Melior de cinere surgo.
Rituale urbano e immaginario sonoro di una città resiliente

di Maria Rosa De Luca

 

 

Il Settecento è per Catania il secolo della rinascita. Eletto a emblema, il motto melior de cinere surgo sintetizza espressamente l’immagine di una città che risorge magnifica dalle macerie dell’horribile tremuoto del 1693.[1] Attraverso una ‘liturgia della memoria’ che guida i principali attori istituzionali a riedificare solo in apparenza “ora come allora” chiese conventi e palazzi, nell’arco di un quarantennio Catania diventa protagonista della renovatio illuministica nella scena culturale del Regno di Sicilia. Per quali ragioni? Gli studi recenti, che hanno fatto tesoro dell’analisi delle fonti notarili e contabili,[2] presentano la storia della città e del suo territorio come un significativo paradigma di resilienza. Secondo tali testimonianze, la ricostruzione della città sarebbe avvenuta in più fasi. Una prima, negli anni successivi al terremoto; una seconda, più ampia, che prende avvio tra il 1710 e il 1720 per raggiungere l’apice negli anni ’60, quindi rallentare, con sporadiche riprese, a partire dal 1770.[3] A dettare i tempi del progetto riedificatorio, che segna inequivocabilmente tutto il primo Settecento, sono le élites cittadine, cioè gli ordini religiosi presenti numerosi sul territorio, una classe nobiliare alquanto dinamica, nonché una vivace borghesia delle professioni; nella ricostruzione questi tre ordini sono favoriti dalle disposizioni generali dettate dal governo di Madrid nel maggio 1693 sull’esenzione delle gabelle da concedere alle città terremotate.[4] E non appare di poco conto il dato relativo alla popolazione urbana, che nell’arco di un trentennio (tra il 1714 e il 1747), sull’onda lunga di una ripresa economica, sarebbe aumentata da 16.000 a oltre 25.000 abitanti.[5] Tuttavia, nel flusso di questo processo di rinascita (o di resilienza, che dir si voglia), un ruolo non indifferente svolse la ‘memoria’ dei percorsi cittadini legati a una ritualità consolidatasi sin dalla metà del Cinquecento e istituzionalizzata nel corso del lungo dominio spagnolo.[6] La gerarchia spaziale e i luoghi privilegiati degli itinerari emergono dalle istanze di un progetto riedificatorio della città patrocinato dalle élites che governano il territorio; un piano programmatico che vuole Catania magnificamente risorta dalle macerie come una fenice nel rito e nella festa. Le scelte urbanistiche compiute dagli artefici della ricostruzione (nobili ed ecclesiastici che riedificarono sotto le direttive di Giuseppe Lanza duca di Camastra, delegato del Viceré Uçeda e del vescovo Andrea Riggio, consacrato da Innocenzo XII) si sforzarono di far coesistere il ‘vecchio’ col ‘nuovo’, la funzionalità del precedente tracciato urbano con l’esigenza di ammodernamento dello spazio pubblico.[7] Tali scelte implicarono la definitiva cancellazione dell’antico impianto medievale della città a favore di uno schema ortogonale fondato sull’intersezione di due grandi assi stradali, la via Uceda e la via Lanza (oggi via Etnea e via di Sangiuliano), nell’incrocio dei Quattro Canti (ambiziosa quanto impossibile replica dell’Ottangolo palermitano) e nella Platea magna (Piazza del Duomo) dove confluivano le vie del Corso e di san Filippo (oggi via Vittorio Emanuele e via Garibaldi).[8] (Fig. 1) La suddivisione marcatamente ortogonale del suolo urbano mediante assi stradali preferenziali, nondimeno riproponeva di fatto una centralità di funzioni (civili, religiose, culturali) nel vasto spazio su cui sovrasta la Cattedrale: a ricostruzione avvenuta si sarebbe qui offerta, per le scelte sia urbanistiche sia architettoniche, una magnifica rappresentazione dell’antica contrapposizione fra potere civile (con la riedificazione del Palazzo senatorio) e potere religioso (con la costruzione del Duomo e del Seminario dei chierici) che nei secoli precedenti aveva travagliato la storia della città e che nel tempo aveva rintracciato un momento di sintesi nel culto e nella devozione ad Agata Santa, patrona della città.

1. Lo spazio urbano, il rito e la festa

La festa di sant’Agata era l’occasione celebrativa su cui convogliare risorse economiche ed energie organizzative del potere sia religioso sia civile. In essa si rendeva esplicito quel complesso cerimoniale dello spettacolo che voleva la festa concepita almeno in apparenza in modo diverso da Chiesa e Senato: per la prima, quale mezzo per perseguire fini di edificazione morale e religiosa; per il secondo, quale momento di legittimazione del proprio governo sul territorio (in realtà, i veri intendimenti di entrambi si accordavano nella rappresentazione emblematica di una società chiusa e gerarchicamente organizzata nel protocollo festivo). La valenza civile e religiosa di quest’occasione celebrativa trovava riscontro nel patrocinio economico da parte del Senato cittadino e nell’alto riconoscimento da parte della Chiesa catanese, che ne aveva fatto un punto cruciale del calendario liturgico, con ben due appuntamenti, uno invernale il 5 febbraio (ricorrenza del martirio subìto dalla Santa) e uno estivo in agosto (traslazione delle spoglie agatine da Costantinopoli a Catania avvenuta nel 1126). La festa principale era quella di febbraio: essa principiava il 1° febbraio, raggiungeva il culmine fra il 3 e il 5 e «durava per lo spazio di quindici giorni»; i preparativi prendevano il via «da quattro a sei mesi prima».[9] A dettarne le fasi era il cerimoniale stilato da Alvaro Paternò nel 1522,[10] che dell’evento aveva fissato i dettagli scenici e rituali. Punti nodali del complesso apparato celebrativo che coinvolgeva la città negli spazi entro e fuori le mura erano: nei primi due giorni i cortei delle principali autorità cittadine (capitano di giustizia, patrizio e giurati) diretti verso la Cattedrale per rendere omaggio alla Santa; nel terzo giorno la cosiddetta “processione della luminaria” ovverossia l’offerta di ceri votivi (rigorosamente spenti) alla patrona da parte dei maggiori attori istituzionali della città, in segno di omaggio e devozione.[11] La soverchiante facies sacra della Catania seicentesca è disvelata dalla descrizione di Pietro Carrera:

prima fan capo a detta processione i sei battitori de’ tamburi, dopo i quali seguono gli orfanelli vestiti di bianco, i cappuccini, gli scalzi del terzo ordine di S. Francesco, quei della Santissima Trinità, i paulini, i carmelitani, gli agostiniani, i minori conventuali di S. Francesco, i zoccolanti, e i domenicani. Indi segue il clero con un gran cero, ch’è di peso di libre quasi 63, il qual solamente fra tutti gli altri ceri, che in questo giorno vi sono, si porta acceso […]. Vengono ultimamente i canonici della collegiata e i canonici della cattedrale e il vescovo.[12]

A questo primo gruppo ne seguiva un secondo che raccoglieva i rappresentanti delle varie corporazioni di arti e mestieri; ciascuno partecipava con un particolare cero votivo, il cosiddetto Gilio, sorta di machina in cui venivano raffigurate «scene sacre, historie ecclesiastiche, principi, re, chori di angeli, atti di martirio et eventi varii per lo più spettanti all’historia e grandezza della Santa»;[13] infine a chiusura della processione sfilavano le magistrature e i rappresentanti del potere civile.
Il quarto giorno della festa era dedicato alla processione delle reliquie agatine condotte sopra una specie di carro (la cosiddetta bara o fercolo) intorno alle mura della città: il quinto giorno prevedeva invece esclusivamente la celebrazione in chiesa con l’esposizione del prezioso busto reliquario sul sacrario della Cattedrale.

Per quanto concerne la musica, essa è ingrediente essenziale nell’architettura spaziale e scenica della solennità: all’occasione si attivavano collegamenti fra le cappelle musicali di Messina, Augusta, Piazza Armerina, Francofonte, Biancavilla, per mobilitare musici e formare gruppi vocali e strumentali che completassero la sfilata dei Gilii. Una ritualità prescrittiva voleva, infatti, che ogni Gilio fosse accompagnato da «strumenti da suoni e da musica» e che un coro di cantori declamasse le gesta vittoriose e miracolose della Santa. È così che «tutti i suonatori, che co’ suoi strumenti, qualunque essi siano, vengono a suonare in honor della festa, ve ne concorrono le centinaia, perciò si gode una vaghissima varietà, e talhor novità di rari strumenti, i quali accendono e accrescono il trionfo della Santa».[14] A far da cornice all’occasione è un corredo di eventi di natura non strettamente devozionale: come la famosa corsa del palio che si svolge «lu secondo di frevaro», limpiego di fuochi di artificio nel corso delle processioni, oppurecome ricorda Giovan Tommaso Longobardo nel suo Trionfo: Poema della festa di S. Agata – il grido d’esultanza e di gioia (olè) dei tanti devoti che tiravano a gran fatica la fune del carro d’argento contenente l’effige della Santa.[15]

Nella ricorrenza di agosto si celebra la traslazione delle reliquie agatine da Costantinopoli a Catania. Tale occasione nel secondo ’700 è riconosciuta sia dal calendario liturgico[16] sia da quello civile.[17] La festa liturgica contempla: esposizione del busto agatino sull’altare maggiore e processione delle reliquie all’interno della Cattedrale, messa e vespri solenni.[18] La festa civile, invece, prevede una processione nelle vie adiacenti alla Cattedrale e l’esecuzione di un dramma sacro nel Piano degli Studi allestito su di un palco ligneo davanti al portone dell’ateneo più antico del Regno di Sicilia, il Siciliae Studium Generale.

 

2. La città come ‘teatro’

Come già anticipato, obiettivo di questo lavoro è osservare come la forma della città di Catania sia stata migliorata e riorganizzata nel corso della ricostruzione in base anche alla configurazione della festa di Sant’Agata. Nell’architettura scenica della festa, che implica vari tipi di pratiche simboliche e rituali, le processioni religiose ‘plasmano’ lo spazio urbano e rendono visibile la coesione simbolica della comunità, giacché gli abitanti di un territorio ‘occupano’ fisicamente e acusticamente il territorio e lo modellano attraverso pratiche pubbliche che, nel tempo, delineano contesti di produzione e fruizione culturale. Qui strettissima appare la relazione che intercorre tra ritualità e musica: essa svolge un ruolo primario sia nel cerimoniale festivo all’aperto che in quello al chiuso; è elemento fondamentale nel gioco intellettuale di percezione e figurazione del decoro cittadino.[19]

Cartina di tornasole per tale indagine si è rivelata una fonte fino a poco tempo fa inedita,[20] ricca d’informazioni che aiutano a mettere a fuoco la rinascita di Catania a meno di cento anni dal devastante terremoto del 1693: si tratta dell’Avviso per il festino agatino del 1769, un dettagliato protocollo celebrativo pubblicato per commemorare la ricorrenza di un altro evento distruttivo, ossia «l’orribile memorando incendio di Etna, accaduto l’anno 1669».[21] A cento anni da questo tragico avvenimento, il Senato cittadino sfrutta l’occasione di esibire la propria capacità di resilienza alle avversità mobilitando forze e predisponendo accuratamente l’architettura spaziale e scenica della festa al fine di tracciare l’orizzonte estetico nel quale collocare la compiuta rinascita della città, «con dimostranze di giubilo e di allegrezza […] con magnifica pompa […], per lo giro di sei giorni continui, con lieti applausi, con ricchissimi apparati, con singolari festini […]

Ciò che si allestì nello spazio urbano entro le mura nell’agosto del 1769 fu pertanto un enorme iper-testo degli apparati, politici, civili e religiosi presenti nel territorio etneo: una città come un grande palcoscenico en plein air. I dettagli scenografici trasformarono una parte dello spazio urbano in un grande “teatro delle meraviglie”: un’immensa scena mobile della devozione cittadina realizzata attraverso l’impiego di «diversi Teatri d’Invenzioni» (detti anche trasparenti, cioè tele dipinte che venivano illuminate da dietro) raffiguranti le fasi della vita e del martirio di sant’Agata, eretti davanti ai principali conventi monasteri chiese e confraternite (monastero di S. Chiara, confraternita di S. Giovanni Battista, monastero delle moniali della SS. Trinità, convento di S. Agostino, convento dei Reali Padri di S. Francesco d’Assisi, convento di S. Benedetto, convento di S. Giuliano, confraternita dei preti sotto titolo dell’Addolorata, chierici regolari minori di S. Michele, monastero delle moniali di S. Agata, monastero delle moniali di S. Placido, S. Agata alle sciare) (Fig. 2). Elementi ludici e competitivi – le corse dei cavalli, le luminarie – si alternarono ai momenti solenni delle processioni e delle celebrazioni della messa in Cattedrale. Fulcro della ritualità cittadina furono i cortei e le processioni: essi ridisegnarono lo spazio urbano e resero visibile la coesione simbolica della comunità nell’architettura scenica della festa che prevedeva magnifica illuminazione nei più importanti snodi viari (Piano del Duomo, Piano dell’Università, Quattro Canti, Porta del mare, Porta di Aci e Porta Ferdinanda) attrezzati «con nobili arredi, con magnifiche tappezzerie e con ricchissimi apparati pomposamente adorni» in vista di un sì «ammirevole e giocondo spettacolo» per la presenza di «varie macchine e piramidi di diversa architettura» che, «ben disposte e ricchissime di lume», furono poste davanti al Palazzo dell’Università, al Palazzo del Senato, nella Piazza di San Filippo, innanzi all’Ospedale di S. Marco, nel Piano della Loggia innanzi al Duomo e nel Piano dei Quattro Cantoni (Fig. 3).

Fondamentale e funzionale il ruolo della musica: lieti intrattenimenti tenuti dai «virtuosi», che suonarono «varie coppie di strumenti per mantenere sempre viva l’allegria popolare», si replicarono in tutti i giorni del festino nelle «Orchestre» (ossia palchi lignei) davanti al Palazzo Senatorio; rappresentazione nel Piano dell’Università di «un allusivo Dialogo in onore di S. Agata» composto per l’occasione ed eseguito da scelti «virtuosi forastieri» con lintervento di tutta la Nobiltà e Popolo; il Carro trionfale seguito dalla «numerosa ciurma degli strumentisti del Senato», con dentro «parecchi cori di voci e di strumenti», diffuse melodici canti in onore dellinvitta gloriosa vergine e martire SantAgata nei sei giorni del festino. Appare significativa la diversa dislocazione delle scene per il teatro in musica: se loccasione musicale dedicata al sacro (il Dialogo) è davanti al portone dell’ateneo, il melodramma va in scena nel Piano della Marina, dove verosimilmente venne eretto un teatro ligneo «per rappresentarvi da forastieri e scelti Virtuosi le opere in musica» (Fig. 4).

Non si tratta di una scelta casuale: la valorizzazione di questa parte del territorio aveva una componente sostanziale nel magnifico prospetto del Palazzo di Ignazio Paternò Castello, V principe di Biscari (1719-1786); e non solo, perché all’ampio spazio che si affaccia sul mare vanno ricondotti i ‘punti fermi’ del suo ambizioso programma politico-culturale,[22] sostanziati nel progetto per la costruzione del porto catanese e di una passeggiata alla Marina, sontuosa come quella palermitana, nonché nell’erezione della porta Ferdinanda (Fig. 5).

Costruita nel 1768 su progetto dell’architetto polacco Stefano Ittar (1724-1790), in occasione delle nozze di Ferdinando IV di Borbone con e Maria Carolina d’Asburgo (da qui il nome di porta Ferdinanda), essa è imponente nella struttura, in linea con lo stile architettonico della città per la presenza del bicromatismo di pietra nera e bianca, e racchiude in sé alcuni segni dalla forte carica simbolica: dall’elefante della Platea magna, alla fenice, l’uccello mitologico che risorge dalle sue ceneri. Osservando oggi la sommità del monumento si coglie un grande orologio: in origine, in sua vece, si poteva ammirare un grande cameo con incisi i ritratti di Ferdinando e Maria Carolina.[23] Le narrazioni popolari rivelano che il Principe di Biscari volle costruire proprio in quel punto la porta affinché i due regnanti potessero osservare, ponendosi di fronte all’arco e guardando in basso verso la via San Filippo (poi strada Ferdinanda), la cattedrale di Sant’Agata. È verosimile supporre, invece, che il taglio ortogonale di quellarteria fosse soltanto unulteriore traccia del progetto riedificatorio. Nondimeno, una traccia di quell’antico sopravvive al tempo: l’iscrizione posta nel timpano della porta restituisce il motto Melior de cinere surgo. Ora come allora, esso indica i caratteri identitari di una città resiliente, che nonostante le avversità risorge più bella di prima.

 

 

 

 

 


[1] Relazione dell’orribile terremoto. Seguito nell’Isola di Sicilia il dì 11 gennaio 1693. Colla nota delle Città e Terre, sprofondate, de’ mari. E luoghi che hanno patito e con tutte le particolarità più degne di essere registrate. Aggiuntovi l’Orazione contro il terremoto, Roma, Bisagni, 1693, c. 213r.

[2] Mi riferisco al progetto sulla Storia di Catania, diretto da Giuseppe Giarrizzo, con la pubblicazione dei seguenti quattro volumi per i tipi della DSE, Catania: 1. Catania. La città, la sua storia, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo, 2007; 2. L’identità urbana dall’antichità al Settecento, a cura di Lina Scalisi, 2009; 3. La grande Catania. La nobiltà virtuosa, la borghesia operosa, a cura di E. Iachello, 2010; 4. La città moderna, la città contemporanea, a cura di G. Giarrizzo, 2012.

[3] Cfr. G. Pagnano, Melior de cinere surgo. Catania 1693-1790, in La grande Catania. La nobiltà virtuosa, la borghesia operosa, cit., pp. 71-87.

[4] Cfr. S. Condorelli, U tirrimotu ranni. Lectures du tremblement de terre de Sicile de 1693, diss. dott., École des Hautes Études en Sciences Sociales-Paris, Parigi, 2011, p. 286 sg.

[5] G. Longhitano, Studi di storia della popolazione siciliana. I Riveli, numerazioni, censimenti (1569-1861), Catania, CUECM, 1998, p. 153.

[6] Su questi aspetti della ritualità urbana sia consentito rinviare a M.R. De Luca, Musica e cultura urbana nel Settecento a Catania, Firenze, Olschki, 2012.

[7] Sul progetto riedificatorio della città, cfr. G. Dato, La città di Catania. Forma e struttura 1693-1833, Roma, Officina Edizioni, 1983, pp. 23-112, ma soprattutto i contributi di E. Magnano di San Lio, Maestranze ed architetti nella Catania del Settecento, in La grande Catania. La nobiltà virtuosa, la borghesia operosa, cit., pp. 31-49 e di S. Condorelli, The Reconstruction of Catania after the Earthquake of 1693, in The Second International Congress on Construction History, I, Exeter, Short Run Press, 2006, pp. 799-816.

[8] Secondo Giuseppe Pagnano, il piano della Catania post-terremoto è un esempio di «urbanistica paleo-razionalista che, nell’attenzione alle gerarchie funzionali delle sue parti, supera i moduli scenografici dell’urbanistica tardo-barocca. Molte esperienze filtrano nel piano: le disposizioni di Filippo II con il loro interesse per la partizione geometrica delle città; la esperienza delle città di fondazione siciliane dei secoli XVI e XVII; il simbolismo delle croci di strade sovrapposte al tessuto preesistente, come a Messina e a Palermo; il ricordo delle plazas majores spagnole e delle places royales parigine. Il piano […] potrebbe non essere stato oggetto di un grafico poiché la sua forma deriva dalla rete di strade principali tracciate sul campo di macerie – legando in linea retta due porte urbane con la facciata della cattedrale (le strade S. Filippo e Uceda) e tracciandone altre due ad incrociare la strada Uceda (il corso e la strada Lanza non ortagonale però alla Uceda) […].» (G. Pagnano, Melior de cinere surgo. Catania 1693-1790, cit., p. 72).

[9] P. Carrera, Delle memorie historiche della Città di Catania, vol. II, Catania, Rossi, 1639-1641, p. 508; un’altra efficace descrizione della festa agatina seicentesca è in G. B. Guarneri, Le zolle historiche catanee, Catania, Rossi, 1651, pp. 189-242. Un commento alle fonti antiche si legge nel paragrafo redatto da A. Rotondo, La simbolica, il sacro, Agata, in La grande Catania. La nobiltà virtuosa, la borghesia operosa, cit., pp. 19-23.

[10] Il Liber cerimoniarum di Alvaro Paternò è trascritto e pubblicato da R. Di Liberto, La Festa di S. Agata a Catania nel “Cerimoniale” di Alvaro Paternò (sec. XVI), «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», IV, 1952, pp. 19-27.

[11] Il termine “luminaria” non va riferito ai ceri accesi, giacché la processione veniva fatta in pieno giorno e con i ceri spenti, ma all’offerta della cera da parte dei cittadini per illuminare l’altare di sant’Agata.

[12] P. Carrera, Delle memorie historiche della Città di Catania, cit., p. 512.

[13] Ivi, p. 512 sg.

[14] Ivi, p. 520 sg. Un approfondito resoconto degli apparati musicali in occasione della festa nel Sei-Settecento, si legge in M. R. De Luca, Musica e cultura urbana nel Settecento a Catania, cit., pp. 2-8, 21-66, 74-80.

[15] G. T. Longobardo, Il trionfo. Poema della festa di S. Agata Vergine e Martire nella città di Catania, Catania, Rossi, 1628, p. 94.

[16] Cfr. ASD, Officia propria Sanctorum Ecclesiae Catanensis […] jussu domini D. Salvatoris Vintimilii, Catanae, Typis Seminarii, 1770, pp. III-VIII; ASD, Officia propria Sanctorum Ecclesiae Catanensis […] jussu domini D. Conradi M. Deodato de Moncada, Catania, Pastore, 1792, pp. V-VIII.

[17] Il calendario delle occasioni festive riconosciute dal Senato catanese nel secondo ’700 è riprodotto nella Perpetua votivarum supplicationum quae a S.P.Q.C. quotannis peraguntur tabula del 1761 apposta nella parete laterale destra del Palazzo del Senato catanese. Il testo della Tabula si legge in G. Rasà Napoli, Guida e breve illustrazione delle Chiese di Catania e sobborghi, con tutte le epigrafi latine tradotte in italiano e con l’aggiunta dei nomi dei Pontefici romani da S. Pietro ai di nostri con l’anno della loro elezione e tabella cronologica dei Vescovi di Catania, Catania, Galati, 1900, pp. 308-310.

[18] Cfr. A. Toscano Deodati, Catania e Sant’Agata, Catania, Ospizio di Beneficenza, 1959.

[19] Su questo particolare aspetto cfr. M. R. De luca, G. Sanfratello, ‘Shaping sacred spaces: the feast of St Agatha and the development of its urban rituality’, «Quadrivium. Revista Digital de Musicologia», 10, 2019, pp. 1-10. Si veda anche S.M. Calogero, La festa di Sant’Agata e le trasformazioni della città di Catania dal Cinquecento ad oggi, Catania, Editoriale Agorà, 2019.

[20] Cfr. Distribuzione de’ giorni festivi Dedicati alla Solennità della Gloriosa Vergine e Protomartire Catanese S. Agata da farsi in questo corrente Anno 1769, Catania, Bisagni, 1769 (in I-CATc, Misc.A 299.47). La trascrizione integrale del testo si legge in M. R. De Luca, Musica e cultura urbana, cit., Appendice 4 (pp. 168-173).

[21] Tutte le parti virgolettate sono tratte da distribuzione | de’ giorni festivi | Dedicati alla Solennità della Gloriosa Vergine | e Protomartire Catanese | s. agata | Da farsi in questo corrente Anno 1769 | Disposta dall’Illustrissimo | senato | […] in catania nella corte senatoria | nelle Stampe del Dottor Bisagni | Con Licenza de’ Superiori (I-CATc, Misc. A.299.47).

[22] Per un profilo di Ignazio V Principe di Biscari e il suo ambizioso programma, cfr. M. R. De Luca, Musica e cultura urbana, cit., pp. 86-98.

[23] Sulla costruzione di Porta Ferdinanda, cfr. G. Dato, La città di Catania. Forma e struttura 1693-1833, cit., pp. 113-117.


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