, evoca la resilienza nel regolamento, il Recovery and Resilience Plan, che fissa i criteri attraverso cui sono valutati i Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza.[6]

La consacrazione mediatica di un termine originariamente coniato nell’ambito scientifico dell’ecologia riflette la sua crescente popolarità al di fuori della cerchia accademica, dove pure il concetto era già stato oggetto di una risignificazione teorica nell’ambito di approcci disciplinari differenti e spesso mobilitato in congiunzione e/o sovrapposizione con un altro paradigma teorico-operativo di grande successo, lo sviluppo sostenibile. Autori come Walker e Cooper[7] sottolineano quanto la crescente diffusione del concetto di resilienza alle diverse scale lo abbia trasformato in una sorta di grammatica comune, ubiquitaria e trasversale della governance globale, incorporata nel regime neoliberista e variamente mobilitata nelle politiche e nelle pratiche improntate alla pianificazione sostenibile.

La geografia ha contribuito al dibattito interdisciplinare a partire dalle diverse branche in cui si differenzia la disciplina: dalle implicazioni più squisitamente ambientali, spesso connesse alle questioni della vulnerabilità territoriale e della gestione del rischio, alle implicazioni socio-culturali e alle diverse declinazioni in cui la resilienza si manifesta sulla base della specificità dei contesti territoriali, dall’urbano al rurale.

Come ricorda Dini[8] nell’introduzione al numero speciale delle Memorie Geografiche dedicato alla resilienza in geografia, il termine si è diffuso negli ultimi anni

per designare la capacità dei sistemi materiali, ecologici e sociali di rispondere a shock di vario tipo che vanno dai disastri naturali alle recessioni economiche, dal cambiamento climatico al terrorismo internazionale. Le scienze ecologiche, nell’ambito delle quali il termine è stato per la prima volta introdotto, la definiscono come capacità di un sistema di rispondere a una perturbazione minimizzando l’impatto e ristabilendo velocemente condizioni di equilibrio: essa, dunque, è singolarmente congrua agli approcci emergenti nella letteratura geografico-economica internazionale che interpretano leconomia dei luoghi dal punto di vista sistemico ed evolutivo.

Il contributo intende restituire una rassegna critica dell’evoluzione teorica del termine nella disciplina geografica, colto non solo in una dimensione diacronica, dalle prime concettualizzazioni fino alle ibridazioni semantiche più recenti, ma anche dialogica tra le due principali prospettive: da un lato, gli approcci che rielaborano la resilienza di matrice ecologico-naturalistica per adattarla alle istanze della disciplina geografica e, dall’altro, quelli che invece invocano nuovi codici interpretativi e per integrare anche la resilienza sociale delle comunità umane.

Dopo un excursus sull’emergere del termine nel contesto disciplinare dell’ecologia e la sua “migrazione” concettuale transdisciplinare, il secondo paragrafo passa in rassegna le modalità attraverso cui il concetto è stato recepito, risignificato e riconcettualizzato nella geografia agli albori della sua “transmigrazione”. Il terzo paragrafo approfondisce in modo specifico la relazione tra vulnerabilità e resilienza, evidenziandone il rapporto complementare, seppur spesso interpretato in modo antitetico; e si focalizza sulle modalità attraverso cui il concetto ricorre sempre più spesso in programmi e strategie di sostenibilità urbana, in virtù degli effetti che il cambiamento climatico e gli eventi catastrofici esercitano nelle città.

Nel quarto paragrafo si sottolineano le ambiguità concettuali insite nel concetto o, meglio, nelle diverse interpretazioni dello stesso, variamente utilizzato da discipline e in contesti territoriali differenti, mentre l’ultimo paragrafo include alcune considerazioni conclusive che, partendo proprio dagli aspetti più problematici, sintetizzano come la disciplina geografica possa fornire il proprio contributo originale sia al dibattito teorico che alle strategie operative della resilienza.

 

2. Al principio era l’ecologia. Di trasmigrazioni concettuali e ibridazioni

A partire dalle prime definizioni “moderne” di resilienza si delineano due diramazioni concettuali del termine: la resilienza ingegneristica si focalizza sul tempo impiegato da un sistema per ripristinare lo stato di equilibrio dopo uno shock,[9] mentre la resilienza propriamente ecologica indica la capacità di un sistema di riorganizzarsi sotto la pressione di un’alterazione per raggiungere un nuovo equilibrio pur mantenendo le stesse funzioni essenziali.[10]

Dall’ecologia l’utilizzo del termine è stato poi esteso al campo della psicologia per indicare la “plasticità psichica” con cui un individuo può reagire a difficoltà o traumi attraverso la mobilitazione delle risorse interiori[11] e, in senso più ampio, le modalità attraverso cui una comunità può riflettere il benessere individuale dei suoi membri. Seppur concettualmente connessa all’accezione ecologica, la resilienza psicologica enfatizza la rilevanza del contesto socio-culturale in cui gli individui agiscono, riecheggiando gli studi che valutano lo sviluppo delle comunità a partire dalle contingenze socio-economiche.

In virtù degli impatti crescenti esercitati dai processi di antropizzazione sugli ecosistemi, l’interesse nei confronti della resilienza – intesa sia come cornice concettuale che come schema operazionale – è parallelo al suo sconfinamento nell’ambito delle scienze sociali, in particolare in concomitanza con l’accresciuta rilevanza che le è attribuita per il perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile.[12] Traslando dal dominio ecologico, le scienze sociali riconcettualizzano il termine partendo dall’assunto che individui vivono e funzionano all’interno di sistemi socio-ambientali plasmati sistematicamente da influenze eterodirette o auto-prodotte.

Contrariamente alle visioni ortodosse partorite nell’ambito delle scienze “dure”, però, nelle scienze sociali si approda ben presto alla consapevolezza dell’impossibilità di raggiungere un (nuovo) stato di equilibrio nei sistemi umani, ma piuttosto un livello di maggiore complessità che si adatta costantemente, per aggiustamenti e spostamenti, ai percorsi evolutivi.[13] Questa coscienza condivisa conduce all’elaborazione di una terza interpretazione di resilienza, detta “adattativa”, che si riferisce all’ «abilità del sistema di subire una riorganizzazione della forma e/o della funzione di tipo anticipatorio o reattivo per minimizzare l’impatto di uno shock destabilizzante».[14]

Breen e Anderies[15] tracciano un affresco completo ed esaustivo delle risemantizzazioni, più o meno evidenti, che il termine ha subito nelle trasmigrazioni concettuali tra i vari campi del sapere, che si frammentano in una miriade di micro-prospettive diverse non soltanto su scala disciplinare, ma addirittura all’interno della stessa area tematica. Bahadur et al.,[16] per esempio, individuano 16 diverse prospettive teorico-operazionali della resilienza legata al cambiamento climatico. Il fil rouge tra queste visioni variegate è, però, la trama di complessità, connettività, adattamento e reazione intorno a cui si condensa il senso profondo della resilienza che, nella sua accezione più ampia, non indica più un meccanismo di funzionamento di sistemi ecologici, ma si estende alla comprensione dei processi di mutamento e adattamento dei sistemi socio-ecologici, in particolare nell’ambito degli studi sui disastri e sull’adattamento al cambiamento climatico.

Se è prevedibile che in diversi ambiti scientifici il termine sia cooptato in modo differente, non deve sorprendere che nell’ambito della stessa disciplina diversi siano gli approcci teorici e le cornici interpretative. In geografia, come ricordano Weichselgartner e Kelman,[17] oltre alle analisi delle interrelazioni tra resilienza, capacità adattiva e vulnerabilità, gli studi si sono focalizzati sull’efficacia della resilienza nel contesto della riduzione dei rischi naturali, sulle implicazioni in termini di pianificazione territoriale e sugli intrecci tra politiche, attivismo comunitario e sviluppo sociale.[18]

In generale, rispetto alle definizioni schematiche, cartesiane dei domini scientifici, la letteratura geografica è andata oltre una concettualizzazione lineare, offrendo spunti di riflessione sulla resilienza attraverso approcci e tematiche variegate, dal rischio ambientale e dal cambiamento climatico alla vulnerabilità sociale di individui e comunità, integrando in una visione sistemica quello che in altri approcci risulta settoriale: l’aspetto ambientale dell’ecologia, quello socio-psicologico relativo alle persone, anche considerate all’interno delle comunità, e quello pianificatorio riferito alla progettazione e gestione della resilienza.

 Oltre a ciò, la geografia ha spesso offerto uno sguardo critico, disincantato, rispetto alle manipolazioni del termine, soprattutto quelle funzionali al perseguimento di politiche neoliberiste avanzate. La questione a cui i geografi hanno tentato di dare una risposta è, dunque, secondo Weichselgartner e Kelman,[19] «resilience of what to what at what scales», in virtù della capacità, propria della disciplina, di esplorare allo stesso tempo le dimensioni spazio-temporale e socio-ambientale e decostruire, dunque, a quali scale accadono i processi, per quali cause e con quali conseguenze territoriali.

L’aspetto cruciale, infatti, è promuovere un passaggio semantico e operazionale consapevole da resilienza intesa come concetto meramente “descrittivo” (“cosa si fa”) a un approccio normativo da estendere alle agende politiche (“cosa andrebbe fatto”), assicurando, dunque, un equilibrio tra gli aspetti verificabili, empirici della resilienza con la tensione ideale e gli approcci prescrittivi, che traccino una visione futura. Inoltre, il passaggio dalla dimensione ecologica a quella sociale della resilienza non deve far dimenticare un elemento di discrimine, ovvero la capacità umana di prevedere e imparare. Aspetto, quest’ultimo, che conduce a una questione: quali aspetti della resilienza possono agevolmente trasmigrare dalla dimensione ecologica a quella sociale? Quali, invece, risultano inadeguati o irrilevanti?

 

3. Resilienza e vulnerabilità: dalla riduzione del rischio alle resilient cities

Se numerosi studi, dalla sociologia all’antropologia, considerano la resilienza come la “l’altra faccia della medaglia” della vulnerabilità, ponendo i due concetti ai due poli antitetici,[20] la letteratura geografica tende invece a valutare in modo inedito l’interrelazione tra resilienza e vulnerabilità, che si nutre di scambi e osmosi non lineari, né fondati su reciproca interdipendenza. Se la vulnerabilità non si situa all’opposto della resilienza, ma si riferisce a mutamenti strutturali dei sistemi,[21] secondo Klein e Nicholls[22] il rapporto è di tipo inclusivo, essendo la resilienza uno dei fattori che comprende la vulnerabilità. La questione dirimente, su cui la geografia può contribuire, è «cosa e chi sono inclusi ed esclusi dalla definizione dei confini del soggetto in questione? I geografi spesso si focalizzano su questa questione, studiando i confini e le scale spazio-temporali per determinare cosa e chi sono inclusi ed esclusi – per poi chiedersi “perché”».[23]

L’entità delle relazioni, la portata degli sconfinamenti reciproci o, al contrario, delle opposizioni tra resilienza e vulnerabilità è strettamente connessa al contesto, e spesso afferisce alla sfera delle percezioni. Non è casuale che l’approccio psicologico alla resilienza sia ricorrente nei casi di disastri e delle catastrofi naturali, che colpiscono numerosi individui in porzioni di territorio circoscritte, per valutarne le implicazioni percettive ed emozionali.
Se in ambito accademico il dibattito è ampio e articolato, sul piano delle politiche piani, programmi e strategie sono stati adottati alle diverse scale per “costruire” resilienza, riducendo da un lato l’esposizione e la vulnerabilità agli shock e, dall’altro, aumentando la capacità di adattamento sia nello spazio che nel tempo - ex ante, durante, ex post - per delineare comunità resilienti ai disastri.[24]

È in particolare nei contesti urbani (e iper-urbanizzati) del Nord e Sud Globale che le visioni e le strategie orientate alla resilienza rappresentano i fulcri tematici di azioni e strategie.  I processi di urbanizzazione orientano i cambiamenti nell’epoca dell’Antropocene e comportano sfide ambientali e sociali che sono sottorappresentate in scala, scopo e complessità tanto da individuare la resilienza urbana come principio organizzatore.[25]
La resilienza urbana, infatti, è sempre più spesso considerata come un «boundary object»[26] o «bridging concept»,[27] rappresentando al tempo stesso una cornice concettuale di confine tra e nelle discipline e un termine-ponte, che traghetta flussi di conoscenza e attiva scambi tra prospettive differenti. Il valore di concetto-ponte, che connette dimensioni differenti delle conoscenze e delle pratiche, diventa particolarmente evidente soprattutto in relazione all’adattamento al cambiamento climatico e alla riduzione del rischio di disastri nei contesti urbani, dove le questioni della sicurezza, della vulnerabilità e della sostenibilità si impongono con maggiore rilevanza e necessitano di una costante integrazione di saperi.

Nel 2010, la UN International Strategy for Disaster Reduction lancia la campagna “My City is Getting Ready”, orientata al perseguimento di comunità urbane sostenibili e resilienti attraverso la riduzione del rischio dei disastri, in linea con i principi dell’urbanizzazione sostenibile tracciati dall’UN Habitat World Urban Campaign 2009-2013. A queste azioni segue una serie di strategie variamente articolate alle diverse scale - dal globale al locale – e strutturate intorno a sistemi variegati di strumenti (linee guida, manuali, ecc.) che mirano a delineare un approccio di gestione e pianificazione del territorio integrato per le città resilienti. Eppure, spesso queste visioni non valutano in modo approfondito se e quanto dovrebbero essere differenziati i diversi contesti territoriali di fronte alla resilienza, cogliendo le differenze che distinguono l’urbano dal rurale, ed entrambi dal peri-urbano. Né prendono in dovuta considerazione il complesso intreccio di connessioni – o di mancanza delle stesse – tra livelli decisionali, influenze, relazioni di potere, che regolano processi e azioni di gestione della resilienza. La necessità di misurare tramite indicatori le dimensioni della vulnerabilità e della resilienza in ambito urbano, inoltre, rientrando nella pur comprensibile necessità di quantificare il fenomeno, inevitabilmente ne alimenta la decontestualizzazione, rendendo più sfocati gli effetti dei rischi o dei disastri nelle comunità – e soprattutto i diversi impatti dovuti alle disuguaglianze territoriali – e le risposte di quest’ultime, ancorate a una scala iper-locale.
Se, dunque, la resilienza urbana applicata alla riduzione del rischio e saldamente ancorata alla dimensione ecologica può rivelare implicazioni controverse, il termine scandisce sempre più spesso analisi, visioni e studi urbani assumendo una valenza metaforica che lo svincola dal “giogo” del significato originario, saldato alla dimensione ecologica.

In numerose ricerche di geografia urbana, per esempio, la resilienza emerge in concomitanza con la crisi del subprime del 2007-09 e i tentativi successivi di adattamento allo shock che investe il settore immobiliare prima e poi, con un effetto domino, gli altri settori dell’economia urbana, a partire dal commercio, dall’industria dell’intrattenimento e dal turismo.[28] Secondo Mackinnon, Derickson,[29] dunque,

 

resilienza può essere vista come l’ultima di una lunga serie di metafore naturalistiche applicabili a città e regioni» che ne accentua i caratteri di vaghezza e, aspetto ancor più rischioso, può essere arbitrariamente mobilitata in modo strumentale, in virtù della sua ubiquità, nei contesti di austerità e di neoliberismo avanzato, cooptata da modalità di governance territoriale e/o urbana neoliberista per il perseguimento di obiettivi di sviluppo legittimati dal refrain delle “città resilienti”: «la resilienza ecologica è la metrica di calcolo per un “brave new world” di turbo-capitalismo.[30]

 

4. Controversie e sconfinamenti concettuali

Nonostante la sua diffusione ubiquitaria – o, forse, proprio a causa di questa – che ne ha eroso l’originaria specificità concettuale, banalizzandone gli assunti e diluendone le implicazioni, resilienza rimane dunque un termine controverso. E non solo perché le sue costanti migrazioni inter/intradisciplinari sfocano i confini concettuali, rendendoli sempre più frastagliati. Ma anche perché numerose questioni emergono in relazioni ai contesti, agli attori, ai luoghi, ai discorsi in cui la parola è usata. Innanzitutto, numerose prospettive teoriche non si concentrano abbastanza sulla contingenza sociale della resilienza e, dunque, sugli aspetti legati alla giustizia spaziale: «resilience for whom?», si chiede Brown[31] che amplia le considerazioni sugli aspetti controversi fino a includere l’idea di un sistema fondato su meccanismi di funzionamento prevedibili e/o valutabili. Inoltre, la visione più comune di resilienza fa riferimento a forze esogene o esterne di alterazione, sottostimando dunque le dinamiche sociali interne ed endogene di un sistema da cui possono provenire gli shock. Oltre agli attori, un’altra questione è «resilience of what to what»,[32] che riguarda da un lato i “salti” tra dimensioni scalari e temporali differenti e, dall’altro, i disequilibri e le relazioni egemoniche di potere di cui si intesse la trama delle relazioni socio-spaziali. Numerose concettualizzazioni, infatti, presuppongono un ripristino dello “stato iniziale”, assumendo implicitamente che la configurazione originaria del sistema sociale sia quella più desiderabile/ata.[33] Inoltre, la resilienza è spesso sollecitata attraverso un’operazione di depoliticizzazione, che non tiene in dovuta considerazione il ruolo di attori e istituzioni attraverso cui si esplica la sua gestione e la sua pratica.
In definitiva, l’aspetto più controverso riguarda il passaggio concettuale dai sistemi ecologici a quelli sociali, che trasferisce tout court a questi ultimi una dimensione statica delle relazioni sociali, ancorandosi all’assunto che i sistemi ecologici e quelli sociali siano essenzialmente simili nei meccanismi di funzionamento.

In uno dei lavori seminali sulla resilienza, Adger[34] si chiede allora se la resilienza ecologica e sociale siano interrelate, eventualmente quali sono gli elementi di differenziazione e se è opportuno, oltre che concettualmente solido, individuare una dimensione connettiva tra le due. Nella visione dell’autore, la resilienza sociale indica la capacità delle comunità di resistere agli shock alla loro infrastruttura sociale, identificandola come analoga a quella ecologica e ad essa epistemologicamente connessa in virtù dei sistemi co-evolutivi che legano le comunità alle risorse naturali.

Secondo Brown,[35] sono tre i principali fulcri tematici intorno ai quali si condensa la letteratura geografica sulla resilienza: comunità, trasformazione e transizioni. Quanto al primo nodo, principalmente riguarda la rilevanza teorica e operativa delle dinamiche politico-sociali in merito alla resilienza delle comunità, per cui la resilienza è usata come griglia di interpretazione dei mutamenti sociali indotti dal cambiamento climatico, enfatizza le frizioni, i conflitti sociali e le relazioni asimmetriche di potere derivanti dalla gestione degli ecosistemi, o ancora gli aspetti socio-culturali ed economici innescati dai disastri e dalle catastrofi. Davidson[36] sostiene che la resilienza delle comunità sia un concetto inadeguato perché sottovaluta la portata dell’agency e delle asimmetrie di potere, oltre che implicare il rischio di romanzare ed edulcorare una presunta capacità di resilienza delle comunità dinnanzi al cambiamento (si pensi, per esempio, alla cosiddetta “resilienza indigena”, controversa proprio perché implicitamente portatrice di assunti neocolonialisti); o, ancora, la sottovalutazione dei fattori strutturali, di contesto o istituzionali nel mobilitare la resilienza come panacea e catalizzatore delle strategie di sviluppo.

In questa prospettiva si inserisce quella che viene definita la «dark side of resilience»,[37] contro l’automatismo del “tornare indietro” che si innescherebbe anche in quei casi in cui il ripristino della situazione originaria dopo lo shock è tutt’altro che auspicabile, come nei casi delle proteste ai regimi dittatoriali o di estrema vulnerabilità socio-ambientale della situazione di partenza. Da qui deriverebbe una relazione non lineare con resistenza, che presuppone una continuità nel mutamento concettualmente distante dalla resilienza, sebbene non sempre i rispetti confini semantici siano netti o facilmente identificabili.

Il secondo nodo tematico riguarda il rapporto tra resilienza e trasformazione, quest’ultima intesa come elemento cruciale dei discorsi sul cambiamento climatico-ambientale globale e le risposte delle comunità. In questo caso, la resilienza assume un’ulteriore ambiguità semantica, configurandosi come una visione “conservativa” in contrasto a un cambiamento più dinamico e trasformativo, come quello tipicamente associato all’adattamento ai cambiamenti climatici.

Il terzo nodo cruciale, secondo l’autrice, riguarda le cosiddette “transizioni resilienti”, ovvero i significati e i rimandi concettuali attribuiti al concetto da comunità, movimenti e gruppi sociali differenti che, in opposizione alle “manipolazioni” del concetto da parte delle agende neoliberiste, mobilitano la resilienza come principio ispiratore e organizzativo per sfidare lo status quo e immaginare futuri alternativi: un esempio è il movimento delle Transition Towns che articola le proprie visioni e schemi di azioni intorno al concetto di resilienza, declinato alla scala comunitaria e individuale. Nello stesso solco, Goldstein et al.[38] si riferiscono a tutte le forme di pianificazione e progettazione comunitaria inclusiva finalizzata a progettare i sistemi urbani in modo adattivo, dinamico e inclusivo.

 

5. Considerazioni finali

Brown et al. [39] si chiedono se si possa parlare di un vero e proprio social turn, una svolta sociale, nelle concettualizzazioni della resilienza applicate al cambiamento ambientale-climatico globale. Nonostante gli avanzamenti epistemologici significativi degli ultimi anni, l’autrice evidenzia come soltanto recentemente le ibridazioni interdisciplinari siano approdate a una nuova e più complessa visione della resilienza in ambito scientifico. Come evidenziato, al di là dell’assonanza concettuale con la sostenibilità, l’estrema malleabilità e plasticità di resilienza lo ha reso un concetto di confine o un concetto-ponte che, proprio in virtù delle diverse diramazioni, è stato cooptato da interessi, attori, discorsi estremamente variegati. Lungi dall’impoverire il termine, ma allo stesso senza disconoscere il rischio di una banalizzazione, questi costanti passaggi disciplinari e di significato devono saldarsi al riconoscimento della sua complessità, per scongiurare che diventi un’altra parola-etichetta da sbandierare all’occorrenza, svuotandola della complessa articolazione interna e riducendola a parola passe-partout.

Se da un lato la recente predominanza di resilienza rispetto a vulnerabilità e sostenibilità in virtù della maggiore flessibilità ne ha decretato il primato nei discorsi istituzionali e nelle politiche, è altrettanto essenziale che, in ambito accademico, si continui a discutere e riflettere, anche in modo critico, su alcune questioni fino a oggi sottovalutate, smorzando l’entusiasmo per l’appeal spesso superficiale e approssimativo che la parola esercita nel linguaggio comune.
La possibilità di trasformare la resilienza da concetto semplicemente descrittivo a strumento di un’agenda normativa che orienta il cambiamento dei territori schiude nuove sfide, ricche di opportunità ma anche di elementi critici, che risultano ancor più pregnanti quando dal piano teorico si passa a quello empirico e, dunque, la resilienza diventa uno strumento di gestione territoriale.

In particolare, l’approccio geografico può contribuire fattivamente al dibattito teorico e alle strategie operative sulla resilienza attraverso le specificità tematiche e metodologiche della disciplina. Innanzitutto, in considerazione della dimensione spazio-temporale in cui avvengono i processi territoriali, nonché delle scale e dei confini che ne sono oggetto di studio, la geografia integra i contributi socio-ecologici della resilienza partendo dalle differenze e dalle disuguaglianze territoriali, andando oltre la semplice enumerazione di dati e indici. La coscienza delle differenze culturali e della pluralità socio-economica, propria della disciplina, possono consentire un radicamento locale di strategie resilienti normalmente concepite con un approccio de-contestualizzato e, dunque, certamente meno efficace. La capacità di essere resilienti, strettamente dipendente da fattori di vulnerabilità ambientale e diversi livelli di sviluppo socio-economico, non è uguale dappertutto, ma distribuita in modo disomogeneo tra regioni e persino all’interno di contesti territoriali apparentemente omogenei, dove però agiscono le differenze di classe, status, genere, etnia.

Riallacciandoci in conclusione con il numero speciale delle Memorie Geografiche citato nel paragrafo introduttivo, si ricorda come resilienza in geografia indichi

 

reattività, adattabilità, stabilità dinamica di un sistema, rappresentando un modello di lettura dei risultati attesi e al tempo stesso una metafora. Presuppone una sollecitazione e focalizza lanalisi sullinsieme delle dinamiche di persistenza che si realizzano allinterno: fornisce in tal modo unegregia rappresentazione di ciò che, anche in occasione di perturbazioni violente e radicali quali ad esempio le crisi economiche, si osserva in realtà, ossia il vincolo schiettamente interno cui deve sottostare la successiva rielaborazione. La fortuna del termine, in questo senso, è certamente legata agli interrogativi proposti dallaccelerato mutamento degli ultimi decenni, e dal fatto che il discorso su tali mutamenti non è adeguatamente affrontabile dalle scienze sociali, e in particolare dalla geografia, se non ragionando «per sistemi».[40]

 

Nelle parole di Scarpelli,[41] la categoria di resilienza «dovrebbe dunque annullare, o quantomeno minimizzare, la clausola coeteris paribus, ossia l’esclusione di tutte le variabili che il ricercatore assume che non mutino. Ne scaturirebbe che, oltre a condurre a un’interpretazione per sistemi, la “resilienza” ha anche il pregio di gettare ponti disciplinari: non per eclettismo, ma per pura necessità d’indagine«.

Si tratta, in definitiva, di approdare a una visione di resilienza “operazionale”, in cui l’apporto teorico interdisciplinare possa integrarsi con visioni e strumenti della geografia e, attraverso di essi, cogliere le differenze, le disuguaglianze, le polarizzazioni socio-economiche e culturali su cui la resilienza può attivarsi. La questione cruciale diventa, dunque, non soltanto for what o for whom, per cosa o per chi si attiva la resilienza, ma anche who decides:[42] chi decide? Le implicazioni in termini di governance territoriale e di distribuzione diseguale del potere e delle risorse sono fondamentali per dirimere le controversie relative alla resilienza, che dovrebbe fondarsi sulla partecipazione attiva delle popolazioni coinvolte e sulla loro co-progettazione per la definizione delle priorità degli interventi, valorizzando le risorse endogene: «Come un concetto-ombrello, la resilienza fornisce l’opportunità di analizzare le interazioni tra domini e scale, che è esattamente quello che fanno i geografi».[43]

 

 

 

 

 


[1]  Seppur frutto di un lavoro congiunto, i parr. 1 e 5 sono da attribuirsi a Caterina Cirelli, i parr. 2, 3, 4 a Teresa Graziano.

[2] Cit. in M. V. D’Onghia, Resilienza, una parola alla moda. Dagli usi tecnici agli editti del Comune di Bugliano, «Treccani», 16/10/2020, https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Resilienza.html; cfr. L’elasticità di resilienza, 12/12, 2014, https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/lelasticità-di-resilienza/928.

[3] G. M. Robinson, D. A. Carson, Resilient communities: transitions, pathways and resourcefulness, «The Geographical Journal», 182, 2, 2016, pp. 114-122.

[4] C. S. Holling, Resilience and stability of ecological systems, «Annual Review of Ecology and Systematics», 4, 1, 1973, pp. 1-23.

[5] M. V. D’Onghia, Resilienza, una parola alla moda, cit.

[6] M. Cortelazo, Resilienza. Le parole della neopolitica, «Treccani», 28/06/2021, https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Neopolitica57.html, ultimo accesso 18 marzo 2022.

[7] J. Walker, M. Cooper, Genealogies of resilience: From systems ecology to the political economy of crisis adaptation, «Security Dialogue», 42, 2011, pp. 143-160.

[8] F. Dini, Introduzione, in C. Capineri, F. Celata, D. de Vincenzo, F. Dini, F. Randelli, P. Romei (a cura di), Oltre la Globalizzazione Resilienza/Resilience, Firenze, Società di Studi Geografici, 2014, p. 7.

[9] L. H. Gunderson, Ecological Resilience – in theory and application, «Annual Review of Ecology and Systematics», 31, 2000, pp. 425-439.

[10] C. S. Holling, Understanding the complexity of economics, ecological and social systems, «Ecosystems», 4, 2001, pp. 390-405.

[11] M. V. D’Onghia, Resilienza, una parola alla moda, cit.

[12] W. N. Adger, Social and ecological resilience: are they related? «Progress in Human Geography», 24, 2000, pp. 347-364.

[13] A. Pike, S. Dawley, J. Tomaney, R. Martin, Regional economic resilience, hysteresis and recessionary shocks, «Journal of Economic Geography», 12, 2012, pp. 1-32.

[14] A. Pike, S. Dawley, J. Tomaney, R. Martin, Regional economic resilience, cit., p. 5 [T.d.A.]

[15] M. Breen, J.M. Anderies, Resilience: A literature review. The Rockefeller Foundation, 2011, http://www.rockefellerfoundation.org/news/publi- cations/resilience-literature-review.

[16] A.V. Bahadur, M. Ibrahim, T. Tanner, The resilience renaissance? Unpacking of resilience for tackling climate change and disasters. Strengthening Climate Resilience Discussion Paper 1, Brighton, Institute of Development Studies, 2011.

[17] J. Weichselgartner, I. Kelman, Geographies of resilience: Challenges and opportunities of a descriptive concept, «Progress in Human Geography», 39, 3, 2015, pp. 249-267

[18] G.C. Gallopin, Linkages between vulnerability, resilience, and adaptive capacity, «Global Environmental Change» 16/3, 2006, pp. 293-303; L. Porter, S. Davoudi, The politics of resilience: A cautionary note, «Planning Theory and Practice»,13, 2, 2012, pp. 329-333; D. MacKinnon, K.D. Derickson, From resilience to resourcefulness: A critique of resilience policy and activism, «Progress in Human Geography», 37, 2012, pp. 253-270.

[19] J. Weichselgartner, I. Kelman, Geographies of resilience, cit., p. 252.

[20] U. Kaly, C. Pratt, E. Sale-Mario, Environmental Vulnerability Index (EVI) project: Initial testing of the global EVI. Report 453, Suva, South Pacific Applied Geoscience Commission, 2002.

[21] G.C. Gallopin, Linkages between vulnerability, cit.

[22] R.J.T. Klein, R.J. Nicholls, Assessment of coastal vulnerability to climate change, «Ambio» 28, 2,-1999, pp. 182–187.

[23] J. Weichselgartner, I. Kelman, Geographies of resilience, cit., p. 253 [T.d.A.]

[24] Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), Managing the Risks of Extreme Events and Disasters to Advance Climate Change Adaptation: A Special Report of Working Groups I and II of the Intergovernmental Panel on Climate Change, Cambridge, Cambridge University Press, 2012.

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[39] K. Brown, S.J. O’Neill, C. Fabricius, Social science understandings of transformation, in ISSC and UNESCO. World Social Science Report (Changing Global Environments), 2013, pp. 100-107.

[40]  F. Dini, Introduzione, cit., p. 7.

[41] L. Scarpelli, Prefazione, in C. Capineri et al., Oltre la Globalizzazione, cit., p. 5.

[42] J. Weichselgartner, I. Kelman, Geographies of resilience, cit., p. 253.

[43] Ibidem.


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RESILIENZA URBANA , TERRITORIO , GLOBALIZZAZIONE


Categoria

Geografia

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