Corpo invisibile sui sentieri volatili del sonno.
Metafisica della tragedia umana

di Stefano Piazzese

 

 

E nel rimpianto d’amore gli parrà che l’immagine della sua donna fuggita al di là del mare sia ancora la signora di casa sua.[1]

Invisibile è «ciò che, per essere puro spirito o comunque incorporeo, non si manifesta materialmente».[2] Pertanto, quando nel presente lavoro si fa riferimento al concetto di corpo invisibile si vuole indicare proprio questa nuance semantica. Qui tutto il dramma dell’evento in cui l’invisibile si manifesta nella sua immaterialità come viva presenza per poi dissolversi. Eschilo ci conduce alle porte del dramma umano e ci invita a esplorarlo.

Dai versi 420-426 dell’Agamennone emergono con forza le sofferenze scaturenti dal desiderio erotico che inerisce al sentimento amoroso, quelle per il cui dolore non esiste rimedio. Il coro dà voce a una variazione storica riferentesi alla vicenda di Elena, origine da cui prese forma la guerra che portò il re Agamennone e gli Achei lontani dalle proprie dimore per molti anni. Il coro ‘vede’ i silenzi dell’abbandono e dell’umiliazione di Menelao; questi silenzi dovuti all’avvilimento non recriminano, non accusano, bensì esprimono tutto il patimento per l’assenza dell’amata: un’assenza trasfigurante ogni significato nel nulla di cui si fa esperienza quando giunge l’abbandono da parte di chi si ama e che continua a essere presente in forza della nostalgia. Il coro afferma (vv. 739-749) che «Elena[3] giunge a Ilio non come una donna in carne ed ossa, ma come l’immagine stessa dell’amore: la si percepisce con i sensi, in maniera oscura. Dell’amore ha la dolcezza che ci trafigge attraverso lo sguardo».[4] Per i Greci lo sguardo realizza già tutta la potenza dell’Eros, «un lampo, che nell’istante ‘tremendo’ del kairós ci colpisce, la bellezza di Elena (V, VIII, 2), eîdos perfettamente semplice («haploûnti»), che nessuna simmetria, nessuna convenientia o commodulatio potranno mai produrre».[5] Il motivo di Elena come εἴδωλον, visione, immagine evanescente[6] è stato elaborato successivamente da Euripide, nella cui tragedia si legge che a Troia non andò la sposa di Menelao - Hermes l’aveva portata in Egitto, nel palazzo di Proteo, dopo averla nascosta in una nuvola, nelle pieghe del cielo -, bensì una statua fatta da Era, fantasma che respira (εἴδωλον ἔμπνουν οὐρανοῦ),[7] simulacro vuoto (κενὴν δόκησιν).[8] Certamente si tratta di una sfumatura interpretativa diversa da quella che si trova nell’epos e in Eschilo se si pensa al fatto che Euripide reinterpreta la vicenda di Elena ponendo al centro del discorso tragico la sua innocenza: «sono morti in tanti per causa mia presso le correnti di Scamandro, e mi stramaledicono, anche se sono solo una vittima di tutto quello che è successo, e pensano che abbia tradito il mio sposo e scatenato una grande guerra per i Greci».[9] Il tragico euripideo, rielaborando la figura di Elena, pone in primo piano l’impossibilità di agire in modo autonomo senza che vi siano determinanti influenze esterne (anche L’encomio di Elena di Gorgia si muove su questa linea interpretativa, e tra i condizionamenti esterni enucleati dal poeta un posto particolare spetta alla potenza persuasiva del λόγος). Qui la tragedia non solo prende le mosse dal mito, ma lo rielabora donandogli nuova forma, mettendolo in dubbio,[10] il λόγος filosofico-tragico mette in crisi la verità del mito. Tornando alla tragedia eschilea, l’apparire di Elena, la sua immagine che nel sogno sopraggiunge, non è un inganno, ma la stessa domanda della filosofia.

Nell’Agamennone gli occhi di Menelao sono gli occhi di chi, nel profondo dell’angoscia, ha perso la capacità di provare stupore per la vita; occhi che contemplano l’abisso dell’assenza di ogni orizzonte di senso. Ecco perché

la grazia delle belle statue ora gli è insopportabile: occhi vuoti in cui si è disseccato ogni desiderio d’amore. E fantasmi nel sogno, dolorose illusioni, verranno a portargli un vano piacere: vano sì quando qualcuno crede di vedere ciò che gli è caro e lo stringe tra le braccia, ma l’immagine svanisce presto sui sentieri volatili del sonno.[11]

La realtà onirica, unico spazio in cui il reale può rivoltarsi prendendo forme altrimenti difficili da raggiungere, viene vissuta come un tormento. Nello spazio del sogno Menelao incontra Elena, ma l’amplesso che li riunisce è poco dopo stroncato dal dissolversi del delittuoso apparire della forma svuotata della propria essenza materica.

La menzione di Elena, nella presente tragedia, non è limitata ai versi in questione; il poeta e filosofo volge il proprio sguardo teoretico alla radice della colpevolezza di Clitemnestra, difatti Elena è dichiarata “principale colpevole” dell’assassinio di Agamennone. La sposa di Menelao non assurge solo a causa motrice della guerra tra Achei e Troiani, portatrice di innumerevoli stragi, altresì essa va compresa come anello fondamentale della catena di omicidi che intesse la Saga degli Atridi avente nell’Agamennone e in tutta l’Orestea gran parte del proprio sviluppo. A Elena il coro attribuisce il delitto: «e ora, Elena, io ti incorono con l’ultimo fregio memorabile fatto di sangue che non si può lavare: tu per questa reggia fosti la sciagurata Eris, che ha sconfitto il sovrano».[12] Oltraggio chiama oltraggio; sangue chiama sangue, e Clitemnestra difende la sorella da questa accusa che il coro declama: la colpa non è di Zeus, e nemmeno di Elena, ma di Ate[13] a cui la stirpe degli Atridi è legata con catene. In questo modo il coro e Clitemnestra giungono a un responso veritiero.[14] Le imprese di Δίκη acquisiscono sempre nuove e inaspettate forme, eseguendo così il principio supremo di Zeus – «Dike affila le armi per un’altra impresa».[15] Alle lacrime versate da Clitemnestra per l’uccisione della figlia deve rispondere il re suo marito, pagando con la propria vita: «chi uccide cade ucciso» - ἐκτίνει δ’ ὁ καίνων.[16]

Il coro proclama con forza e tenacia, ancora una volta, il principio eschileo – παθεῖν τὸν ἔρξαντα: «resta saldo, finché Zeus resta saldo sul trono, il principio che chi agisce patisce. Questa è la giustizia divina»,[17] giustizia manifestantesi in tutta la sua pienezza nel fiotto di sangue che macchia Clitemnestra quando sferza il colpo mortale al marito. Adesso l’uccisione di Agamennone apre lo spazio a una nuova situazione di squilibrio, poiché anche questo omicidio è una colpa che dovrà essere punita: incombe la morte; la catena di sciagure non è spezzata. Il nome della morte è θανοῦσι θανὼν ἄλλων ποινὰς θανάτων[18] e apre la strada alla vendetta per il sangue versato: il delitto è inespiabile poiché, anche quando ristabilisce in un primo momento l’ordine alterato, genera, a sua volta, una colpa che reclama vendetta.

Elena è qui l’assente che tuttavia appare nel sogno come presenza datrice di tormento. La parola tragica di Eschilo ci proietta in una dimensione esistentiva profonda, difficile da sondare. L’assente dalle belle forme appare e, nel suo erotico apparire, non perde lo status di assente conferitole dall’assenza. Ecco il dramma: assenza e presenza coincidono. Colei che appare, difatti, è sempre l’assente che rimane tale in quanto sui sentieri volatili del sonno è solo ombra (εἴδωλον), spettro (φάντασμα), immagine incorporea, corpo invisibile. All’apparire di Elena cantato dal coro sembra echeggiare la domanda veterotestamentaria: «chi è colei che appare come l’alba, bella come la luna, pura come il sole, formidabile come un esercito a bandiere spiegate?».[19] La potente immagine evocata dai versi eschilei dice la presenza dell’assente, quell’assente a cui Menelao fa continuamente il discorso della sua assenza: da qui si fa strada il dolore provocato dalle “illusioni” del sonno, quelle illusioni che proiettano il sognante nel dramma del qui e ora, nel vortice dei propri tormenti. L’apparire del corpo invisibile di Elena, benché immagine del sogno, è anche “discorso” dell’assente in forza della propria assenza che dice: «sono qui, ma per fatto stesso di esserci confermo la mia assenza, la pongo come sigillo del mio apparire, dell’unico modo in cui il mio apparire sorge nel tuo orizzonte visivo».

Roland Barthes ha dedicato alcune pagine memorabili all’argomento, ponendo molta attenzione al discorso che si dirama dall’assenza dell’assente, e che qui possiamo riferire alla presenza del corpo invisibile di Elena:

all’assente, io faccio continuamente il discorso della sua assenza; situazione che è tutto sommato strana; l’altro è assente come referente e presente come allocutore. Da tale singolare distorsione, nasce una sorta di presente insostenibile; mi trovo incastrato fra due tempi: il tempo della referenza e il tempo dell’allocuzione: tu te ne sei andato (della qual cosa soffro), tu sei qui (giacché mi rivolgo a te). Io so allora che cos’è il presente, questo tempo difficile: un pezzo di angoscia pura. L’assenza si protrae e bisogna che io la sopporti. lo devo perciò “manipolarla”: trasformare la distorsione del tempo in un movimento di va e vieni, produrre del ritmo, aprire la scena del linguaggio (il linguaggio nasce dall’assenza: il bambino si è fabbricato un rocchetto, lo lancia e lo riacchiappa, mimando la partenza e il ritorno della madre: un paradigma è stato creato). L’assenza diventa una pratica attiva, un “affaccendamento” (che m’impedisce di fare altro); ha luogo la creazione d’una finzione con ruoli multipli (dubbi, rinfacciamenti, desideri, malinconie). Questa messa in scena di linguaggio allontana la morte dell’altro: un brevissimo momento, si dice, separa il tempo in cui il bambino crede sua madre ancora assente da quello in cui la crede già morta. Manipolare l’assenza significa far durare questo momento, ritardare il più a lungo possibile l’istante in cui l’altro potrebbe, dall’assenza, piombare bruscamente nella morte.[20]

Tornando ai versi dell’Agamennone, il tempo del tragico è tempo di un’assenza che si rende manifesta, che reclama la propria pretesa di esser qui. La realtà onirica così descritta, troppo facilmente liquidata come “truce illusione”, merita di essere approfondita perché in essa dirompe tutta la potenza del corpo invisibile di Elena; un corpo invisibile che reclama finanche una reazione fisica del sognante, quella di stringere tra le braccia il corpo invisibile apparso, tuttavia destinato presto a dissolversi tra i sospiri ineffabili del sonno.

L’immagine che i versi del poeta di Eleusi ci hanno donato è di grande portata esistentiva. Anche qui Eschilo mostra che la sua poesia è filosofica, nel senso che i suoi versi cercano di esplorare gli abissi più profondi del dramma umano indagando la vita a partire da ciò che è truce per sondare le strade di una possibile risposta al suddetto dramma. Di ciò è testimonianza l’immagine di Menelao tormentato dall’apparizione di Elena nel sonno. Grassi afferma che «solo così, nell’attività scoprente della passione, nel soffrire la tragicità dell’esistente giungiamo concretamente a identificare la problematica dell’apertura enunciativa, in funzione della quale lo svelarsi tragico degli enti ottiene una forma apofantica, ante-predicativa».[21]

L’appello abissale è quanto lo spirito tragico rivolge all’esserci da sempre, e fino ai nostri giorni, nel luogo della propria esistenza che è sempre il luogo del patire e del vedere connesso a questo patire: la verità è sempre verità situazionale che, a sua volta, esige un’ontologia situazionale. L’esperienza della storicità che sorge dall’umano patire per il fatto di essere nel mondo ha come protagonisti gli uomini con le loro passioni e destini, il dominio degli dèi e l’accadere. Per tale ragione,

riprendendo questa idea di Schadewaldt e portando all’estremo le argomentazioni dedicate da Heidegger ai primi pensatori greci, ci sembra di poter dire che molti problemi filosofici riguardanti l’io storico, sebbene in forma a volte solo enunciata e non criticamente approfondita, siano già rinvenibili nelle opere degli autori tragici.[22]

Il problema storico dell’io, ampiamente trattato da Dilthey e sviluppato da Heidegger[23] (considerando, ovviamente, le differenze tra i due pensatori), pone in essere la questione della temporalità e della storicità che, non a caso, nel pensiero del secondo è stata sviluppata a partire dalla ripresa della filosofia greca.
L’analisi della metafora conduce a ‘vedere’ ciò che impegna il destino umano, e attraverso di essa la storia stessa mostra tutta la complessità del binomio ancestrale vita-morte. Il problema della morte e il patimento dell’esserci non nascono da una riflessione di natura logico-razionale condotta dai tragediografi, ma «dal chinarsi attento del drammaturgo sull’accadere sofferto dell’uomo. È in questo modo che l’autore cerca indicazioni, chiarimenti per i problemi che lo assillano».[24]
Come giunge il procedere drammatico a cogliere l’essenza del reale? Come si può dal corpo invisibile di Elena che appare a Menelao comprendere la realtà drammaticamente posta “al di là” del sogno? Grassi risponde che ciò è possibile non mediante una metafisica intesa come processo dimostrativo, ma grazie all’illustrazione delle esperienze umane cariche di πάθος. Al di là di quanto afferma giustamente Grassi, bisogna considerare che metafisica non è solo procedimento dimostrativo, ma molto di più: essa può esser detta in diversi modi ed è, come insegna Aristotele, μετὰ τὰ φυσικά, laddove μετὰ è oltre indicante tutti gli argomenti che non hanno un diretto riferimento alle entità fisiche. Ancora: la metafisica è, sin dai suoi albori, un modo rigoroso attraverso cui l’uomo cerca di rendere ragione di se stesso e del mondo. Ne consegue che, posta questa accezione, è possibile delineare una metafisica del tragico animata dalla tensione che caratterizza il tentativo umano di giungere all’essenza del reale intesa come essenza dell’esistenza, del dramma di essere nati, del mondo in cui si è gettati, delle strutture esistenziali che dicono la finitudine dell’umano, delle esperienze che scaturiscono dal trovarsi in una determinata situazione.

Si palesa, dunque, la necessità di corrispondere al καιρός, e nel dispiegarsi della tragica vicenda ogni elemento contribuisce a rafforzare l’esigenza di non fallire dinnanzi a questo impegno. Ma cosa significa qui fallire? Dice Grassi: «non aver identificato la necessità che preme nell’urgere dell’istante, che si impone nel patire, nel palesarsi del non ancora, nel manifestarsi di un’ora e di un non più nell’evento tempo».[25] Le passioni e i dolori si ergono nell’intervallo tra il non ancora e il non più, dando senso e significato all’orizzonte dell’istante in cui si patisce; ogni ente che appare all’orizzonte dello sguardo fenomenologico è semantizzato in forza dello stare del guardante in quella determinata situazione.

Da questa prospettiva ermeneutica muta anche una domanda originaria della filosofia: chi è quest’uomo? Questo indica lo stare storico e temporale che fa dell’ente uomo quell’ente uomo e non altro; dunque, emerge l’unicità dell’essere dell’esserci necessitata dalla sua stessa storicità, dove «ogni accadere drammatico implica così la notizia di ciò che avviene: è in essa che si palesa la situazione».[26] L’importanza delle parole si manifesta in tutta la sua radicalità: in Eschilo si ha per la prima volta il culto del λόγος tragico. La parola rimane quanto di più sacro vi è all’interno di ogni vicenda poiché essa declama gli eventi tragici ed è annunciatrice del volere divino. Di più: il λόγος tragico di Eschilo indica l’essenza della realtà ed è anche l’inesauribile tentativo di esporre in forma linguistica la struttura dialettica del reale.[27]
La necessità sofferta è la scintilla che rende la parola il centro nevralgico del dramma in cui i principi logici cessano di essere ermeneuticamente determinanti per dare spazio all’inatteso, al mistero, all’enigma, a ciò che non può essere posto all’interno delle strutture logiche e che allo stesso tempo è cogente tanto quanto lo sono per altri aspetti quelle che rientrano, invece, nell’alveo della razionalità matematizzante. E il corpo invisibile di Elena si fa enigma da interpretare, dramma ermeneutico. Anche per Menelao il patire permette di solcare i mari della conoscenza per giungere al pensiero che si apre a Necessità, e dentro di essa alla limitata libertà di scelta che egli ha nei confronti di se stesso e di chi gli sta di fronte. Il poeta di Eleusi utilizza una metafora molto profonda per l’esplicazione del principio πάθει μάθος: «cedi alla necessità: abituati al nuovo giogo!».[28] Il giogo di Necessità si dispiega attraverso la dinamica del doppio in forza del binomio colpa-punizione. Se il sapere nasce attraverso il dolore, allora esso raggiunge il suo apice teoretico nella comprensione che il sangue versato non si asciugherà mai. Così ogni uccisione, per quanto motivata e giusta sotto alcuni aspetti possa essere, genera sempre il grido di invocazione a Δίκη. Giustizia è stata fatta, ma il sangue dei giustiziati ricade sui giustizieri. L’attesa della punizione di una colpa esclama: «Ma c’è Oreste»;[29] e con ciò viene aperta la strada a un’altra giustizia non scevra di ἀδικία che a sua volta sarà punita. Ecco cosa accade agli umani “sotto il sole”.

Se il corpo invisibile di Elena è enigma,

la tragedia espone l’enigma, ‘chiarisce’ che per enigmi parla il dio. La filosofia presuppone che l’enigmatica parola del dio sia rivolta a noi per ottenere risposta. La tragedia è visione dell’enigma, pura theorìa; la filosofia concepisce l’enigma stesso come una forma dell’interrogare. La tragedia costituisce il dubbio immanente alla ricerca filosofica: quale ragione abbiamo di intendere così l’enigma? Ma non saremo in grado dei ‘ascoltare’ la tragedia separandola dalla hýbris filosofica – che ogni domanda, se è vera domanda, celi già in sé la risposta. Anzi: che la tragedia non sia, nel suo senso ultimo, che esposizione di un interrogare, drâma, azione dell’interrogare, e non di mŷthos che in sé si compie, evento che in sé rinserra domanda-risposta.[30]

 

Non sarà l’apparizione di Elena descritta dal poeta di Eleusi a porre la domanda della filosofia di cui la tragedia è in sé portatrice? I fantasmi nel sogno e le dolorose illusioni fondano l’indagine esistentiva che l’esserci rivolge a se stesso, stando alla tesi heideggeriana secondo cui «nel comprendere è contenuto esistenzialmente il modo d’essere dell’esserci in quanto poter-essere».[31] Giunge allora il domandare - tentativo di cum-prehendere - che dall’apparizione onirica di un corpo vuole affrontare il problema del qui e ora,

 

improbus labor indagare se stessi; erranza infinita e necessaria. Come svolgere, diaporeîn, tale problema, senza peccare di hýbris? Come può l’uomo ontologicamente impedito, claudicante, balbuziente procedere verso se stesso, fino a dire se stesso? È la domanda della filosofia nell’età della tragedia – ma non in senso storico-cronologico. È la domanda di una filosofia che ‘salvi’ in sé il senso della tragedia.[32]

 

Indagine perennemente aperta. Inesauribile è la domanda perentoria che essa rivolge al sognante durante lo scuotimento del sonno. Può un’ombra dissolversi nello schiarimento della parola? Il corpo invisibile che presto svanisce sui sentieri volatili del sonno, tuttavia, non svanisce in sé, come ombra, ma solo come ombra di un sogno. Il tormento erotico di Menelao è perenne sia prima che dopo il risveglio. I suoi occhi continuano a essere disseccati dal dolore, dall’angoscia per la vicinanza di ciò che, pur non essendo più presso di lui nella pienezza della propria essenza materica, lo tormenta. È possibile chiarire e rispondere in modo esaustivo a questo enigma? L’ombra di Elena è destinata a non trovare ragione del proprio apparire, del suo essere presente come assenza materica. Dell’Elena di cui il coro canta si può dir lo stesso di un’altra ombra molto cara al μύθος; essa ci ricorda che di un corpo invisibile non è possibile tracciare le coordinate spazio-temporali che ne permettono il chiarimento noetico, la schiusura speculativa, il dissolvimento dell’aporia che la fonda. I sentieri volatili del sonno rimangono protesi e al tempo stesso insondabili al metodo del κατὰ βραχὺ διαλέγεσθαι, pur costituendo uno dei suoi momenti fondativi e fondanti.

È unombra il «conosci te stesso». Così forse ci segue e ci perseguita il consiglio del Dio. Voler chiarire quellombra è commettere lerrore di Orfeo che pretende di fare di Euridice unoperetta, di manifestarla alla luce del suo canto, di pro-durla nella sua parola. Così finisce col tradire l’ombra e fa naufragare l’opera. Dissolvendo l’ombra, anche il desiderio che è l’agente dell’opera svanisce. La distruzione dell’ombra esige quella dell’opera. E il Genio di Orfeo si ritrova prigioniero malinconico, a contemplare impotente il lontanissimo baleno di un astro notturno.[33]

Possiamo interpretare l’immagine evocata dai versi eschilei qui presi in esame come il fulgore di un astro notturno che rifulge tutta la sua potenza di fronte all’impotenza del sognante. È possibile qui individuare una delle poliedriche e infinitamente creatrici forme del tragico. La forma del sogno dove il corpo invisibile è presenza Erotica che reclama a sé, εἶδος che incede senza alcuna barriera verso ciò che, al di là del sogno, risulta irraggiungibile in termini di pienezza. Il sognante descritto dal coro è talmente immerso in quell’apparizione che tenta di stringere tra le braccia ciò che gli è caro. Ecco il dramma della potente immagine evocata dal poeta eleusino: immagine, corpo invisibile, destinato presto a svanire. Il suo sorgere è un apparire che, sin dal primo istante in cui si manifesta, è presto volto alla dissoluzione non totale, non definitiva, non ultima: il corpo invisibile era, è e potrà ancora essere. A Menelao βοὴν ἀγαθός, dal grido possente (Il., III, 96), rimane solo la gloria dell’istante in cui quando si sta per traboccare di pienezza si precipita, poco dopo, nei vortici di un abisso più profondo dove la ragione rimane muta, attonita, colpita, prigioniera nel proprio baratto.

Quale consolazione dal corpo invisibile di Elena? Nessuna. Aleggia il silenzio del nulla di cui si fa esperienza ogniqualvolta sui sentieri del sonno si raggiungono le estreme conseguenze dei tumulti esistentivi esacerbati dalle esperienze fatte al di là della dimensione onirica. Ora, non è il sogno stesso un traboccamento della realtà che rende illegittimo ogni tentativo di erigere confini che possano renderlo ‘illegittimamente’ dimensione a sé stante? Nel nostro caso è il corpo invisibile di Elena il λόγος π????????οιητικός che, dai sentieri volatili del sonno, plasma la realtà cosiddetta dell’“oltre sogno” arrivando a toccare finanche gli aspetti più reconditi della vita quotidiana. In che rapporto sta il corpo invisibile di Elena con il mondo? Risulta teoreticamente fertile e del tutto fondata l’affermazione di Gadamer secondo cui «il mondo che appare nel gioco delle rappresentazioni non sta accanto al mondo reale come una copia, ma è questo stesso mondo reale in una più intensa verità del suo essere».[34] L’imitazione, l’immagine del reale, il corpo invisibile che appare nel sogno acquisisce un proprio statuto ontologico, si traduce nell’identico.

Urge una metafisica del pensiero tragico emergente dall’evento declamato dal dramma. Quel corpo invisibile si fa domanda esistentiva che indaga le strutture dell’esistere. Pare qui trovare realizzazione anche l’osservazione di Lukács secondo cui «ogni vera tragedia è un Mistero».[35] A partire dalla dimensione esistentiva del tragico che pertiene all’evento di cui parliamo,[36] è possibile rilevare che «nella forma tragica si rappresentano e ri-presentano incessantemente le vicende che dal Passato ‘procedono’, senza mai poterlo comprendere, senza che mai del suo Centro possa darsi theoría».[37] La potenza di un corpo invisibile diviene un sentiero ermeneutico-esistentivo solo se posto e compreso all’interno di un tentativo di indagine che si caratterizza come metafisica della tragedia umana.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Eschilo, Agamennone, in Le tragedie, traduzione, introduzione e commento a cura di M. Centanni, «I Meridiani», Milano, Mondadori, 2003, vv. 412-415, p. 423.

[2] Treccani, voce ‘invisibile’,  [consultato il 20.03.2023].

[3] Per un approfondimento e un confronto di prospettive sulla figura di Elena e delle sue poliedriche interpretazioni cfr. M. Bettini, C. Brillante, Il mito di Elena. Racconti dalla Grecia a oggi, Torino, Einaudi, 2014.

[4] F. Li Vigni, L’ambiguità del logos nell’Agamennone di Eschilo, in Quaderni di cultura junghiana, Anno 3, numero 3 – 2014, p. 139.

[5] M. Cacciari, Dell’inizio, Milano, Adelphi, 1990, p. 297.

[6] Per la ricostruzione delle diverse tradizioni su Elena che si erano diffuse nell’antichità (Omero, Saffo, Stesicoro e Gorgia) cfr. G. Basta Donzelli, La colpa di Elena. Gorgia ed Euripide a confronto, in L. Montoneri - F. Romano, Gorgia e la Sofistica, Atti del Convegno Internazionale di Lentini-Catania, 12-15 dicembre 1983, Catania 1985, pp. 389-409, rist. in Ead., Studi sul teatro antico, Amsterdam 2008, pp. 137-150.

[7] Euripide, Elena, in Eschilo, Sofocle, Euripide, Tute le tragedie, trad. di A. Tonelli, Milano, Bompiani, 2018, v. 34, pp. 2398-2399.

[8] Ivi, v. 36, p. 2400.

[9] Ivi, vv. 52-55, p. 2401.

[10] Cfr. J.-P. Vernant, Il momento storico della tragedia in Grecia, in J.-P. Vernant, P. Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia. La tragedia come fenomeno sociale, estetico e psicologico, trad. di M. Rettori, Torino, Einaudi 1976, p. 6.

[11] Eschilo, Agamennone, in Le tragedie, cit., vv. 416-426, pp. 422-423: «εὐμόρφων δὲ κολοσσῶν | ἔχθεται χάρις ἀνδρί·| ὀμμάτων δ’ ἐν ἀχηνίαις | ἔρρει πᾶσ’ αφροδίτα. | ὀνειρόφαντοι δὲ πειθήμονες | πάρεισι δόξαι φέρου σαι χάριν ματαίαν. | μάταν γάρ, εὖτἂν ἐς θιγὰς δοκῶν ὁρᾷν, | παραλλάξασα διὰ | χερῶν βέβακεν ὄψις, οὐ μεθύστερον | πτεροῖς ὀπαδοῦσ’ ὕπνου κελεύθοις.».

[12] Ivi, vv. 1455-1461, p. 495.

[13] Ivi, v. 1566, p. 501.

[14] Ivi, v. 1569, ibidem.

[15] Ivi, v. 1535, p. 499.

[16] Ivi, v. 1562, p. 501

[17] Ivi, vv. 1563-1564, ibidem.

[18] Ivi, vv. 1339-1340, p. 487.

[19] Ct 6, 10.

[20] R. Barthes, L’assente, in Frammenti di un discorso amoroso (Fragments d’un discours amoureux, 1977), trad. di R. Guidieri, Torino, Einaudi, 2014, p. 35.

[21] E. Grassi, Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, a cura di M. Marassi, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 1992, p. 28.

[22] Ivi, p. 31.

[23] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927), trad. di A. Marini, Milano, Mondadori, 2006, § 77, p. 1115.

[24] E. Grassi, Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, cit., p. 61.

[25] Ivi, p. 64.

[26] Ivi, p. 65.

[27] Su questa definizione di filosofia del tragico cfr. M. Garelli, Prefazione. Pensare il tragico: ovvero l’antidoto, in La filosofia di fronte al tragico, a cura di M. Vero, Pisa, Edizioni ETS, 2005.

[28] Eschilo, Agamennone, in Le tragedie, cit., v. 1071, p. 465.

[29] Ivi, v. 1646, p. 507.

[30] M. Cacciari, Della cosa ultima, Milano, Adelphi, 2004, pp. 113-114.

[31] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 31, pp. 413-415: «Im Verstehen liegt existenzial die Sainsart des Daseins als Sein-können» (p. 412).

[32] M. Cacciari, Della cosa ultima, cit., p. 150.

[33] Ivi, p. 130.

[34] H.-G. Gadamer, Verità e Metodo (Wahrheit und Methode, 1960), trad. di G. Vattimo, Milano, Bompiani, 2000, p. 297.

[35] G. Lukács, L’anima e le forme (Die Seele und die Formen, 1910), trad. di S. Bologna, Milano, SE, 2002, p. 233.

[36] M. Cacciari, Dell’inizio, cit., pp. 154-155: «Soltanto nel sogno l’Io è veramente e immediatamente certo di sé. Tutte le rappresentazioni del sogno si avvertono d’un colpo immanenti all’Io che sogna. È nel sogno che veramente mai possiamo dimenticare che l’Io è, che mai possiamo dimenticarci. Le porte del sogno sembrano aprirsi al fondamento dell’idealismo coerentemente pensato: a quell’atto intrascendibile per cui l’Io si pone a centro della sfera a raggio infinito del sapere. Mai con tanta chiarezza nel sogno l’Io ‘abita’ quel centro: tutto ‘ciò’ che sogna – qualunque luogo raggiunga dell’agostiniano “penetrale amplum et infinitum” della memoria – sarà sempre il sogno che l’Io sogna, senza possibilità di dubbio o inganno. […] Divina, infatti, possiamo chiamare la certezza di sé che raggiungiamo nel sogno. […] Il nostro non è sogno, ma ombra di sogno: frammento, rovina del sogno divino».

[37] Ivi, p. 518.


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TRAGEDIA GRECA , CORPI INVISIBILI , ELENA


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Filosofia

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