L’invisibilità del corpo proprio in Merleau-Ponty

di Matteo Negro

 

La percezione del corpo proprio o corpo vissuto è un tema assolutamente centrale, su cui si innesta l’intera costruzione fenomenologica di Merleau-Ponty attorno al problema della percezione. L’ambiguità insuperabile della relazione tra interiorità ed esteriorità, nel modo proprio in cui il soggetto si percepisce come interiorità di un’esteriorità e come esteriorità di un’interiorità, è il contrassegno del Leib in quanto unità dell’essere “vedente-visibile”. Il corpo vedente è visibile all’altro ma non a se stesso. Nessuno può vedersi: in questa lacuna, nell’invisibilità propria che alcuna riflessività può risolvere, se non distaccandosi cartesianamente dall’essere, si riversa lo sguardo altrui, al cui cospetto è possibile ricostituire l’interiorità altrimenti impossibile. Il percorso di Merleau-Ponty non è però lineare: le tappe della sua evoluzione sono contrassegnate da un progressivo distanziamento dalle posizioni husserliane, in particolare dalle nozioni di costituzione e intenzionalità, per convergere infine verso un pensiero dell’incarnazione. In questa sede, anche per ragioni di spazio, non si tenterà una ricostruzione minuziosa di questo itinerario, non privo di una certa complessità: più teoreticamente l’interesse è qui rivolto ad alcune sporgenze particolarmente emblematiche, e di queste si darà conto. Com’è noto, le opere paradigmatiche che delimitano significativamente le due fasi del percorso sono Fenomenologia della percezione del 1945 – che poggia su La struttura del comportamento del 1942 – e Il visibile e l’invisibile, pubblicato postumo nel 1964. Accanto a queste, lungo un itinerario per l’appunto non lineare, una miriade di scritti, molti dei quali ancora inediti, recano la traccia di una ricerca inesausta, pungolata di continuo da un’inquietudine irrisolta. Certo, impressionano il tono e il registro di uno scritto degli inizi, Christianisme et ressentiment, del 1935, una recensione all’edizione francese de L’uomo del risentimento di Max Scheler: qui l’inquietudine cova sotto la superficie dell’apparente sicurezza sfoggiata da Merleau-Ponty prima della sua crisi religiosa; tuttavia, già in queste pagine giovanili traspaiono la sensibilità e l’interesse per il tema della percezione insieme al rigetto delle soluzioni dell’empirismo e dell’idealismo.[1] In un saggio della maturità – testo preparato per una conferenza – per alcuni versi ricollegabile idealmente al precedente, L’homme et l’adversité, pubblicato nel 1952 e successivamente incluso in Signes (1960), sono condensate ulteriori riflessioni sull’intreccio di spirito e corpo e sull’estromissione dal senso comune, grazie anche alla psicoanalisi freudiana, dell’immagine di una corporeità esclusivamente meccanica: «Alla fine del XIX secolo, per molti pensatori il corpo era un frammento di materia, un fascio di meccanismo. Il nostro secolo ha rinnovato e approfondito la nozione della carne, cioè del corpo animato».[2] Dalla compenetrazione di corpo e spirito, di esterno e interno, consegue che «tutti i nostri gesti partecipano a modo loro a quest’unica attività di esplicitazione e di significazione che è noi stessi».[3] Uno dei corollari – oggetto peraltro di ulteriori sviluppi nelle opere successive – speculare al rifiuto del paradigma unico della fisiologia meccanicistica, è il rifiuto dell’introspezione come metodo di conoscenza dell’io: se il corpo e lo spirito si compenetrano, sconfinando l’uno nell’altro, vanno ripensate proprio le categorie di corpo e spirito, nei termini in cui si sono evolute nel corso dei secoli, ma vanno parimenti ripensati i metodi di indagine loro rivolti. Venendo meno l’introspezione, permane per intero la questione del come il soggetto corporeo possa conoscersi, e di quali forme debba assumere la sua auto-osservazione. Si rendono evidenti tutte le asperità di un’auto-conoscenza di sé come auto-conoscenza corporea: le insormontabili lacune di cui un simile percorso è costellato sono riconducibili alla presenza di punti ciechi, all’incostanza percettiva di un corpo che non può essere osservato dal soggetto nel suo osservare il mondo. Una difficoltà di principio, dunque, e non appena la limitazione nell’osservazione di “parti” del corpo permanentemente escluse dal campo visivo (il proprio volto, il collo o la schiena). Il metodo sembrerebbe pertanto essere indiretto: spetta all’altro vedermi e in questo vedermi dell’altro posso rispecchiarmi, ritrovare la mia immagine riflessa. Qui Merleau-Ponty raccoglie l’intuizione di Paul Valéry: «Tu non sei me, poiché tu mi vedi e io non mi vedo. Ciò che mi manca, è questo me che tu vedi. E a te, manca il te che io vedo. Nella misura stessa in cui progrediamo nella conoscenza reciproca, noi ci riflettiamo, saremo altri».[4] Le difficoltà, tuttavia, non accennano a giungere ad un punto di arresto. L’altro, infatti, coglie nello spazio la mia corporeità, facendola sua, attraendola al centro di sé, ma non è in grado di cogliere la mia passività, ovvero il carattere che qualifica il mio corpo come corpo che, al di qua dello spazio visivo o tattile, percepisco mio, e da cui l’io non può essere sottratto, se non riflessivamente.[5] Il noto esempio illustrativo delle mani che si incrociano rimbalza da Fenomenologia della percezione e pone in un certo senso le premesse della questione. È il caso di riprenderlo in dettaglio.

Il mio corpo visivo è sì oggetto nelle parti lontane dalla mia testa, ma a mano a mano che ci si avvicina agli occhi, esso si separa dagli oggetti, dispone in mezzo agli oggetti un quasi-spazio in cui questi non hanno accesso, e quando voglio colmare questo vuoto ricorrendo all’immagine dello specchio, tale immagine mi rinvia ancora a un originale del corpo che non è laggiù, fra le cose, ma dalla mia parte, al di qua di ogni visione. Nonostante le apparenze, ciò vale anche per il mio corpo tattile, giacché, se posso palpare con la mano sinistra la mano destra mentre tocca un oggetto, la mano destra oggetto non è la mano destra che tocca; la prima è un intreccio di ossa, muscoli e di carne schiacciato in un punto dello spazio, la seconda attraversa lo spazio come un razzo per andare a rivelare l’oggetto esterno nella sua sede. In quanto vede o tocca il mondo, il mio corpo non può quindi essere visto o toccato. Esso non è mai un oggetto, non è mai “completamente costituito”, proprio perché è ciò grazie a cui vi sono degli oggetti. Non è né tangibile né visibile nella misura in cui è corpo che vede e che tocca [...] Quando premo una mano contro l’altra, non si tratta quindi di due sensazioni che proverei insieme, come si percepiscono due oggetti giustapposti, ma di un’organizzazione ambigua in cui le due mani possono alternarsi nella funzione di “toccante” e di “toccata”.[6]

L’ambiguità dell’organizzazione è strutturale, così come pure, per derivazione, l’insostituibilità delle funzioni che attraversano il corpo, oscillando dal soggettivo all’oggettivo. Una tale ambiguità solo di riflesso appartiene all’esperienza altrui. L’altro non coglie il mio corpo se non nell’ambiguità del proprio, assumendolo come suo, ma mai come mio.[7] Da qui, la revocabilità del rispecchiamento e la persistenza di un punto cieco irrappresentabile dall’esterno come già dall’interno. Il progressivo allontanamento dall’intenzionalità husserliana, consumato definitivamente nell’ultima fase dell’indagine merleau-pontiana, ha delle radici ben profonde. Il riempimento intenzionale è pur sempre l’approdo di una postura che il soggetto assume di fronte al mondo come di fronte a se stesso, in un’orizzontalità che, pur non negando la trascendenza, riduce noematicamente il mondo a quello che deve essere, senza punti oscuri. La percezione appare invece più intensamente come un’esperienza di trascendenza radicale, contrassegnata da una negatività irriducibile: essa può essere compresa, per dirla con Agata Zielinski, come percezione “infinita” della trascendenza “indefinita” del mondo, e quindi, in quanto tale, come una delle forme del desiderio.[8]

Della maturazione della riflessione di Merleau-Ponty Il visibile e l’invisibile è traccia indiscutibile. Di quest’opera incompiuta abbiamo il manoscritto, pubblicato da Claude Lefort nel 1964 insieme all’ingente mole di notes de travail, annesse a seguito di un’accurata selezione orientata secondo un criterio di coerenza con i capitoli ritrovati. Qui, Merleau-Ponty acutizza, nei toni e nelle tinte testuali, la riflessione sull’invisibilità. Io e l’altro restiamo reciprocamente inaccessibili e invisibili:

Se veramente l’altro è altro, cioè un Per Sé nel senso forte in cui io lo sono per me, è necessario che non lo sia mai ai miei occhi, bisogna che quest’altro Per Sé non cada mai sotto il mio sguardo, bisogna che non vi sia percezione dell’altro, bisogna che l’altro sia la mia negazione o la mia distruzione. Ogni altra interpretazione, con il pretesto di collocarci, lui ed io, nel medesimo universo di pensiero, rovina l’alterità dell’altro, e segna dunque il trionfo di un solipsismo mascherato.[9]

Io e l’altro siamo pura trascendenza: perennemente esclusi dal recinto delle cose. Il corpo «vede il mondo stesso, il mondo di tutti, e senza dover uscire da “sé”».[10] Se il mondo e il corpo sono “carne” (chair), un’unica carne, i limiti tra corpo e mondo degradano fino a scomparire del tutto nel grand spectacle, nella partecipazione al visibile che coinvolge anche il mio corpo invisibile. La visibilità non è quindi più del corpo in quanto oggetto del mondo ma appartiene alla carne in cui corpo e mondo si incastrano, dando forma a un tutt’uno senza esteriorità.[11] La Visibilità trascende le cose visibili, che, negandosi inesorabilmente allo sguardo, ritornano visibili fuori dal corpo e dal mondo dei fatti, come in un gioco di specchi posti l’uno di fronte all’altro si crea una serie indefinita di immagini incastonate, non appartenenti a nessuna delle due superfici: nulla di estraneo a quell’immagine riflessa, a quella passività irriducibile, può prendere il sopravvento. Tutta la consistenza di quel fenomeno è attività che si sperde nella passività, nell’essere catturati e afferrati dal gioco del visibile, «sicché vedente e visibile si reciprocano e non si sa più chi vede e chi è visto. È questa Visibilità, questa generalità del Sensibile in sé, questo anonimato innato di Me-stesso che poc’anzi chiamavamo carne, e si sa che nella filosofia tradizionale non abbiamo un nome per designarlo».[12] La carne è la nuova categoria che interviene a suggellare per differentiam (nel senso di differenza richiamato da Ricœur, che è quello della chiarificazione fenomenologica) l’insufficienza dell’ontologia classica, ancorata com’era all’eteronomia dell’oggetto e del soggetto e alle fictiones dell’intenzionalità. La lacuna della visione, l’adombramento, la parzialità e l’invisibilità, sono d’incanto sostituiti e giustificati dalla coesione della visibilità in sé della carne, e con ciò il solipsismo è scongiurato:

Per la prima volta, il vedente che io sono mi è davvero visibile; per la prima volta, appaio a me stesso rivoltato sino in fondo sotto i miei occhi [...] vedo che, nel suo accoppiamento con la carne del mondo, il corpo apporta più di quanto non riceva, aggiungendo al mondo che vedo il tesoro necessario di ciò che vede, se stesso.[13]

Il mondo è dunque un campo aperto, trascende se stesso nell’intreccio con il corpo, e il corpo invisibile acquista la visibilità nella verticalità della carne, che è Weltlichkeit des esprits: non nello spazio cartesiano, ma nel mondo estetico. Tra gli appunti delle Notes de travail che vanno dalla fine del 1959 in avanti, troviamo annotato l’esplicito riferimento alla dimensione della verticalità, alla rozzezza dell’Essere selvaggio e indistinto[14] che si svela nella trascendenza e non nell’intenzionalità: «Se l’essere deve disvelarsi, sarà dinanzi a una trascendenza, e non dinanzi a un’intenzionalità, sarà l’essere grezzo impantanato che ritorna a se stesso, sarà il sensibile che è cavo [qui se creuse]».[15] Nessuna contradditorietà tra il visibile e l’invisibile: l’invisibile è inscritto nel visibile e, fregiandosi della sua irrappresentabilità, è ciò in cui continuamente sconfina il visibile, di cui decreta il limite costitutivo, è la giunzione dei campi fenomenici incomparabili e inoggettivabili di cui si sostanzia l’essere. Il mondo estetico della carne è lo spazio topologico della trascendenza e della deiscenza:[16] «un Essere d’infrastruttura che, in ultima analisi, non ha la sua Erfüllung che nella Weltthesis di questo mondo qui».[17] È uno spazio in cui la verticalità dell’essere è leggibile come negatività, come fessurazione originaria del visibile su cui la coscienza non ha alcuna presa, giacché essa nel suo defatigante sforzo di riempire i vuoti e colmare le lacune intende com-prendere geometricamente le compossibilità, assorbendo la trascendenza nelle modalità dell’immanenza e neutralizzando così la topologia del percepito. La trascendenza non va intesa come negatività in senso logico, dal momento che essa non nega qualcosa di più originario (un visibile obiettivo): per Merleau-Ponty la negazione è riferimento negativo o nullo, da qualificare piuttosto come scarto (écart). Nulla è infatti da indicare che non sia modalità della stessa trascendenza: ogni indicazione determinativa scompone lo spazio topologico in parti, riducendolo analiticamente a qualcosa di più essenziale e amputandolo della sua visibilità.[18] Quindi, se volessimo schematizzare sulla falsariga di Fenomenologia della percezione, potremmo dire che nella carne del visibile il riferimento è il corpo che percepisce, che vede e tocca, ma essendo esso il punto cieco trascendente del visibile, non può essere indicato e, di conseguenza, la sua referenzialità è nulla. In quanto carne, cioè in quanto incastrato nel mondo, quel corpo è la cornice dell’essere percepito, ma non è parte localizzabile o “regionalizzabile”: la sostanza del mondo rifluisce nella passività del corpo che reatroagisce sul mondo nell’attività del mondo stesso, in uno scambio di reciproca donazione. In quanto mondo rispecchiato esso non contiene separatamente il corpo proprio e gli altri corpi: così, indicando il cubo, è come se indicassi me, che ne sono la trascendenza ultima inindicabile; indicando la sedia o il tramonto, dovrei riferirmi a me, che ne sono la cornice, l’eccesso infigurabile e al contempo inaggirabile. Non la sedia è il vero riferimento, né il cubo, né il tramonto, giacché essi permangono nei loro continui adombramenti invisibili e impercepiti: il riferimento è assente, sfugge perché si sfalda, deflagra nel campo dell’essere.[19] E, ancor più profondamente, il creux o l’écart della carne non è letteralmente il vide, non è cioè lo spazio involgente prospetticamente sia il soggetto in quanto oggetto sia gli altri oggetti, ma permane come segno della pienezza irrappresentabile della carne medesima, della reversibilità inarrestabile di attività-passività, e dell’insorvolabilità del visibile. Due mesi prima della sua scomparsa annotava: «Non è un visibile tronco. È un visibile-archetipo, – e non potrebbe esserlo se fosse sorvolabile»,[20] cioè se afferrato da una situazione esterna al visibile stesso, al percepito. Il pensiero di “sorvolo” è, propriamente parlando, il pensiero scientifico – dichiarerà in quel capolavoro assoluto che

 

 

è L’occhio e lo spirito, anch’esso apparso qualche anno dopo la sua morte[21] –, che può esclusivamente inseguire e non proseguire il darsi originario e paradossale del corpo proprio nel tessuto del mondo:

Visibile e mobile, il mio corpo è annoverabile fra le cose, è una di esse, è preso nel tessuto del mondo e la sua coesione è quella di una cosa. Ma poiché vede e si muove, tiene le cose in cerchio intorno a sé, le cose sono un suo annesso o un suo prolungamento, sono incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena definizione, e il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo. Questi capovolgimenti, queste antinomie sono modi diversi di dire che la visione è presa, o si fa, nel mezzo delle cose, là dove un visibile incomincia a vedere, diventa visibile per se stesso e grazie alla visione di tutte le cose, là dove persiste, come l’acqua madre nel cristallo, l’indivisa comunione del senziente e del sentito.[22]

In quell’opera si dipana una fine riflessione su percezione ed espressione artistica. Nella pittura di Cézanne prende vita la raffigurazione plastica del gioco di visibilità segreta e manifesta, di visibile totale e parziale. Il quadro non evoca nulla ma esibisce quel che chiama all’esistenza; non espelle, bensì ingloba tutta la voluminosità del suo mondo: «raffigura e amplifica la struttura metafisica della nostra carne».[23] Il quadro non è però metafora: non c’è traslazione di senso, perché il senso è intrasferibile, oltre che infigurabile.[24] Il quadro è Dasein: «L’infigurabile, infatti non esiste in sé, come un mondo occulto. Esso [...] accade sempre in figura come l’infigurabile della figura o l’invisibile del visibile. Il Dasein è il luogo della raffigurazione, il punto cieco del visibile».[25] L’invisibile si mostra e vive nel visibile, costituendone il limite, la cornice, lo sfondo impercepito nell’opera pittorica come nella carne dell’essere. Precisa bene Françoise Dastur che questo passaggio si è consumato embrionalmente già in Husserl: l’intenzionalità fungente (fungierende Intentionalität) ha preso il sopravvento sull’intenzionalità degli atti, benché la centralità della coscienza trascendentale non lasci presagire possibili evoluzioni verso l’intenzionalità in quanto carne. Così come la Leiblichkeit del corpo fenomenico in Husserl non preannuncia ancora l’estensione della reversibilità di sentito e senziente alla totalità dell’essere.[26] Se infatti la carne fosse solo attività, potere di sentire, potremmo interpretarla come sensibilità latente: essere e sentire coinciderebbero, ma perderemmo l’altro foglio dell’essere, la trama del percipi. La potenza del puro sentire non recherebbe in sé alcuna luce, alcun riflesso, alcun rispecchiamento, alcuna trascendenza. Un sentire senza percipi implicherebbe, in ultima analisi, estraneità all’essere. Se, davvero per assurdo, separassi la potenza del percepire dall’essere percepito, e percepissi così senza mondo, senza mai essere abbagliato, guardato, urtato o toccato, neanche da me stesso, senza prendere coscienza di me come passività, non potrei poi neppure obiettivarmi e obiettivare l’altro. Senza corpo proprio, non c’è più corpo, non c’è ormai mondo e, in definitiva, non v’è potere di sentire, giacché il potere si misura dal contatto con altro, in quanto altro vi si infrange, resiste o si deforma. E in assenza di forza, nessun movimento e nessuna quiete, e nessuna percezione, si danno. Abolendosi la passività, si abolisce la distanza e ogni albeggiamento. Nella carne dell’essere, invece, attività e passività si congiungono, sfregandosi, sconfinando l’una nell’altra senza mai aderire del tutto, senza mai sfociare nell’identità: l’identità le renderebbe biunivocamente corrispondenti. Nel chiasma della carne esse continuano a sussistere senza esteriorità, sfalsate e reciprocamente eccedenti, sicché l’attesa e il riempimento non vengono mai meno, compenetrandosi infinitamente senza coincidere del tutto. Tale sentire pre-obiettivo, metafisico, è una fede percettiva, una Urdoxa, e non ancora una conoscenza. Osserva bene Dastur: «il sensibile non è “accanto” o “sotto” l’intelligibile, esso è transitivamente l’intelligibile, ed è la ragione per cui sarebbe preferibile parlare qui in termini di visibile e di invisibile: il visibile diviene l’invisibile, come parimenti l’invisibile è sempre l’in-visibile del visibile ed è di conseguenza accessibile non appena si dà vedere, e non solamente in virtù del puro pensiero».[27]

Quella di Merleau-Ponty è una “intra-ontologia” o, come si è ritenuto, un’ontologia indiretta: più precisamente forse, una Ontologie des “wilden” oder “rohen” Seins, che coglie l’essere nella promiscuità e mette in rapporto la Lebenswelt con temi tradizionalmente estranei, se non addirittura in contrasto con gli assi portanti della fenomenologia.[28] Di follie della visione ha scritto ben a ragione Michel de Certeau; Marc Richir ha accennato al “concetto bastardo” della carne, equiparata alla chōra del Timeo platonico. Tuttavia, il dato più sorprendente da trattenere, in questa configurazione ontologica, è il porsi paradossale della presenza come assenza, elemento che ci consente di curvarci, in epilogo, sullo strano statuto del corpo proprio e sulla sua presenza iperdialettica nel campo della carne. Renaud Barbaras ha afferrato con precisione il nodo del problema, lì dove riconosce che

la tangibilità del corpo toccante corrisponde all’invisibilità della dimensione che dispiega: non c’è tatto che come dimensione segreta dei tangibili, e il corpo proprio non sfugge a questa legge. In quanto un toccare si produce in esso, e perché vi si produca, il corpo proprio deve rimanere esso stesso tangibile, essere anch’esso  una modalità di cristallizzazione di una dimensione che si offre altrove e altrimenti. In questo il corpo è del mondo, è preso nella dimensione che dispiega, si fa tangibile perché per suo tramite accada un mondo tattile. In breve, i sensi possono fare apparire solo se sono già una modalità di cristallizzazione della dimensione secondo cui essi fanno apparire. Quel che vale per il tatto vale per il rapporto tra tatto e visione e, in senso generale, per il rapporto dei sensi tra loro.[29]

In filigrana, traluce il debito del mondo rispetto al corpo proprio, alla sua particolare offerta di mondo – in virtù del suo stesso essere mondo – al mondo. Il corpo proprio offre sé al mondo, la sua invisibilità e oscurità, affinché quello sia visibile: ne è la profondità, il Nullpunkt di ogni dimensione. L’assenza è la specifica modalità di donazione al mondo entro cui si dà la sua apparizione: l’assenza non nega la presenza, ma ne è il fondo incolmabile, la trascendenza. È lo spazio non topologico cartesiano a rimanere indenne da ogni profondità e trascendenza; dal suo orizzonte niente però ci guarda, si rivolge a noi e alla nostra attesa di mondo: non vi abitano cose, ma oggetti staccati dal fondo dell’essere. Le cose hanno per Merleau-Ponty un fondo di inaccessibilità, di non-manipolabilità: esse resistono. Qui s’insedia la più tardiva reazione anti-piagetiana (oltre che, com’è noto, quella, vigorosa, alla negatività sartriana e, in definitiva, gnostica) raggrumata nella riflessione sulle “ultra-cose”, richiamata con grande cura da Emmanuel de Saint Aubert, attento studioso delle carte inedite, che così chiosa: «L’ultra-cosa [...] diviene l’assoluto onirico dell’inesauribile, di ciò al di là del quale vi sarà sempre di più da percepire, da comprendere e da desiderare. L’inaccessibile si fa “profondità”, l’inosservabile si fa “invisibile” nel suo senso merleau-pontiano: latente e pregnante “avvolgimento di un attuale inaccessibile nell’attuale accessibile – è lì adesso [...] si prepara a farsi vedere”».[30] La percezione non richiede dunque la pienezza dell’osservazione (come del tatto): l’imperscrutabilità resta insuperabile,[31] ma è paradossalmente l’unica strada per guadagnare il visible: «Per essere percepita, la cosa non attende di essere perfettamente distaccata dal fondo da cui emerge: essa è percepita mentre è ancora presa nella profondità e negli orizzonti».[32] Ed è lo stesso Merleau-Ponty a darcene conto: «Paradosso: la cosa c’è, la vedo, raccolta in se stessa, leibhaft, e in principio questa pienezza non è visibile che da lontano: da vicino non vi sono mai che degli aspetti. Tutte le cose sono “ultra-cose”, fuori dalla nostra portata, nel “lontano” ed è di questa assenza che sono reso certo dalla loro presenza».[33] La cosa, facendosi carne, non perde resistenza né profondità: la tessitura della carne è l’ultracosalità. Noi stessi, nella carne, condividiamo questo destino, esprimendolo nella risposta inesauribile del desiderio: sollecitati dalle ultra-cose, siamo resi ultra-cose, e a questo titolo guadagnamo la visibilità e la tangibilità della carne. Così si rende palese, constata Zielinski, che «[l]a carne è il modo di donazione di un sempre di piùdel mondo. Ma è perché essa dona nella forma di ciò che manca, di ciò che è assente, che il di più è possibile: la carne rende possibile la donazione del di più nel di meno – inesauribile perché mai interamente manifestata. La negatività raccoglie così eccesso e assenza».[34] Negatività come trascendenza, e non come negazione. La carne, nell’ontologia di Merleau-Ponty, è scambio, donazione di senso, tra attività e passività, tra interno ed esterno, tra corpo e mondo: in quanto tale, nella sua promiscuità e infinità, essa è garanzia della visibilità del corpo proprio e delle cose e, come corollario, del darsi di ogni campo dell’esperienza, dalla comunicazione alla relazionalità e alla politica, nel segno della trascendenza e dell’inesauribilità del desiderio di vedere “sempre di più” l’Essere che si dona, mostrandosi a noi.

 

 

[1]* Si è qui fatto un uso selettivo delle edizioni in italiano delle opere di Merleau-Ponty: in alcuni casi ho provveduto a tradurre i testi citati nel corpo del testo, preferendo in altri casi lasciare in nota l’originale in francese. Anche le citazioni tratte dalla letteratura secondaria sono state all’uopo appositamente tradotte.

 Suggestivo, a tal proposito, il suo rifiuto di un cristianesimo disincarnato: «Car le Royaume de Dieu ou cette société nouvelle entre les hommes que crée l’amour sans paroles n’est pas, comme le suggère un mot platonicien, “là-haut” et loin de la terre. Il ne doit pas être conçu comme une négation de la terre, comme un renversement de la vie terrestre, une toile de fond contrastant avec elle. Jamais le Royaume de Dieu, aux époques de grande foi, n’a été le lieu des compensations. Parce qu’il n’est pas un monde renversé, – mais autre chose, parce qu’il est transcendant justement, il n’est pas un moxen de faire différer la justice jusqu’après la mort – un moyen de faire patienter les pauvres...» (M. Merleau-Ponty, Parcours 1935-1951, Lagrasse, Verdier, 1997, p. 26).

[2] M. Merleau-Ponty, Segni, ed. it. a cura di A. Bonomi, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 297. In M. Merleau-Ponty, Parcours Deux 1951-1961, Lagrasse, Verdier, 2000, troviamo in annesso la trascrizione dei dibattiti seguiti alla conferenza del 1952.

 

[3] Ivi, p. 299. E a p. 300 il testo è ancora più esplicito: «Nessuna delle nozioni che la filosofia aveva elaborato – causa, effetto, mezzo, fine, materia, forma – è sufficiente per pensare le relazioni del corpo con la vita totale, il suo innestarsi sulla vita personale o l’innestarsi della vita personale su di esso. Il corpo è enigmatico: parte del mondo, senza dubbio, ma stranamente offerta, come sua dimora, a un desiderio assoluto di avvicinare l’altro e di raggiungerlo anche nel suo corpo, animato e tremante, figura naturale  dello spirito. Con la psicoanalisi lo spirito passa nel corpo come inversamente il corpo passa nello spirito».

 

[4] Da Mauvaises Pensées, cit. in ivi, p. 303.

 

[5] M. Merleau-Ponty, L’unione dell’anima e del corpo in Malebranche, Biran e Bergson, ed. it. a cura di S. Prinzi, Napoli-Salerno, Orthotes, 2017, p. 89: «La conoscenza del corpo non può quindi essere né puramente esteriore né puramente interiore. Se volessimo, contemporaneamente, abitare il nostro corpo e conoscerlo, bisognerebbe essere, insieme, se stesso e altri: vi è qui il punto di partenza di un tentativo generale di fondare in diritto la dualità primitiva dell’interno e dell’esterno».

 

[6] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, ed. it. a cura di A. Bonomi, Milano, Bompiani, 2003, pp. 143-144.

 

[7] Di converso, io non sono in grado di partecipare alla vita altrui: «S’il y a un autre, je ne puis par définition m’installer en lui; coïncider avec lui, vivre sa vie même: je ne vis que la mienne. S’y il y a un autre, il n’est jamais à mes yeux un Pour Soi, au sens précis et donné où je le suis pour moi» (M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Paris, Gallimard, 1964, p. 110).

 

[8] A. Zielinski, La notion de “transcendance” dans Le Visible et l’invisible: de l’indétermination au désir, in E. de Saint Aubert (a cura di), Maurice Merleau-Ponty, Paris, Hermann, 2008, p. 240: «La transcendance caractérise le monde tel qu’il se donne à notre perception. Plus précisement, elle caractérise les deux pôles mêlés, entrelacés, de l’intentionnalité: le sujet charnel et le monde charnel. En effet, si c’est le monde qui est en excès sur la perception, il faut bien, en vertu de la corrélation (ou de l’entrelacs contitutif du sujet et de l’objet), que la visée perceptive elle-même prenne une forme particulière. Son mouvement doit répondre à l’écart ou à l’excès, ou encore à l’absence caractérisant la donation du monde. Au “toujours plus” du visible doit répondre un “toujours plus” de la vision. [...] La transcendance ne caractérise donc pas une déficience ou un “échec” du sujet percevant, mais permet de dépasser l’opposition sujet/objet. Le caractère “indéfini” ou “inépuisable” de la transcendance appelle une perception infinie. Cette expérience originaire – ouverture irréductible du sujet –, ce mouvement vers la transcendance du monde que le monde n’épuise pas, est une forme du désir. Le sujet percevant est un sujet désirant».

 

[9] M. Merleau-Ponty, Le visible, cit., p. 110.

 

[10] Ivi, p. 181.

 

[11] Ivi, p. 182: «La pellicule superficielle du visible n’est que pour ma vision et pour mon corps. Mais la profondeur sous cette surface contient mon corps et contient donc ma vision. Mon corps comme chose visible est contenu dans le grand spectacle. Mais mon corps voyant sous-tend ce corps visible, et tous les visibles avec lui. Il y a insertion réciproque et entrelacs de l’un dans l’autre».

 

[12] Ivi, p. 183.

 

[13] Ivi, p. 189.

 

[14] Ivi, p. 256: «ma vue et mon corps, émergent eux-mêmes du même être qui est, entre autres choses, cube – La réflexion qui les qualifie comme sujets de vision est cette même réflexion épaisse qui fait que je me touche touchant, i.e. que le même en moi est vu et voyant: je ne me vois pas même voyant, mais par empiètement j’achève mon corps visible, je prolonge mon être-vu au-delà de mon être-visible pour moi. Et c’est pour ma chair, mon corps de vision, qu’il peut y avoir le cube même qui ferme le circuit et achève mon être-vu. C’est donc finalement l’unité massive de l’Être comme englobant de moi et du cube, c’est l’Être sauvage, non épuré, “vertical”, qui fait qu’il y ait un cube».

 

[15] Ivi, p. 263.

 

[16] Cfr. ivi, pp. 269-270.

 

[17] Ivi, p. 282.

 

[18] Ivi, p. 311: «Il s’agit d’une négation-référence (zéro de…) ou écart. Cette négation-référence est commune à tous les invisibles parce que le visible a été défini comme dimensionnalité de l’Être, i.e. comme universel, et que donc tout ce qui n’en fait pas partie est nécessairement enveloppé en lui et n’est que modalité de la même transcendance».

 

[19] M. de Certeau, La folie de la vision, «Esprit», 6, 1982, p. 92: «Ce paradoxe organise la vision. Il est sa première folie. On n’ouvre les yeux sur les choses qu’en prenant de la distance par rapport à ce qu’on cherche. La vision se paie d’une séparation. Elle s’instaure à partir d’une absence de ce qu’elle vise, mais elle est rendue possible par la présence au monde où se produit cette division. Elle “distingue” des objets parce qu’elle s’en éloigne».

 

[20] M. Merleau-Ponty, Le visible, cit., p. 326.

 

[21] M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, Milano, SE, 1989, p. 15: «È necessario che il pensiero scientifico – pensiero di sorvolo, pensiero dell’oggetto in generale – si ricollochi in un “c’è” preliminare, nel luogo, sul terreno del mondo sensibile e del mondo lavorato così come sono nella nostra vita, per il nostro corpo, non quel corpo possibile che è lecito definire una macchina dell’informazione, ma questo corpo effettuale che chiamo mio, la sentinella che vigila silenziosa sotto le mie parole e sotto le mie azioni».

 

[22]               Ivi, p. 19.

 

[23] Ivi, p. 27.

 

[24] C. Sini, Teoria e pratica del foglio-mondo. La scrittura filosofica, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 189: «Il segreto del mondo, dunque, è che esso è un evento, non un segno, non un significato, non un raffigurato, perché è appunto sempre levento del segno, del significato, del raffigurato».

 

[25] R. Ronchi, Il pensiero bastardo. Figurazione dell’invisibile e comunicazione indiretta, Milano, Marinotti, 2001, p. 221.

 

[26] Cfr. F. Dastur, Chair et langage. Essais sur Merleau-Ponty, Paris, Le Belles Lettres, 2016, p. 75 e ss.

 

[27] Ivi, p. 130.

 

[28] Si veda il pregevole saggio di M. Summa, Merleau-Ponty – Ein relationaler Ansatz zur Metaphysik, in T. Keiling (ed.), Phänomenologische Metaphysik. Konturen eines Problems seit Husserl, Tübingen, Mohr Siebeck, 2020, pp. 236-264. Anche qui una pertinente riflessione attorno all’opposizione merleau-pontiana tra Lebenswelt e cogito trascendentale: M. Richir, Le sens de la phénoménologie dans “Le visible et l’invisible”, «Esprit», 6, 1982, pp. 124-145.

 

[29] R. Barbaras, De l’être du phénomène. Sur l’ontologie de Merleau-Ponty, Grenoble, Millon, 2001, p. 230.

 

[30] E. de Saint Aubert, Être et chairII. L’épreuve perceptive de l’être: avancées ultimes de la phénoménologie de Merleau-Ponty, Paris, Vrin, 2021, p. 125.

 

[31] Ivi, p. 131: «nous n’attendons pas que la chose ne soit plus ultra-chose pour la percevoir, nous la percevons alors qu’elle est encore ultra-chose, et le fait de la percevoir n’en fait pas pour autant un objet».

 

[32] Ivi, p. 130.

 

[33] M. Merleau-Ponty, La philosophie dialectique [corso del 1956], cit. in ivi, p. 131.

 

[34] A. Zielinski, Lecture de Merleau-Ponty et Levinas. Le corps, le monde, l’autre, Paris, Presses Universitaires de France, 2002, pp. 162-163.

 


Tags

INVISIBILE , MERLEAU PONTY , CORPO


Categoria

Filosofia

Scarica il PDF

Siculorum Gymnasium

A Journal for the Humanites

ISSN: 2499-667X

info@siculorum.it