Dalla città come corpo ai corpi (in)visibili nello spazio: una rassegna critica in geografia

di Teresa Graziano

1. Introduzione

Corpi come rappresentazioni, come allegorie e dispositivi metaforici, corpi come oggetto di narrazioni e soggetti che si muovono attraverso lo spazio: nella disciplina geografica il corpo ha storicamente svolto la funzione di attivare processi di (ri)significazione spaziale, essendo la prima dimensione scalare attraverso cui si esplica il rapporto con lo spazio e agendo da vero e proprio sistema di intermediazione tra il locale e il globale, tra il pubblico e il privato. In virtù delle diverse modalità e cornici teoriche che descrivono, mobilitano o usano il corpo nella disciplina geografica, il contributo propone una rassegna critica dei modi attraverso cui esso si pone in relazione con con/dentro gli spazi, soprattutto urbani, nell’alveo di diversi filoni di ricerca geografica: dalla geografia femminista declinata nell’approccio intersezionale, che esplora come meccanismi di embodiment/disembodiment possono riprodurre nello spazio relazioni di potere egemoniche legate non solo al genere, ma anche alla classe sociale e all’etnia; alla geografia politica e delle migrazioni, che indagano come i corpi attraversano confini e barriere – non soltanto quelli squisitamente fisico-geografici –  o, al contrario, rimangono intrappolati nell’invisibilità, riflettendo disuguaglianze che, pur afferendo alla sfera globale, si traducono in forme di esclusione territorializzata (si pensi ai migranti, agli homeless, agli “indesiderabili” in generale).
In modo particolare, il contributo si focalizza sul ruolo rivestito dalle nuove tecnologie nel ripensare i rapporti tra corpi, spazi e luoghi: da un lato, attivando un (presunto) processo di demateralizzazione che confina la tangibilità dei corpi a un coacervo di pixel nella dimensione digitale, seppur usati come veri e propri “sensori umani” nella città smart; dall’altro, in un cortocircuito spaziale, assegnando ai corpi nuove forme di abitare nello/con lo spazio che scardinano i paradigmi fondanti della geografia (dentro/fuori; vicino/lontano; pubblico/privato) e sembrano disegnare un nuovo Aleph, per dirla con Borges: lo spazio dove tutti i luoghi (e i corpi) si incontrano è, oggi, il Metaverso?

Partendo, dunque, dalle carte antropomorfe e dalle prime visioni organiciste che identificavano nella città un sistema complesso di arterie, flussi, organi alla stregua di un corpo, appunto, il contributo si propone di restituire la prospettiva della geografia sulla relazione tra spazio, prevalentemente urbano, e corpi, intesi in tutta la loro agency: non tanto come involucri del nostro abitare nel mondo ma soggetti attraverso cui si incorporano nello spazio inedite forme di relazione tra gli individui e tra di essi e i contesti in cui si muovono, attraverso cui passano, o nei quali sono confinati, sempre più spesso mediati dalle nuove tecnologie.

 

2. All’origine era una carta: i (primi) corpi in/per la geografia

Per secoli, il corpo in geografia è stato funzionale alla mera rappresentazione cartografica. La fiorente tradizione di carte antropomorfe testimonia di un utilizzo del corpo umano come strumento di descrizione/narrazione visuale di tipo allegorico, non come oggetto e ancor meno soggetto dell’indagine geografica, sprovvisto di qualunque agency: strumento di geo-grafia, intesa letteralmente come descrizione/interpretazione del mondo, ma non per questo dispositivo neutrale di rappresentazione del territorio. Partendo dall’assunto ormai assodato nella disciplina che nessuna carta racconta la verità, come ci ricorda Farinelli nel suo Crisi della ragione cartografica,[1] ancor meno la verità o anche una sua approssimazione emerge dalle carte antropomorfe, che riflettono in modo palese i rapporti di potere egemonici attraverso cui stati e continenti piegano la realtà geopolitica alle visioni, agli obiettivi e ai pregiudizi delle loro rappresentazioni.[2]

Ne sono prova le carte che, a partire da fine Cinquecento, rappresentano continenti e paesi con corpi di animali o persone, come la Cosmografia di Sebastian Münster del 1570, o certe incisioni in cui il corpo è ritratto in forma allegorica, come le Feminae Pictae di Theodor de Bry del 1590, in cui “amazzoni” incastonate nel paesaggio dell’antica Britannia dimostrano una connessione tra i “selvaggi” della Virginia appena scoperta e i popoli dell’antica Inghilterra.[3] Il corpo femminile, dunque, è funzionale alla riproduzione di schemi coloniali impregnati di quell’orientalismo di cui parlava Said[4] e che confinavano il “subalterno”,[5] privato di qualunque agency, a rappresentazioni distorte e limitanti.

Questa visione antropomorfa dello spazio è evidente nella celebre carta “The Man of Commerce” (fig. 1) pubblicata nel 1889, nella quale l’anatomia del corpo umano si “piega” a rappresentare il sistema di trasporti americano con l’evidente connotazione metaforica di identificare l’Ovest con il centro della circolazione cardiaca.

Il corpo, nella sua complessa articolazione biologica, è funzionale anche a rappresentare metaforicamente la complessità di flussi e relazioni spaziali che caratterizzano la scala urbana. La teoria organicista delineatasi nell’Ottocento, infatti, descrive il metabolismo urbano in relazione al suo ciclo vitale. Reclus[6] sostiene che «come ogni organismo che si sviluppa, la città tende anche a morire». Se, dunque, le città per l’Autore possono diventare «dei corpi organici perfettamente sani e belli»[7] e il movimento che avviene al loro interno è paragonabile allo «scorrere del sangue nel corpo umano»,[8] nello stesso solco Lavedan[9] dichiara che «la città è un essere vivente. Come ogni essere vivente, essa nasce, cresce, muore». Come evidenziato da Cattedra e Governa,[10] l’ambiguità della concezione organicista risiede non soltanto nel relegare la trasformazione della città in visioni meramente evoluzioniste – dal villaggio alla metropoli – ma anche nell’usare il corpo non come cornice epistemologica, piuttosto come semplice dispositivo metaforico. Eppure, questo linguaggio rimarrà di grande fascinazione per gran parte del XX secolo, scandito da trame, arterie, organi, tessuti, ma anche flussi, circolazione e cancri da estirpare - i quartieri degradati: un’intera galassia linguistico-discorsiva risulterà dominante anche per legittimare in pieno clima positivista e igienista la lettura diagnostica di città “malate”, rese insalubri dalla Rivoluzione Industriale.[11] È anche attraverso questa retorica che trovano legittimazione gli interventi di “risanamento”, di demolizione e ricostruzione, finalizzati a estirpare certe “escrescenze urbane”: dalla Parigi hausmanniana allo sventramento di Napoli e, nel secolo successivo, di San Berillo a Catania.[12]

 

3. Di corpi e femminismi

Esclusi i corpi come fonte immaginifica di rappresentazione cartografica e, nel XX secolo, alcune riflessioni e analisi pionieristiche sulla relazione tra corpo e spazio,[13] la prospettiva geografica arranca per anni dietro altre discipline in merito alla problematizzazione del corpo come oggetto/soggetto di indagine. Tradizionalmente sono gli approcci femministi, queer, poststrutturalisti e post/de-coloniali che per primi prendono in considerazione il corpo per comprendere come le diverse forme di potere, e gli squilibri e disuguaglianze che derivano dalle reciproche interazioni, agiscono con e attraverso lo spazio per finalità di controllo, regolamentazione, delimitazione.[14]

Nel solco di Foucault,[15] il filone femminista decostruisce la soggettività del corpo esplorando il soggetto embodied attraverso approcci che spaziano dall’intersezionalità e dal poststrutturalismo alla standpoint theory, la “teoria del punto di vista”: prospettiva, quest’ultima, che postula come la conoscenza, essendo socialmente situata, sia accessibile in modo differente ai gruppi marginali. Se la prima visione, infatti, si ancora epistemologicamente al corpo per valutare come le appartenenze identitarie multiple di etnia, classe, genere e orientamento sessuale incidono nelle relazioni con e nello spazio pubblico, il poststrutturalismo interpreta il corpo come textum, una sorta di superficie in cui si iscrivono le identità, mentre la standpoint theory vi identifica l’elemento centrale per decostruire il contesto identitario e gli influssi locali.

Negli anni l’approccio femminista si è differenziato, andando al di là della mera inclusione del corpo femminile nelle ricerche sullo spazio pubblico e riposizionandolo non più come oggetto passivo di esclusione/estromissione o negazione empirica da pratiche e discorsi spaziali, ma come “sito” attivo di impegno politico e resistenza.[16] Il corpo, muovendosi attraverso lo spazio e il tempo, diventa espressione di relazioni di potere e dei conflitti che vi emergono: si pensi, per esempio, alla conflittualità scaturite in relazione alle donne velate nello spazio pubblico. Inoltre, il corpo include una dimensione “scalare”, inteso come livello spaziale in cui si riverberano e attraverso cui si attivano processi geopolitici transcalari: Mayer,[17] per esempio, definisce gli stupri avvenuti nel caso di genocidi come atti politici perpetrati alla scala del corpo, usato come un vero e proprio territorio per l’espressione violenta dei nazionalismi.

A partire da metà anni 2000, il corpo e i processi di incorporazione/disincorporazione calamitano in maniera crescente l’interesse dei geografi, traducendosi in una vasto repertorio di posture teoriche e di approcci analitici non più confinati ai sub-settori disciplinari in cui tradizionalmente è stato mobilitato, come quello femminista, ed estesi alla geografia culturale e politica: il corpo è sì oggetto di indagine, ma anche strumento analitico, dimensione di scala, sito in cui/attraverso cui si esplicano processi spaziali, spazio di rappresentazione.

Il corpo non a caso è centrale nelle lotte contro le forme di imperialismo e (neo)colonialismo, brandito come un vero e proprio luogo di espressione, rivendicazione e performatività della sovranità come nel caso di numerose comunità indigene, sistematicamente confinate all’invisibilità. Per il materialismo storico femminista ispirato al marxismo, infine, i corpi sono “beni” (commodities) che agiscono da ingranaggi involontari dei sistemi capitalistici e di riproduzione sociale, a cui viene assegnato un valore in base al quale possono essere commercializzati, di cui si può disporre o – all’opposto – liberare.[18] Da qui emerge quella tendenza all’invisibilizzazione degli homeless, per esempio, percepiti come superflui nel sistema neoliberista globale e non funzionali ai suoi meccanismi: anzi, giudicati come disturbanti rispetto alla linda omogeneità dei corpi normalizzati.

È proprio nei primi anni Duemila che l’ampia letteratura di matrice critica si sofferma a indagare le differenti e spesso conflittuali modalità attraverso cui corpi, luoghi e spazialità si influenzano reciprocamente, risultando strettamente intrecciati. Essendo sempre localizzabili/territorializzati, le soggettività incorporate nello spazio (ri)producono conoscenze che non riguardano soltanto il nostro stare nel mondo, ma anche, sottolinea Longhurst,[19] il modo in cui le conoscenze sono riprodotte.

 

4. Spazi e corpi: esclusioni, controllo, sorveglianza tecnologica

Una vasta letteratura critica nell’ambito degli studi urbani sollecita l’adozione di una prospettiva di genere nella pianificazione per consentire di superare approcci escludenti nell’organizzazione degli spazi.[20] L’obiettivo è scongiurare che la pianificazione urbanistica possa «riprodurre, invece che mettere in discussione, stereotipi legati al genere, alla classe e alle divisioni dei ruoli nell’ambito familiare», distinguendo tra lo spazio intimo, privato e inviolabile della casa, tradizionalmente assegnato alle donne confinante all’invisibilità, e quello aperto, pubblico concesso agli uomini, non a caso percepito spesso come pericoloso dalle donne sminuite a corpi sessualizzati.[21] Facendo ricorso a quella che viene definito un approccio geografico “viscerale”, Ortiz Escalante e Gutiérrez Valdivia sostengono la necessità di mobilitare i corpi come nesso tra spazi pubblici e spazi privati, dimensione in cui si dispiegano le identità di genere e come vera e propria scala di pianificazione, partendo dalla quale si possono progettare città più inclusive. L’approccio “viscerale” consiste nel raccogliere dati sulla percezione di sicurezza/insicurezza, agio/disagio a partire dalle sensazioni sensoriali e psicologiche e, attraverso pratiche partecipative di pianificazione, coinvolgere un repertorio variegato di utenti dello spazio pubblico, superando la visione normalizzatrice e regolatrice della pianificazione tradizionale.

Nei processi di pianificazione, governance e management urbano il corpo si impone come una nuova inedita scala di esplorazione spaziale in particolare in relazione alla diffusione delle nuove tecnologie nell’ambito della Smart City: ovvero una città in cui le tecnologie smart sono integrate in sistemi complessi per migliorarne la vivibilità e governabilità. 

La crescente pervasività delle tecnologie e la loro rilevanza per le soggettività incorporate nello spazio si inseriscono nel quadro più ampio delle riflessioni delineatesi all’indomani della nascita dell’internet, che ha indotto la disciplina geografica a interrogarsi persino sulla sua stessa “sopravvivenza” come scienza spaziale, poiché la Rete scardina le tradizionali categorie empiricamente rilevabili. Ne consegue che il dibattito geografico sul cyber-spazio per anni si incaglia sull’antinomia reale/virtuale, presupponendo la fine dello spazio geografico tangibile, fagocitato da quello digitale. «Dialettiche consolidate come centro/periferia, vicino/lontano cominciano a declinarsi secondo parametri differenti, che rispondono alle dicotomie accesso/disconnessione, visibile/non visibile»,[22] alimentando una dicotomia ancora più escludente e radicale, come la definisce Bonora, secondo cui «essere distante oggi è non essere, non essere connesso ai flussi e alle reti che innervano la globalizzazione».[23]

Il disorientamento epistemologico innescato dall’emergere di inedite dialettiche geografiche induce gli studiosi a tentare di “mappare” il cyberspazio come dimensione aggiuntiva, apparentemente deterritorializzata che inferisce, però, sugli spazi geografici. Superato questo primo approccio tecno-determinista, che postula la fine delle distanze e delle barriere, si approda alla consapevolezza che «geography still matters».[24] L’innegabile compressione spazio-temporale di cui parla Harvey,[25] che segna la nascita della postmodernità e che risulta ancor più amplificata dalle ICTs, non decreta la “morte” dei territori e delle categorie spaziali, ma ne determina una loro riconfigurazione. Le tendenze alla concentrazione del sistema di flussi e reti, su cui si innervano le infrastrutture necessarie alla digitalizzazione – esse sì, profondamente ancorate al territorio – non fanno altro che plasmare nuove polarizzazioni socio-economiche indotte dal divario digitale.[26]
Negli ultimi anni, la scala di analisi dell’impatto del digitale è cambiata: se prima la scala era globale e/o regionale, gli effetti prodotti dalla riconfigurazione digitale sono sempre più indagati alla scala di città, quartieri, e, appunto, corpi. I dispositivi mobili e indossabili, miniaturizzabili – dagli auricolari agli smartwatch – si radicano nelle pratiche spaziali quotidiane attraverso il corpo, al quale quasi si assimilano, equiparabili a propaggini, veri e propri arti che attivano un continuo sconfinamento tra la sfera pubblica e quella privata.   Questa convergenza tecnologica crescente si dispiega sia in termini spaziali che temporali, poiché le tecnologie sono potenzialmente utilizzabili su ogni superficie urbana così da trasformare ogni luogo - e ogni momento - in un atto di intermediazione tecnologica:[27] tra spazi reali e virtuali, corpi e dispositivi tecnologici si attivano insomma processi di ibridazione, più che di reciproca esclusione/opposizione.
Non a caso, secondo i geografi della comunicazione Jansson e Falkheimer[28] sono proprio mobilità e convergenza tecnologico-culturale i paradigmi della post-modernità:

superate le pratiche mediali tradizionalmente confinate allo spazio chiuso, immobile e fisso della casa (dal televisore del focolare domestico al telefono fisso e, in anni più recenti, al personal computer), oggi la mobilità mediale consente la produzione e condivisione di messaggi in movimento, generando veri e propri flussi che si intersecano con e nei paesaggi circostanti – i contesti – e producendo connessioni ipertestuali inedite che ne annullano i confini.[29]

In questa mobilità mediale il corpo si attiva da un lato come sensore umano,[30] ma dall’altro si dematerializza nell’atto stesso di comunicazioni mediali che prescindono dall’interazione in presenza: è il paradosso dell’incorporeità del Metaverso, che postula la dematerializzazione dei corpi nella dimensione virtuale ma che allo stesso tempo deve incorporarsi attraverso dispositivi tecnologici per potersi attivare.

Se, da un lato, visioni più intrise di tecno-entusiasmo salutano queste forme mediali mobili come una liberazione delle pratiche comunicative, non più vincolate allo spazio fisso e chiuso, dall’altro lato gli approcci più critici ne evidenziano le contraddizioni e gli aspetti più controversi: «tradizionalmente, i computer sono stati usati per capire le città. Dopo quattro decenni di sviluppo abbagliante, lo stesso computer che noi impieghiamo per capire la città è diventato esso stesso uno nuovo tipo di città […] gli strumenti che noi abbiamo creato alla fine ci creeranno».[31] Questo sovvertimento tra oggetto (città), soggetto (la persona) e lo strumento attraverso cui si esplica la loro relazione (la tecnologia) implica un processo di embodiment/disembodiment sempre più pervasivo perché il corpo non è più funzionale al solo utilizzo del dispositivo, ma si fa esso stesso contenitore e contenuto dell’intermediazione tecnologica. Da qui deriva un rischio incalzante di erosione della privacy, in realtà non nuovo in letteratura,[32] e securizzazione delle politiche e pratiche di controllo che rientrano in quel “capitalismo della sorveglianza” emerso con particolare enfasi durante la pandemia da Covid-19.

L’aspetto più controverso della relazione tra corpi, spazi urbani e nuove tecnologie, infatti, riguarda la facilità con cui i processi di sorveglianza non soltanto permettono la raccolta di dati e la loro ricombinazione, ma plasmano nuovi panopticon digitali che partono dai corpi come dispositivi di intermediazione tecnologica e approdano di nuovo ai corpi: sempre più controllati, schedati, registrati. Graham e Wood[33] già nel 2003 parlano di un super-panopticon, un sistema di sorveglianza senza mura, finestre, torri o guardiani che raccoglie, ricombina e stocca dati in tempo reale, con implicazioni che vanno ben oltre le questioni legate alla privacy o al controllo sanzionatorio. Nel solco della biopolitica di Foucault[34] e della sua analisi, di ispirazione geografica, dei rapporti tra territorio, popolazione e sicurezza, il corpo diventa esso stesso dispositivo a servizio della politica securitaria. Le telecamere di videosorveglianza che punteggiano gli spazi pubblici, secondo questa visione, annullano la tangibilità dell’osservatore – che non è visto e, spesso, non è nemmeno presente nell’atto stesso dell’osservazione, delegata alla tecnologia. Così, la relazione tra dispositivo tecnologico e corpo nello spazio pubblico si declina in termini di normalizzazione indotta da uno sguardo asettico, tecno-mediato che monitora e soprattutto registra e stocca i dati: l’osservatore non soltanto è in qualche modo sempre presente nello spazio, come nella prigione di Bentham, ma anche nel tempo, grazie alla possibilità di accedere ai dati registrati. Con le videocamere negli spazi pubblici la tecnologia del potere è elettronicamente estesa e potenzialmente replicabile all’infinito, tanto da trasformare le nostre città in enormi panopticon in cui il controllo sociale informale della persona è sostituito dall’asettico e incessante controllo del dispositivo tecnologico.

 

5. Le traceabilities dei corpi migranti

La dialettica tra invisibilità-disincorporazione e visibilità-incorporazione, entrambe tecno-mediate, diventa ancor più evidente nel caso di corpi in cui si esplica la transcalarità di processi geopolitici e geoeconomici complessi come quelli dei migranti.

Come ricordano Diaz e Nicolosi,[35] la numérisation (“digitalizzazione”) del fenomeno migratorio implica pratiche profondamente situate nei corpi di donne e uomini migranti:

Il digitale è diventato un vero e proprio campo di battaglia tra coloro che vogliono cancellare le tracce dell’identità dei corpi dei migranti, vivi o morti, e coloro che vogliono ricostruirle [...]: da un lato, la cancellazione (da parte dei migranti illegali che devono cancellare le loro tracce o dei poteri pubblici che fanno sparire le tracce della loro morte, scomparsa o repressione), e dall’altro la ricostruzione delle tracce (dalla tracciatura dei migranti nei database di impronte digitali alla difficile ricostruzione, da parte di esperti forensi, delle tracce dei migranti morti e scomparsi).

L’emergere del “migrante connesso”[36] e, dunque, delle nuove tecnologie nelle diverse fasi delle migrazioni evidenzia la necessità di valutare non soltanto i flussi, le trajectories, ma anche le traceabilities,[37] ovvero quei “segni” continuamente impressi negli ambienti digitali, tracce di passaggi virtuali che rivelano, però, una potente pregnanza nella dimensione reale”:[38] basti pensare alla mole di dati digitalizzati di repository e dataset finalizzati al controllo delle frontiere. Non a caso, per Diaz e Nicolosi[39] la digitalizzazione dell’esperienza migratoria rivela una forte componente quantitativa – sotto forma di numeri, statistiche, database che sintetizzano i percorsi migratori –, definita come représentation numérique par quantification.

Da un lato, il digitale assolve a un potenziale di emancipazione e di “visibilizzazione” rilevante per i migranti, per i loro corpi in movimento, perché le nuove tecnologie rappresentano dispositivi “salvavita” nelle diverse fasi della mobilità migratoria. Dall’altro, «le nuove tecnologie possono esercitare un altro potere – opposto al primo – di dematerializzazione, “disindividualizzazione”, reso possibile dalle dinamiche di astrazione e riduzionismo virtuale che certe pratiche di controllo dei flussi inevitabilmente comportano».[40] È, dunque, di nuovo con e sui corpi delle persone (migranti) che le nuove tecnologie esprimono il loro potere emancipatorio o, al contrario, disumanizzante.

 

6. Considerazioni conclusive

Contrariamente a una letteratura tecno-entusiasta che identifica nelle nuove tecnologie la panacea contro i divari territoriali e per la gestione e pianificazione urbana, un filone critico non manca di evidenziarne gli aspetti controversi. Anche muovendoci alla scala dei corpi, meno indagata fino a oggi, la relazione risulta ambigua. Certamente, le nuove tecnologie hanno un potere emancipatorio, schiudendo inedite possibilità di partecipazione, socializzazione, interazione e mobilità, ma occorre ricordare che se i corpi agiscono da sensori (in)volontari, ricettori e co-produttori di informazioni geo-referenziate, risulta cruciale soffermarsi sulla loro agency nella riproduzione di dati adottando quello stesso approccio intersezionale caro al femminismo: è essenziale, cioè, capire come la differenza e la molteplicità di genere, etnia, età non agiscono soltanto in termini di interazioni nello spazio, ma di inter(net)mediazioni che non possono prescindere più dalle nuove tecnologie.
Le conseguenze in termini di nuove disuguaglianze sono evidenti, alimentate dalle cosiddette “software-sorted geographies”[41] ovvero tecniche di sorting mediate dal digitale che, attraverso il potere dell’algoritmo, alimentano nuove disuguaglianze tra persone e luoghi privilegiati e quelli marginali. Il dominio dell’everyware,[42] che estende le nuove tecnologie a tutta la trama urbana, delinea una città in cui i computer e i dispositivi sono talmente incorporati nelle pratiche quotidiane da risultare ormai invisibili.

Tutti questi processi sono emersi in modo più evidente con le azioni di tracciamento e controllo messe in atto durante la pandemia da Covid-19 che da un lato hanno rappresentato sperimentazioni di contenimento epidemiologico, ma dall’altro hanno esacerbato gli aspetti più contraddittori della pandemic Smart City.[43] Durante la crisi sanitaria è proprio il corpo che attiva un’inedita geografia dei contagi che, come ricorda Albanese,[44]

può essere riassunta a diverse scale: il virus si forma alla frontiera dello spazio occupato dal corpo e poi quei corpi, nel raggio dei propri spostamenti, lo trasportano in nuovi spazi semi-chiusi e densamente popolati (specialmente case di cura e ospedali), dove si diffonde rapidamente. I visitatori di questi spazi tra- sportano il virus in nuovi spazi puntuali (per es. luoghi di aggregazione, scuole, case) ma anche in spazi dinamici (per es. lungo tutto il percorso che attraversano) e sui/nei corpi con cui entrano in contatto. La pandemia è dunque una questione geografica che va pensata a diverse scale, inclusa quella primaria e minima del corpo.

Il cortocircuito spaziale cui si accennava al principio nasce proprio dalla pregnanza assegnata al corpo nelle geografie del Covid, vettore e scala dei flussi di contagio, ma anche contenuto/contenitore che attiva nuove forme di abitare nello/con lo spazio, scardinando i paradigmi fondanti della geografia (dentro/fuori; vicino/lontano; pubblico/privato). È attraverso il corpo che prende forma il nuovo Aleph di Borges, spazio in cui tutti i luoghi (e tutti i corpi?) si incontrano, il Metaverso: o, meglio, la rappresentazione proiettata al futuro che circola di esso, essendo al momento niente di più che una visione di marketing.

Come evidenziato in altra sede,

Le nuove spazialità ibride emerse con la crisi epidemiologica, in cui si intrecciano i confini chiusi e tangibili dello spazio privato della casa con quelli sfilacciati e porosi degli spazi interconnessi attraverso lo schermo, attivano una vera e pro- pria mise en abyme – direbbe Gide – di spazi concentrici, incastonati l’uno dentro l’altro senza soluzione di continuità. Non più spazi liminali dell’in-between, ma luoghi-ponte di interazione sempre più pervasivi: un in(ternet)-between che attiva connessioni tra luoghi, spazi, attori secondo modalità non più binarie o dicotomiche.[45]

La consapevolezza di come siano le soggettività incorporate a giocare un ruolo cruciale nelle interazioni tra spazio reale e virtuale, non più dimensioni autonome come nel cyberspace ma integrate nel cyberplace,[46] conduce a quella che Cugurullo[47] chiama la “città Frankenstein”: una città in cui gli spazi urbani tecno-mediati si ribellano come il mostro di Frankenstein, sfuggendo al controllo di chi li ha creati. Ed è interessante sottolineare come sia stata mobilitata proprio la metafora del “Mostro” senza nome, dotato di un corpo nato per assemblaggio di vari corpi, ma deforme, non normalizzato. Un corpo che si appropria della libertà lasciando prefigurare l’iperbole di «a world where we not only think of cities but cities think of us»:[48] senza disconoscere il potenziale “positivo” delle nuove tecnologie, è infatti cruciale interrogarsi fino a che punto i corpi nello spazio pubblico sono soggetti di interazioni tecno-mediate o reificati a oggetti/dispositivi di trasmissione dati.

 

 

 

 

 

[1] F. Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Torino, Einaudi, 2009.

[2] E. Boria, Carte come armi: geopolitica, cartografia, comunicazione, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2012.

[3] L. Rossi, L’altra mappa. Esploratrici, viaggiatrici, geografe, Reggio Emilia, Diabasis, 2005.

[4] E. Said, Orientalism, London, Pantheon Books, 1978.

[5] G.C. Spivak, Can the subaltern speak?, London, Macmillan, Basingstoke, 1988.

[6] E. Reclus, The Evolution of Cities, «Contemporary Review», 1895 (trad. franc. L’evolution des villes, in M. Roncayolo, Th. Paquot [eds.], Villes & civilization urbaine au XVIII-XX siècle, Paris, Larousse, 1992, pp. 158-73, p. 162).

[7] Cfr. ivi.

[8] Cfr. ivi.

[9] P. Lavedan, Géographie des villes, Paris, Gallimard, 1936, p. 9.

[10] R. Cattedra, F. Governa, Definizioni di città: concetti e teorie nella geografia urbana, in F. Governa, M. Memoli, Geografie dell’urbano. Spazi, politiche, pratiche della città, Roma, Carocci, 2011.

[11] U. Rossi, A. Vanolo, Geografia politica urbana, Roma-Bari, Laterza, 2013.

[12] T. Graziano, The ‘blemish of the past’: (un)usual paths of gentrification in a Mediterranean city throughout history, «City», 26, 2-3, 2022, pp. 473-495, DOI: 10.1080/13604813.2022.2054222.

[13] R. Longhurst, The body and geography, «Gender, Place & Culture», 2, 1, 1995, pp. 97-105; H. Nast, S. Pile (eds.), Places through the Body, London, Routledge, 1998.

[14] A. Mountz, Political geography III: Bodies, «Progress in Human Geography», 42, 5, 2018, pp. 759-769.

[15] M. Foucault, The History of Sexuality, Vol. 1, An Introduction, trans. Hurley R., London, Penguin, 1979.

[16] P. Moss, I. Dyck, Women, Body, Illness, Lanham, MD, Rowman and Littlefield, 2002.

[17] T. Mayer, Embodied nationalisms, in L. Staeheli, E. Kofman, L. Peake (eds.), Mapping Women, Making Politics: Feminist Perspectives on Political Geography, New York, Routledge, 2004, pp. 153-167.

[18] R. Orzeck, What does not kill you: Historical materialism and the body, «Environment and Planning D», 25, 2007, pp. 496–514.

[19] Longhurst, The body and geography, cit.

[20] S. Ortiz Escalante, B. Gutiérrez Valdivia, Planning from below: using feminist participatory methods to increase women’s participation in urban planning, «Gender and Development», 23, 1 (Working on gender equality in urban areas), 2015, pp. 113-126.

[21] E.L. Sweet, S. Ortiz Escalante, Planning responds to gender violence: evidences from Spain, Mexico, and the U.S., «Journal of Urban Studies», 47, 10, 2010, pp. 2129-2147.

[22] V. Albanese, T. Graziano, Place, cyberplace e le nuove geografie della comunicazione. Come cambiano i territori per effetto delle narrazioni online, Bologna, Bologna University Press, 2020, p. 62.

[23] P. Bonora, ComCities. Geografie della Comunicazione, Bologna, Baskerville, 2011, p. 12.

[24] M. Paradiso, Geography, Planning and the Internet: Introductory Remarks, «Netcom» 17, 2003, pp. 129-138.

[25] D. Harvey, The Condition of Postmodernity. An Enquiry into the Origins of Cultural Change, Cambridge, Massachusetts, Blackwell Publishers, 1989.

[26] S. Graham, S. Marvin, Splintering Urbanism: Networked Infrastructures, Technological Mobilities and the Urban Condition, London, Routledge, 2001.

[27] N. Thrift, The promise of urban informatics: some speculations, «Environment and Planning A», 46, 2014, pp. 1263-1266.

[28] A. Jansson, J. Falkheimer, Towards a geography of communication, in J. Falkheimer, A. Jansson (eds.), Geographies of communication: The spatial turn in media studies, Goteborg, Nordicom, 2006, pp. 9-25.

[29]  V. Albanese, T. Graziano, Place, cyberplace e le nuove geografie della comunicazione. Come cambiano i territori per effetto delle narrazioni online, cit., p. 62.

[30] M.F. Goodchild, Citizens as sensors: The world of volunteered geography, «GeoJournal», 69, 4, 2007, pp. 211-221.

[31] D. Sui, Reconstructing Urban Reality: from GIS to Electropolis, «Urban Geography», 18, 1, 1997, pp. 74-89, in particolare pp. 84-85, T.d.A.

[32]  A.M. Townsend, Smart cities: big data, civic hackers, and the quest for a new utopia, New York, W.W. Norton & Company, 2013.

[33] S. Graham, D. Wood D., Digitizing Surveillance: Categorization, Space, Inequality, «Critical Social Policy», 23, 2, 2003, pp. 227–248.

[34] M. Foucault, Security, Territory, Population: Lectures at the Collège de France, 1977–1978, London, Palgrave Macmillan, 2007.

[35] P. Diaz, G. Nicolosi, Corps, identités et technologies «par les nombres» dans l’imaginaire migratoire, «Socio-anthropologie», 40, 1, 2019, pp. 9-28. p. 9, T.d.A..

[36] D. Diminescu, The Connected Migrant: An Epistemological Manifesto, «Social Science Information», 47, 2008, pp. 565-579.

[37] D. Diminescu, B. Loveluck, Traces of dispersion: online media and diasporic identities: online media and diasporic identities, «Crossings: Journal of Migration, Culture, Intellect», 5,1, 2014, pp. 23-39: p. 2.

[38] V. Albanese, T. Graziano, Place, cyberplace e le nuove geografie della comunicazione. Come cambiano i territori per effetto delle narrazioni online, cit.

[39] P. Diaz, G. Nicolosi, Corps, identités et technologies «par les nombres» dans l’imaginaire migratoire, cit.

[40] V. Albanese, T. Graziano, Place, cyberplace e le nuove geografie della comunicazione. Come cambiano i territori per effetto delle narrazioni online, cit.

[41] S. Graham, Software-Sorted Geographies, «Progress in Human Geography», 29, 2005, 5, pp. 562-80.

[42] A. Greenfield, Everyware: The Dawning Age of Ubiquitous Computing, Indianapolis, New Riders Pub, 2006.

[43] O. Söderström, The three modes of existence of the pandemic smart city, «Urban Geography», 42, 3, 2021, pp. 399-407.

[44] V. Albanese, Geografie della pandemia e capitalismo della sorveglianza: riflessioni italiane, «Documenti Geografici», 1, 2021, DOI: http://dx.doi.org/10.19246/DOCUGEO2281-7549/202002_03, p. 53.

[45] T. Graziano, Della Publicity digitale: frontiere e divari degli spazi privat(izzat)i del Web, «Semestrale di studi e ricerche in Geografia», XXXIII, 2, 2021, p. 163.

[46] D. Meek, YouTube and Social Movements: A Phenomenological Analysis of Participation, Events and Cyberplace, «Antipode», 44, 4, 2012, pp. 1429-1448.

[47] F. Cugurullo, Frankenstein Urbanism. Eco, Smart and Autonomous Cities, Artificial Intelligence and the End of the City, London, Routlege, 2021, p. 50

[48] M. Crang, S. Graham, Sentient cities: ambient intelligence and the politics of urban space, «Information, communication & society», 10, 6, 2007, pp. 789-817.



 


Tags

CITTà , CORPI INVISIBILI , geografia , SPAZI , CONTROLLO


Categoria

Geografia

Scarica il PDF

Siculorum Gymnasium

A Journal for the Humanites

ISSN: 2499-667X

info@siculorum.it