Arcana corpora.
Eziogenesi dei morbi e cause astrali nell’epidemiologia dell’età moderna

di Luigi Ingaliso

 

«Non prese nessuna precauzione contro la peste; gli sattaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle».[1] Le parole di Manzoni raccontano gli ultimi momenti di vita di Don Ferrante, emblema dell’erudito secentesco ed espressione di un sapere nozionistico ed esibizionistico, che nel suo atteggiamento tronfio di enciclopedismo mostra poco spirito critico e poca attenzione alle innovazioni. Non ci deve stupire, dunque, il fatto che Don Ferrante fosse tra coloro i quali negarono maggiormente la peste, non con ischiamazzi, ma con ragionamenti logicamente coerenti e assolutamente privi di aderenza alla realtà: «In rerum natura, – diceva, – non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera».[2]

Le pagine in cui Manzoni descrive l’epidemia milanese ricordano tanto quelle scritte da Boccaccio per raccontare la peste fiorentina del 1348, e non è un caso che lo stesso Manzoni abbia trovato nella lettura del Decameron motivi di ispirazione per narrare la peste de I promessi sposi. Così, se volessimo letterariamente abbracciare le descrizioni della peste tra la fine del medioevo e la prima età moderna, potremmo prendere come esempi proprio le due opere letterarie, le stesse che ci restituiscono, attraverso l’impareggiabile prosa dei loro autori, le dinamiche sociali che si innescavano durante il dilagare dei fenomeni epidemici: a Firenze, nel 1348, così come a Milano nel 1630 la massima che probabilmente circolava di più tra le strade delle città sarebbe stata quella galenica, cito, longe, tarde ovvero fuggi presto, va lontano, torna più tardi che puoi. I molteplici trionfi della morte, tra cui quello più noto di Pieter Bruegel il Vecchio,[3] ben raffigurano il sentimento tragico che circolò in Europa in quei secoli:[4] schiere di uomini e donne falciate dalla morte, pile di cadaveri pronti per essere bruciati, edificazione di strutture sanitarie, soprattutto lazzaretti,[5] per la cura dei malati, nobili che fuggivano dalle città per scampare il grave pericolo, ecc.

Sulla genesi delle epidemie, la tradizione medica si fondava sulla teoria miasmatica che, nei fatti, rappresentava il paradigma teorico al quale si richiamavano la maggior parte nei medici agli inizi del ’500.[6] Su questa tradizione di pensiero si era progressivamente innestata l’idea che gli astri giocassero un ruolo di primo piano nella genesi delle epidemie, una tesi questa che, sebbene fosse andata scemando tra Cinque e Seicento, rimaneva ancora viva in molti autori della tradizione. Manzoni, profondo conoscitore del XVII secolo, la ripropone in tutta la sua immutata forza ancora per tramite Don Ferrante:

“La c’è pur troppo la vera cagione” diceva; “e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria… La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino…? E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?... Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?”.[7]

Nella cornice rinascimentale e della prima età moderna la fabbrica del corpo umano viene letta e interpretata attraverso le corrispondenze tra micro e macrocosmo,[8] e questo ci fa comprendere i motivi per i quali l’arte medica era profondamente legata alla conoscenza degli astri e dei loro movimenti: non solo le parti del corpo umano avevano delle correlazioni con i pianeti, ma le stesse patologie che affliggevano gli individui potevano trovare spiegazione attraverso la medicina astrologica. Del resto, ancora per tutto il sedicesimo secolo, le parole astrologia e astronomia venivano utilizzate in modo indistinto, mantenendo solo una lieve differenziazione semantica, analoga a quella che poteva passare tra medicina pratica e medicina teorica.[9] Ed è ancora il Don Ferrante di Manzoni ad offrirci il destro per comprendere meglio queste dinamiche medico-filosofiche, infatti «sosteneva la domificazione del Cardano contro un altro dotto attaccato ferocemente a quella dell’Alcabizio».[10] Famoso per aver redatto l’oroscopo di Gesù Cristo,[11] Cardano affermava il valore dell’astrologia e la necessità della sua depurazione dalle superfetazioni introdotte dagli arabi e, per raggiungere questo obiettivo, riteneva che la via maestra fosse un ritorno all’Opus quadripartitum di Tolomeo,[12] ovvero ad un trattato in veste di compendio fondativo per tutta l’astrologia, in particolare per tutti coloro che utilizzavano i genetliaci per predire ogni aspetto della vita umana, salute compresa.[13] L’opera di Tolomeo si presenta in modo più sistematico rispetto ai repertori che l’avevano preceduta, e fonda questo suo rigore metodologico sull’assunto teorico, ben espresso già nel proemio, dell’esistenza di uno stretto legame tra astronomia e astrologia, che tuttavia non riconosceva a entrambe lo stesso valore epistemologico: mentre la prima perveniva a risultati certi, la seconda - pur fondandosi sulle risultanze astronomiche - giungeva a conclusioni probabili, poiché il suo oggetto d’indagine era la mutevole realtà fisica. Pur con queste precisazioni, chi ci impedirà «di preannunciare gli eventi che si verificheranno nel tempo, visto che una determinata configurazione astrale, in armonia con un determinato temperamento, promette anche prosperità e un’altra in combinazione disarmonica minaccia guai?».[14]

La giudiziaria, dunque, faceva parte a pieno titolo dell’ars medendi et curandi, e questa pratica si era progressivamente affermata soprattutto a partire dal secondo secolo dopo il Mille, allorquando alcuni testi pseudo-ippocratici, in particolare di matrice araba, avevano iniziato ad utilizzare l’astrologia nella prognostica.[15] Come si diceva in precedenza, questa liaison medico-astrologica aveva attraversato tutto il medioevo per giungere alla modernità con tutto il suo portato di superstizioni e si spingeva fino a utilizzare le posizioni degli astri per indagare la genesi delle patologie, per stabilire l’inizio della cura o per determinare l’efficacia o l’inutilità di un farmaco:

Or se le febbri e altre alterazioni vogliono tanta osservanza celeste, assai più si deve pensare nell’altre cose soggette al tempo. Però è necessario la natività dell’infermo sapere, per questo e per tutte l’altre azioni, perché un’influenza nuoce ad uno, ad altro giova, e quel che giova all’amico giova pure a te e agli animali amici all’uomo, e quel che nuoce a te nuoce agli amici, per il simbolo, e così tra l’animali e ogni cosa s’esperimenta, ché patendo il mare patiscono tutte l’acque, e se Saturno in Vergine fa brucoli, nuoce a noi e agli animali nostrali come buoi, cavalli.[16]

La posizione espressa da Campanella sui rapporti tra gli astri e i natali degli individui era allora condivisa da molti filosofi, ad esempio Ficino,[17] ma anche da una percentuale elevata di medici, e ciò non deve stupire, se consideriamo il fatto che sotto l’ombrello della cosiddetta professione medica, tra Cinque e Seicento, trovava riparo un insieme di persone assai diverse tra loro che andavano dai più tradizionali medici laureati, ai barbieri, ai cerusici, agli speziali, per arrivare persino ai ciarlatani. Così Campanella, che certamente non era un medico di professione, diventa testimone indiretto di una tradizione che aveva attraversato tutto il medioevo e continuava a vivere nella prima età moderna, un sapere medico-astrologico le cui radici – secondo molti autori di questo periodo – giungevano sino all’antichità, alle riflessioni di Ippocrate e di Galeno sulla necessità dei medici di essere anche dei buoni astronomi (ma non astrologi), così com’era stato per i Caldei e gli Egizi.

Non deve, quindi, stupire se accanto ai testi della tradizione, nelle librerie dei medici tardo-rinascimentali, si potevano trovare ancora effemeridi, almanacchi e pronostici: «Trattati di medicina esprimevano il concetto in molte forme diverse e in due terzi delle centinaia di libri d’ore pubblicati tra la fine del Quattrocento e il 1539 si trova, subito dopo il frontespizio, prima del calendario, la figura di un uomo in piedi, a seconda delle edizioni un nudo o uno scheletro; intorno alla quale compaiono consigli per i salassi dipendenti dalla posizione della luna».[18] La produzione di questi calendari terapeutici, dove si elencavano i giorni fausti, i nefasti e quelli critici (ovvero di parossismo della malattia), spopolarono per tutta Europa, specie dopo l’invenzione della stampa, e per molti ciarlatani divennero motivo di arricchimento e lucro; in alcuni casi il fenomeno raggiunse una tale espansione che le facoltà mediche chiesero anche l’intervento dello Stato per evitare la diffusione di pronostica pieni di errori o, nel peggiore dei casi, di superstizione. Emblematico il caso occorso in Francia nel 1534, allorquando la facoltà medica di Parigi chiese al Parlamento di impedire la produzione e il commercio di almanacchi che mettevano in serio pericolo la salute della popolazione.[19]

Nel caso dei fenomeni epidemici o più specificatamente pestilenziali – benché sotto questo nome tra la fine del medioevo e la prima età moderna possono essere indicati molteplici manifestazioni morbose –, la teoria dominante era di matrice galenica. Nel De differentiis febrium Galeno aveva sostenuto che a corrompere l’aria, quindi a innescare i meccanismi pestilenziali erano i miasmi, cioè dei vapori originatesi da corpi putrefatti o da luoghi malsani, a causa dell’eccessivo calore, che si levavano verso l’alto inquinando l’aria.[20] Nella cornice astrologica, pienamente maturata nel corso del medioevo grazie anche alla circolazione delle opere dello pseudo-Aristotele[21] e, in particolare, al De causis proprietatum elementorum (opera che ebbe molta fortuna perché parafrasata da Alberto Magno) e al De imaginibus lunae secundum Aristotelem, gli astri divengono i ‘motori’ che azionano i miasmi in obbedienza alle strette relazioni tra micro e macrocosmo oppure per comando della stessa divinità.

Queste dinamiche non si interruppero improvvisamente col sopraggiungere della modernità, anzi «è indispensabile rendersi ben conto della disseminazione larghissima, alle origini della cultura moderna, dei temi astrologici, magici ed ermetici, e del loro perdurare ovunque nelle forme più varie, e non solo nelle immagini dell’arte, ma anche proprio all’interno della nuova scienza».[22] In altre parole, la crisi del rapporto tra astrologia e medicina può essere descritta, più che nei termini di un improvviso cambiamento di paradigma, come una progressiva separazione tra saperi.

Quanto affermato non ci deve indurre nell’errore di pensare che mancarono gli oppositori all’uso spregiudicato dell’astrologia in ambito medico. Basterebbe, a tal riguardo, ricordare le Disputationes (1496) di Pico della Mirandola che nelle sue pagine, oltre a denunciare la superstizione degli astrologi, si scaglia contro quella classe medica che usa questo sapere per supportare le sue diagnosi.[23] L’uso delle fonti antiche, fatto da Pico, è esemplificativo di questo modo di intendere la medicina, infatti egli ritiene che il buon medico, ad esempio nell’analisi dei giorni critici, debba affidarsi all’autorità di Ippocrate e non di Galeno, proprio perché il secondo ha avuto, secondo Pico, il grande demerito di aver patrocinato l’introduzione dell’astrologia in questo particolare settore della medicina.[24] Anche la Chiesa, dal canto suo, non era rimasta inerte: a poco meno di cent’anni dalla pubblicazione delle Disputationes di Pico, Papa Sisto V aveva promulgato il 5 gennaio 1586 la bolla Coeli et Terrae Creator che condannava la superstizione, proibiva la pratica astrologica, la lettura e il possesso di opere che riguardavano questi argomenti.[25]
Anche sul fronte medico le cose stavano iniziando a mutare, già nel corso del Cinquecento i medici cominciarono a porre l’attenzione soprattutto sulle cause seconde ridimensionando gradualmente l’azione delle influenze astrali sulle malattie. Un esempio mirabile di ciò lo abbiamo nelle analisi eziologiche delle epidemie e, in particolare, nelle theses morborum di Giovanni Filippo Ingrassia: la figura del protomedico costituisce certamente un formidabile caso di una visione eziologica della malattia che cominciava ad abbandonare i canoni tipici del medioevo per avvicinarsi progressivamente alla modernità. Come si diceva in precedenza, nel caso delle epidemie, la teoria miasmatica si accompagnava sempre alle analisi astrologiche e allo studio di fenomeni astronomici particolari, come ad esempio le eclissi o il passaggio delle comete, che servivano a spiegare la forza del contagio e la sua diversa diffusione tra gli strati della popolazione. Accanto a questa teoria cominciò a circolare l’idea che a determinare la genesi e la diffusione del contagio non fossero i miasmi, ma piuttosto dei corpuscoli pestilenziali, dei seminaria pestis come ebbe a scrivere Girolamo Fracastoro nel De contagione (1546) – lo stesso che nel De causis criticorum dierum libellus del 1538 si era scagliato contro la giudiziaria – e, in Italia in particolare, ciò avvenne con un ritorno al corpuscolarismo, soprattutto ad opera degli aristotelici patavini che ripresero, in parte attraverso Galeno,[26] l’idea dei minima naturalia senza che questo implicasse la riduzione della qualitas dei corpuscoli ai loro attributi meccanici o, peggio ancora, l’affermazione dell’esistenza del vuoto.[27] È chiaro che su queste tematiche ovvero sulla base ontologica delle teorie di Fracastoro la modernità giocò una delle battaglie più importanti per l’affermazione del paradigma scientifico, tuttavia per i medici vissuti «nel XVI secolo i miasmi e i semi delle malattie non erano considerati tanto diversi tra loro, e molti medici avrebbero accettato l’equazione tra i due».[28] Questa visione, sebbene non consumò pienamente il distacco dall’ontologia della qualitas, tuttavia contribuì a un notevole ridimensionamento del ruolo delle influenze astrali, a partire proprio dall’eziogenesi delle epidemie: così Fracastoro, ad esempio, non guarda né alle cause occulte né alle cattive congiunzioni celesti, ma riporta tutto alle dinamiche naturali propter analogiam e ai meccanismi di contagio diretto, per fomite e ad distans.

Il caso di Ingrassia risulta ancora più emblematico perché se è indubitabile il fatto che era cresciuto all’interno della scuola medica siciliana nel solco della tradizione ippocratico-galenica (pur sotto l’egida di un novatores come De Petra), è altrettanto vero che si era formato, intorno agli anni Trenta del XVI secolo, in un ambiente dinamico e culturalmente aperto alle novità, cioè tra Bologna e Padova, dove proprio le idee di Fracastoro circolavano ampiamente, lo stesso ambiente che avrebbe visto dopo qualche anno l’arrivo di Andrea Vesalio. Quindi, il debito intellettuale di Ingrassia nei confronti della tradizione medica padovana è evidente fin dalle pubblicazioni degli anni Cinquanta, allorquando si trovò a fronteggiare come medico un’ondata epidemica nella città di Palermo[29] e lo si vede, soprattutto, nell’utilizzo dei principij seminarij, anche per lui di matrice fracastoriana, che spiegano l’origine e la diffusione della febbre pestilenziale. In Ingrassia, tuttavia, i seminaria pestis cominciano ad assumere una caratterizzazione non solo qualitativa, ma anche quantitativa: così quelli più sottili e meno viscosi sono quelli della vera peste, mentre quelli più spessi e viscosi sono tipici del pestifero e contagioso morbo.[30] Nelle epidemie che segnarono la Sicilia nei decenni successivi, fino a giungere alla recidiva del 1577, l’analisi ingrassiana procede utilizzando la stessa metodologia degli anni Cinquanta, lo scopo non dichiarato era quello di sottrarre lo studio e, soprattutto, la cura delle epidemie all’astrologia giudiziaria. In questa visione di transizione che ruolo giocavano gli astri? Nell’idea del protomedico l’azione degli astri, seppur ridimensionata, non scompare del tutto, la troviamo infatti presente nell’analisi del morbo del 1558 per spiegare l’irrobustirsi del male, dovuto al fatto che, nell’agosto dello stesso anno, il Sole era entrato in Leone in congiunzione con Marte e ciò aveva rafforzato i principij seminarij.[31] Del resto sia Fracastoro che Cardano avevano riferito che la febbre lenticolare del 1505 si era rafforzata a seguito della congiunzione di Saturno o di Giove, mentre altre volte si era assistito, sempre per l’azione degli astri, alla mutazione di un’endemia in una pandemia.[32] Gli astri giocavano un ruolo di primo piano anche nella definizione delle vera peste, infatti, escludendo quelle pandemie dovute all’azione divina o diabolica, nel caso di peste con putrefazione dell’aria, la causa astrale era, secondo Ingrassia, sempre necessaria, anche quando questa poteva essere totalmente sconosciuta agli astronomi: la peste prevedeva sempre una causa occulta, infatti il caldo, l’umidità e la stessa putrefazione non erano sufficienti a determinare la comparsa di focolai pestilenziali. Da ciò si spiegano le indagini astronomiche che vengono premesse alle analisi più strettamente mediche per l’individuazione della tipologia di morbo. Lo scopo è quello di limitare il più possibile l’azione degli astri e, in alcuni casi, Ingrassia supera l’astrologia con l’astronomia, come quando per sgomberare il campo da possibili influenze astrali nella genesi dell’epidemia del 1575 afferma che l’unico fenomeno degno di nota era stata un’eclissi, avvenuta il 13 di novembre, ma questa non poteva avere nessuna correlazione con il morbo che imperava nei territori del Regno

poiché essendo la Sicilia (come dicono gl’Astronomi) soggetta al leone, segno della medesima triangolarità di saggittario, et oltra essendo stato il donatore di tal eclissi il pianeta Giove, non ha tanta forza di malignità in questo Regno di far pestilenza, né anco di durare insino ad hoggi. Et se pur fossino di qual si voglia malignità, non vi è ragion perché in Palermo, Messina, Sciacca, et alcune altre poche Città e Terre solamente, et non in luoghi lor circonvicini sia stato tale influsso celeste.[33]

Inoltre, occorre tenere presente che gli astri erano tra i fattori, assieme all’età, al sesso, alla condizione sociale, che spiegavano meglio la diffusione del contagio, sia in termini di mortalità differenziata, sia per chiarire perché veniva colpita una parte della popolazione, mentre un’altra risultava indenne: ciò accadeva perché gli astri predisponevano per analogiam i corpi a ricevere o a respingere i seminaria.[34] Ingrassia, quindi, col ridimensionamento della capacità d’azione degli astri sulla Terra apre la strada ad un progressivo distacco della medicina dall’astrologia che culminerà in pieno Seicento, tra l’altro, con la pubblicazione del Delle cagioni di Borelli.[35]

L’opera borelliana risulta ancora più significativa se si tiene conto che essa non rappresenta il frutto più maturo del galileismo dello scienziato partenopeo – che vedrà la sua massima espressione, a distanza di un trentennio, con la pubblicazione del De motu animalium –, benché porti con sé già gli elementi cardini della scienza moderna che, in quest’opera, si intrecciano con l’eredità iatrochimica che Borelli mutua da Castelli. Ciò spiega, come sottolinea Oreste Trabucco, le ragioni per le quali il Delle cagioni «non è pensabile senza l’intersezione dell’esperienza romana del suo autore, del viaggio da lui compiuto nei centri italiani tra il 1641 ed il 1642, della tesaurizzazione di quanto prodotto dalla cultura messinese espressa da uomini come Pietro Castelli».[36] Queste premesse chiariscono assai bene il sottotitolo dell’opera dove si precisa che, nella parte finale, si tratterà della digestione dei cibi con un nuovo metodo, un modello che si allontana decisamente dalla concoctio galenica e afferma l’esistenza di un succo digestivo che scompone i cibi che, ancora prima di essere esposto nelle opere di van Helmont, circolava nella medicina del nord Europa.
Pur con questi presupposti, nel Delle cagioni emerge prepotentemente la matrice galileiana del suo autore, Borelli infatti non lesina attacchi all’astrologia e alla superstizione ad essa correlata utilizzando il piglio dello scienziato e delle impareggiabili argomentazioni di carattere astronomico, sorrette da ragioni probabili, e verisimili, e segnate da una pungente ironia. Su questo tema, la vicinanza con Castelli risulta evidente, infatti entrambi si collocano sul fronte di coloro che criticano aspramente l’astrologia, benché Castelli creda ancora nella possibile origine divina o demoniaca delle epidemie. Nel suo argomentare, Borelli evidenzia che secondo il parere degli astrologi due erano stati gli eventi che avevano introdotto in Sicilia il seme delle febbri petecchiali del 1647-48: il primo era l’eclisse lunare del 20 gennaio 1647, l’altro la congiunzione di Giove e di Marte. Borelli dimostra che le congiunzioni avvengono mediamente ogni 29 giorni, dunque credere a tali influssi è ragionare allo stesso modo di colui che si aspetta fulmini «ogni volta che l’aria è coperta di nuvole».[37] Inoltre, per quanto riguarda i fenomeni lunari, evidenzia che «l’effetto della detta eclisse lunare dovea cominciare verso la fine del primo quadrimestre, perche il luogo eclitico non era ancor giunto al meridiano; si che doveva haver principio doppo il mese di Maggio»,[38] eppure fu allora che a Palermo cessarono le febbri maligne. Inoltre, il suo effetto non si sarebbe dovuto prolungare oltre il mese di settembre «perche il tempo della dimora lunare nell’ombra fu meno di 3 hore, e ciascheduna delle dette hore eclittiche importa un mese; si che tre mesi solamente doveva durare la malignità»;[39] nondimeno fu dopo il mese di settembre che le febbri maligne cominciarono a farsi sentire a Messina, perseverando inoltre per tutto l’inverno e la primavera. Infine, Borelli sottolinea che queste febbri non dovevano colpire tutta la Terra, ma solamente le città che hanno per ascendente il segno eclittico o dell’angolo precedente, dunque si sarebbe dovuta presentare

solamente nelle Città di Granata, Tunisi, Venetia, Genova, Lucca, Pisa, e Milano, perche nell’angolo precedente trovavasi il segno di cancro, al quale le dette Città sono soggette: & in Damasco, Siracusa, Roma, Ravenna, e Praga perche il luogo dell’eclisse era il segno del Leone, a cui soggiacciono i detti luoghi. Ma le due Città di Messina, e Palermo non dovevano patire un minimo detrimento, essendo elle soggette non a quei segni, ma allo Scorpione, & al Toro.[40]

Borelli, in altre parole, dimostra che le argomentazioni addotte dagli astrologi non sono sostenibili scientificamente e, dunque, affidarsi alla giudiziaria è come affidarsi alla fortuna, quando non si incorra nel dolo dell’indovino che deduce e predice ciò che gli è più conveniente. Queste affermazioni, oltre a collocarsi nel solco delle teorie antiastrologiche, minavano alla base uno dei fondamenti della medicina tradizionale, ossia quello della corrispondenza tra gli umori e gli astri, infatti tra le tre possibili cause della febbre, la seconda, che spiegava la corruzione dell’aria dalle «cattive influenze delle stelle, o del sole»,[41] viene criticata e sostituita dall’idea che l’aria non si corrompe mai, ma ciò che determina la malattia sono delle particelle velenose o pestilenziali che si insinuano nell’aria pura: «stimo che rimanendo la sostanza dell’aria intatta serva ella per vehicolo, come il pane, o l’acqua quando se gli mescolasse arsenico, o sublimato...».[42] L’alternativa di Borelli sembra, dunque, ricalcare l’eziogenesi dei morbi di matrice ingrassiana, fondata come detto in precedenza, sui seminaria pestis, tuttavia sebbene entrambe le visioni possono essere ricondotte alla ripresa dell’atomismo nella prima età moderna, esse non sono sovrapponibili proprio perché in Borelli la teoria si inserisce in una cornice meccanicistica che con le sue leggi regola il movimento dei fluidi e dei solidi, in un contesto, quello del Delle cagioni, imbevuto della chimica di cui si era fatto promotore Castelli. Infatti, come scrive Borelli, è tipico della natura estrarre con artificio chimico

spiriti, e finissime esalationi, dalle materie terrestri, in estremo grado corrosive, e penetranti, e di natura simile a i veleni, nella incredibile sollecitudine di corrompere, con maniere virgola e circostanze diverse, ha fatto da quelle virgola che si conservano nelle materie ordinarie elementari: e se la cava da i solfi, e da altri sali per accenderne i fulmini, sarà pur necessario che da gli arsenici, e dall’altre miniere velenose ne attragga esalationi, essendo queste, e quelle similmente esposte attorno la superficie terrestre, et essendo lo stesso Sole che attorno l’une, e l’altre si irraggia.[43]

Il passo successivo, compiuto dallo scienziato partenopeo, non è meno importante dei precedenti, infatti, sulla scorta del suo maestro Campanella, interpreta la febbre non come morbo, ma come una medicina che il corpo oppone al male proveniente dall’esterno.[44] A questo punto non stupisce che anche sulla curativa, basata suoi fiori di zolfo,[45] Borelli manifesti una certa continuità con la iatrochimica largamente presente a Messina, proprio per l’insegnamento di Castelli.

In conclusione, lo spaccio dell’astrologia dalla medicina, iniziato un secolo prima, trova nell’opera di Borelli una delle massime espressioni del XVII secolo. Resta il fatto che, tra Cinque e Seicento, il legame tra medicina e astrologia era profondamente radicato nella cultura della prima età moderna non solo tra i medici di professione, ma circolava come un fiume carsico tra i diversi strati della popolazione financo a diventare parte delle beaux arts e belles lettres. Così non deve stupire che nel Riccardo II di Shakespeare, composto intorno al 1595, il duello tra Bolingbroke e Mowbray, che si imputano a vicenda la morte di Thomas Woodstock, duca di Gloucester, venga evitato dallo stesso sovrano perché astrologicamente non era mese per fare salassi.

Wrath-kindled gentlemen, be ruled by me;

Let’s purge this choler without letting blood:

This we prescribe, though no physician;

Deep malice makes too deep incision;

Forget, forgive; conclude and be agreed;

Our doctors say this is no month to bleed.

Good uncle, let this end where it begun;

We’ll calm the Duke of Norfolk, you your son.[46]

 

 

 

[1] A. Manzoni, I promessi sposi - Storia della colonna infame, a cura di S. S. Nigro, Torino, Einaudi, 1998, p. 989.

[2] Ivi, p. 986.

[3] P. Bruegel, Il trionfo della morte (1562-1563), https://www.museodelprado.es/en/the-collection/art-work/the-triumph-of-death/d3d82b0b-9bf2-4082-ab04-66ed53196ccc [consultato l’8/03/2023].

[4] Cfr. P. Preto, Epidemia, paura e politica nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 35.

[5] La creazione dei lazzaretti, molto più simili agli ospedali che agli antichi lebbrosari, determinò una spinta notevole nella riforma degli istituti sanitari della penisola che aveva avuto il suo incipit nel XV secolo. Cfr. G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 67-68.

[6] Nel paradigma dei moderni rimane ancora viva l’idea che la peste possa essere generata anche da presenze demoniache o dallo stesso Dio come misura punitiva inflitta agli uomini per i loro peccati. La medicina, stricto sensu, non si occupò di questa particolare forma di peste, in quanto sulle sue cause i medici non potevano agire dipendendo dal volere di Dio o dalla malvagità del diavolo.

[7] A. Manzoni, I promessi sposi, cit., p. 988. Nel 1348 «nelle egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali…» (G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1992, I p. 14; il corsivo è mio).

[8] E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 113 e 128-130.

[9] Cfr. R. French, Astrology in Medical practice, in L. Garcia-Ballester, R. French, J. Arrizabalaga, A. Cunningham (eds.), Practical Medicine from Salerno to the Black Death, Cambridge, Cambridge University press, 1993, pp. 33-37; E. Casali, “Anatomie astrologiche”. Melotesia e pronosticazione (sec. XVI-XVII), in C. Pancino, G. Olmi (a cura di), Anatome. Sezione, scomposizione e raffigurazione del corpo fra Medioevo e età moderna, Bologna, Bononia University press, 2012, pp. 161-183.

[10] A. Manzoni, I promessi sposi, cit., p. 717.

[11] G. Cardano, L’oroscopo di Cristo, a cura di A. Torno, Milano, La Vita Felice, 2022.

[12] Cfr. G. Ernst, Magia e Astrologia, in AA.VV., Storia della Scienza, vol. IV (Medioevo, Rinascimento), Roma, Treccani, 2001, p. 679; A. Grafton, N. Siraisi, Between the Election and My Hopes: Girolamo Cardano and Medical Astrology, in W. R. Newman, A. Grafton (eds.), Secrets of Nature: Astrology and Alchemy in Early Modern Europe, Cambridge (MA), Harvard University Press, 2001, pp. 69-131.

[13] Si veda, a tal riguardo, soprattutto la seconda parte dell’opera dell’astronomo. Cfr. C. Tolomeo, Le previsioni astrologiche (Tetrabiblos), a cura di S. Feraboli, Milano, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, 1989.

[14] Ivi, p. 15.

[15] «A supporto dell’interpretazione astrologica di Ippocrate, dal XIII-XIV secolo cominciarono inoltre circolare almeno tre versioni latine (Guglielmo di Moerbeke e Pietro d’Abano traducono dal greco, uno o più traduttori e anonimi dall’arabo) di un’opera apocrifa che sarà conosciuta anche nel Rinascimento in diverse edizioni a stampa: l’Astrologia o Astronomia Hippocratis» (C. Pennuto, La medicina astrologica: nascite, pesti e giorni critici, in M. Conforti, A. Carlino, A. Clericuzio [a cura di], Interpretare e curare. Medicina e salute nel Rinascimento, Roma, Carocci, 2013, p. 62).

[16] Cfr. T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, Bari-Roma, Laterza, 2006, p. 287.

[17] Certamente Campanella, come molti suoi contemporanei, aveva letto il terzo volume del De triplici vita di Ficino, il cui padre era stato medico di Cosimo il Vecchio, dove sono dipanate le strette relazioni tra i corpi superiori, pianeti e costellazioni, e quelli inferiori, e come queste influenzano la salute degli uomini. Cfr. M. Ficino, De triplici vita, Antonio Miscomini, in agro Caregio, 1489; M. M. Bullard, The Inward Zodiac. A development in Ficino’s Thought on Astrology, «Renaissance Quarterly», 43, 4, 1990, pp. 687-708.

[18] F. Maiello, Storia del calendario. La misurazione del tempo, 1450- 1800, Torino, Einaudi, 1994, p. 71.

[19] Cfr. Ivi, p. 77.

[20] C. Galeno, De differentiis febrium, in Id., Opera omnia, editionem curavit D. Carolus Gottlob Kühn, Lipsiæ, prostat in officina libraria Car. Cnoblochii, 1821, vol. VII, pp. 289-290.

[21] Cfr. Pseudo-Aristotle in the Middle Ages. The theology and other texts, edited by Jill Kraye, W.F. Ryan, Charles B. Schmitt, London, Warburg Institute, University of London, 1986.

[22] E. Garin, Lo zodiaco della vita, Roma-Bari, Laterza, 1976, p. 9.

[23] Cfr. G. Pico della Mirandola, Disputationes adversus astrologiam divinatricem, a cura di E. Garin, Firenze, Vallecchi, 1946-52, vol. I, Proemio. È opportuno sottolineare che la battaglia di Pico contro l’astrologia non anticipa i registri polemici della nascente scienza moderna, bensì viene condotta per rivendicare la libertà dell’essere umano la cui azione non è soggetta alla natura, ma solo alla divinità. Comprendiamo pienamente lo sguardo di Pico se teniamo in considerazione il fatto che il suo rifiuto delle cause occulte va di pari passo con l’accettazione della magia naturale quale strumento per conoscere i principi della realtà. Cfr. E. Garin, Lo zodiaco della vita, cit., p. 103.

[24] Cfr. G. Pico della Mirandola, Disputationes adversus astrologiam divinatricem, cit., pp. 322-348.

[25] Cfr. D. Verardi, Astrologia e Controriforma. A proposito della Coeli et terrae di Sisto V, «Sapienza», LXII, 2009, pp. 349-356.

[26] Galeno menziona dei loimoĆ© spérmata (semi pestilenziali) parlando della diffusione del morbo, quando vuole dimostrare che i semi non contagiano necessariamente tutti quelli che entrano in contatto con gli ammalati. Cfr. C. Galeno, De differentiis febrium, cit., pp. 273-405.

[27] Cfr.  A. Labellarte, Atomismo e corpuscolarismo nella Napoli di fine Seicento, Roma, Armando, 2019, pp. 15-19; C. Pennuto, Simpatia, fantasia e contagio. Il pensiero medico e il pensiero filosofico di Girolamo Fracastoro, Roma, Storia e Letteratura, 2008.

[28] V. Nutton, Ippocrate nel Rinascimento, in M. Conforti, A. Carlino, A. Clericuzio (a cura di), Interpretare e curare. Medicina e salute nel Rinascimento, cit., p. 38.

[29] G.F. Ingrassia, Ragionamento, fatto in presenza del Magistrato sopra le infermità epidemiali, e popolari successe nell’anno 1558, in Id., Trattato assai bello, et utile di doi mostri nati in Palermo in diversi tempi, Palermo, s.e., 1560; M. Aymard, Epidémies et médecins en Sicile à l’époque moderne, «Annales Cisalpines d’Histoire Sociale», 4, 1973, pp. 9-21.

[30] Cfr. G.F. Ingrassia, Informatione del pestifero et contagioso morbo, a cura di L. Ingaliso, Milano, FrancoAngeli, 2005, p. 143.

[31] G.F. Ingrassia, Ragionamento, cit., p. 42.

[32] Cfr. G.F. Ingrassia, Informatione, cit., p. 84.

[33] Ivi, pp. 18-19.

[34] Cfr. Ivi, pp. 43-45, 81.

[35] G.A. Borelli, Delle cagioni delle febbri maligne della Sicilia negli anni 1647 e 1648, In Cosenza, per Gio. Battista Rosso, 1649.

[36] O. Trabucco, «Delle cagioni delle febbri maligne» di G.S. Borelli, Una lettura contestuale, in «Giornale critico della filosofia italiana», 20, 2000, p. 279.

[37] Ivi, p. 70.

[38] Ivi, p. 88.

[39] Ibid.

[40] Ivi, pp. 88-89.

[41] Ivi, p. 65.

[42] Ivi, p. 55.

[43] Ivi, p. 108.

[44] Ivi, p. 157.

[45] Ivi, pp. 139-140.

[46] W. Shakespeare, King Richard II, London-NewYork, Routledge, 1989, pp. 11-12 (il corsivo è mio).


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EPIDEMIOLOGIA , STORIA MODERNA , CORPI


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Storia

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