Investire nella perdita.
Il paradosso del corpo nell’arte marziale taoista

di Salvatore Giammusso

 

»Vincere è bene«, diceva il grande stratega e generale cinese Sun, «ma vincere senza combattere è ancora meglio«. La battuta suona paradossale: come si potrebbe mai vincere senza neanche combattere? La formulazione non deve trarci in inganno. È ispirata dal wu wei taoista (il non-agire); e, in accordo con tale principio, afferma qualcosa di molto semplice: negli affari politici, così come negli altri ambiti della vita, conviene seguire la naturalezza, non fosse altro perché questa via è la più economica. La massima riconosce che una strategia di potenza non è mai invulnerabile; e allora meglio prevenire il conflitto, costruendo una pace durevole fondata su valori di fiducia e consenso.
Sun Tzu era un contemporaneo di Tucidide e, come quest’ultimo, aveva guardato lontano. Noi sappiamo che le strategie di potenza creano un circolo vizioso: chi le subisce tenderà a provare timore e sospetto, e si preparerà al conflitto; e chi le pratica non vi troverà garanzia di sicurezza, e anzi si sentirà quasi costretto all’aumento della potenza, nella vana ricerca di una sicurezza assoluta che lo metta al riparo dall’ostilità che la sua stessa strategia ha generato. La massima taoista di Sun Tzu sottende una precisa intuizione: l’accumulo di armi e la ricerca di potere illimitato sono essi stessi responsabili del senso paranoico di insicurezza e del conflitto. Se si assume questa prospettiva, allora la storia del tiranno di Siracusa che usava un ponte levatoio per separare la sua stanza da letto dal resto della fortezza in cui viveva è comprensibile: non è che il tiranno avesse (soltanto) un brutto carattere, come afferma Cicerone (Tusc. Disp., XX 57-58); è proprio la strategia di potenza ad alimentare il circolo vizioso che genera sospetti e sfiducia, e che in fin dei conti rende precari i rapporti pubblici e privati. Questo ha di mira anche Sun Tzu: le sue parole rovesciano il pregiudizio secondo cui l’accumulo di potere sarebbe un bene in sé, privo di conseguenze negative. Quel pregiudizio non si avvede che l’accumulo di forza genera risentimento e prima o poi anche conflitto; e che nessuna forza, per quanto grande, mette al riparo dalla sconfitta. Data l’instabilità delle cose umane, il consenso e la fiducia sono strategicamente più efficaci del conflitto perché prevengono sul nascere il circolo vizioso dell’insicurezza e del conflitto, e consentono di ottenere risultati più durevoli a un costo minore.

Fatte le debite differenze, il paradosso di Sun Tzu vale anche in campo medico. E non è un caso. La medicina tradizionale cinese si richiama alle stesse idee taoiste che Sun Tzu sosteneva in campo politico-militare. Per il medico tradizionale cinese prevenire una malattia è meglio che curarla dopo che sia scoppiata. Questo atteggiamento lascia intendere una mentalità del tutto differente da quella con cui opera la moderna medicina “cartesiana”. Nella prospettiva della medicina taoista si promuove la salute e la buona circolazione energetica in una condizione di relativa normalità, nel convincimento che una strategia attiva in condizioni ordinarie sia più efficace di una strategia di emergenza in una situazione più o meno compromessa. Al limite, il buon medico taoista non ha “pazienti”: se è bravo, si limita ad agevolare l’equilibrio tra gli organi interni, e tra la persona e l’ambiente circostante, prima che si generi una situazione di squilibrio. Come il politico usa trattati ed emissari, così il medico usa strumenti suoi propri, quali erbe, massaggi, agopuntura, ginnastica medica e quant’altro riterrà opportuno in un caso determinato per rimuovere le ostruzioni che impediscono il buon fluire delle energie in gioco. Ma in entrambi i casi si tratta di vincere prima ancora di combattere.   

Il richiamo alla massima taoista introduce il tema che intendo qui svolgere. Parlerò della disciplina del corpo nell’arte marziale cinese del taijiquan.  “Investire nella perdita” è il modo di dire usato in questo contesto per indicare la finalità che si persegue con il training. Anche in questo caso risuona quello stesso gusto del paradosso che abbiamo incontrato nella massima di Sun Tzu. Sulle prime suona un po’ come se l’educazione del corpo-mente dovesse essere rivolta a perdere più che a vincere.  Ma non è così. Vedremo che il vero compimento dell’arte sta in una condizione di spirito che ha trasceso i concetti di vantaggio e svantaggio, di conquista e perdita; per il momento ci basta mettere in risalto che in questo caso, come nei casi precedenti, il paradosso è solo apparente: il praticante delle arti marziali “interne”, quelle connesse a vario titolo con i principi del taoismo e del buddhismo, preparerà il corpo al combattimento; ma - proprio come consigliava Sun Tzu - non seguirà una strategia di potenza: non cercherà di aumentare la massa muscolare né le armi disponibili, né provocherà conflitti; egli dovrà piuttosto lavorare sulla “cedevolezza”, imparare cioè a muoversi senza opporre la forza alla forza e piuttosto a usare  la forza altrui per controllarla e dirigerla. Non è solo un fatto fisico: non si tratta soltanto di lasciare andare le tensioni inconsce e fluire con le forze mutevoli che operano in una determinata situazione; investire nella perdita è un monito che si riferisce alla perdita dell’ego: occorre apprendere a “mollare” il piccolo ego che si attacca a vantaggi e svantaggi per approdare a una condizione “libera” con cui adattarsi alle circostanze come acqua che scorre. In questo senso, il monito risulta del tutto comprensibile: l’efficacia è il portato di una profonda individuazione che ha trasceso paure e attaccamenti. Non è valido soltanto nell’arte marziale taoista, ma in tutte le arti. Una siffatta educazione del corpo-mente è la base su cui si è storicamente costruita la pratica delle arti di Oriente, dal teatro alla danza, dalla poesia alle arti figurative e all’architettura, e ancora dalla cerimonia del thè all’arte di disporre i fiori. Per ovvi motivi di spazio, non posso qui approfondire questi argomenti in tutte le loro articolazioni. Scelgo l’arte marziale come esempio qualificato, poiché il senso del training mostra di che si tratta in tutte le arti: innanzitutto decondizionare il praticante, liberandolo da atteggiamenti preconcetti e da modelli di movimento stereotipati (il che equivale a sfondare la barriera del piccolo ego); e poi fare in modo che la naturalezza stessa in lui trovi una via. L’arte marziale ha una sua particolarità poiché educa a cercare una risposta naturale e rilassata nelle situazioni di conflitto. È proprio nello stato di eccezione che è messa alla prova ed emerge la comprensione taoista della natura. L’idea di una educazione paradossale del corpo-mente ha però qualcosa di universale che vale anche al di fuori del contesto culturale in cui essa si è originata. Una fenomenologia dell’esperienza vissuta può mostrare per quale motivo: investire nella perdita significa in definitiva oltrepassare l’ego cartesiano per giungere a una posizione di vita che non conosce né successo né insuccesso perché li ha trascesi entrambi.

 

1. Il taijiquan è uno stile “interno” di arte marziale cinese,[1] che nel suo complesso è nota in Occidente con il nome di gong fu. In verità, il termine gong fu non si riferisce in senso stretto all’arte marziale, ma indica in generale un duro lavoro che richiede tempo ed energia. L’ideogramma lascia intendere anche che lo sforzo necessario per la comprensione corporea dell’arte è meritorio e ripagato da un risultato degno di nota: all’esterno si manifesta in un potere, una evidente abilità; ma c’è anche una dimensione più sottile, che riguarda la vitalità, la disciplina e larmonia interna. L’arte marziale del taijiquan è dunque solo una delle tante forme possibili di gong fu, che sta più in generale per una via impegnativa e per la virtù che distingue chi l’abbia percorsa. Come accennavo in precedenza, questo vale in buona sostanza per tutte le arti di Oriente. In un senso esteso, si potrebbe dire che c’è gong fu anche nella perfetta esecuzione di una cerimonia del thè.
Tanto premesso, possiamo affermare che il taijiquan rientra a pieno titolo nel gong fu, perché è unarte del movimento (marziale) che richiede un impegnativo lavoro di preparazione corporea ma offre anche un risultato visibile come educazione dell’intera personalità. Ho accennato prima al fatto che il taijiquan è uno stile interno di arte marziale, ed è opportuno chiarire adesso il concetto. Gli stili esterni di gong fu sono basati sulla forza muscolare, su salti e acrobazie varie, in maniera tutto sommato non dissimile dalle arti marziali occidentali; invece il taijiquan accentua gli aspetti dellarte ricavati dagli insegnamenti taoisti e in parte anche buddhisti.[2] Usato in questo contesto, il termine “interno” rinvia al primato sull’uso della forza della componente spirituale taoista, la stessa che abbiamo visto all’opera nella massima di Sun Tzu. Già nel nome (“boxe della suprema polarità”), il taijiquan rivela la sua adesione all’antica cosmologia cinese, per la quale lo yin e lo yang costituiscono le forze opposte e complementari che operano in ogni fenomeno, ivi inclusa la sfera umana. Il nome fa anche capire che il praticante di questa disciplina risolve i conflitti adeguandosi al Dao e alla suprema polarità di yin e yang.[3] 

I primi documenti scritti relativi alle origini del taijiquan risalgono alla prima metà del Seicento. Secondo queste fonti l’arte sarebbe stata inventata da Chen Wanting (1600-1680), un guerriero professionista e letterato che sotto la dinastia Ming (1368-1644) ebbe posizioni di potere.[4] Il taijiquan rimase a lungo patrimonio della famiglia Chen, che lo trasmise di generazione in generazione. Gli altri stili di taijiquan (Yang, Wu, Sun) sono tutti più moderni e risalgono all’Otto-Novecento.[5] Va detto però che già documenti scritti dell’Ottocento retrodatavano l’origine del taijiquan all’epoca Song ricollegandola a una figura semi-leggendaria.  Secondo questa tradizione il saggio taoista Zhang Sangfeng avrebbe inventato il taijiquan tra il Duecento e il Trecento.[6] Non si può dire molto su questa attribuzione perché la figura di Zhang è piuttosto controversa, e i documenti relativi alla sua vita non sono affatto chiari: non si sa bene quando sia vissuto, se al tempo della dinastia Song (960-1279), di quella Jīn (1125-1244) o di quella Yuan (1271-1368); né si sa con esattezza dove: ora lo si colloca a Shaolin, ora sulla montagna Wudang, e ancora altrove. Più che altro, è significativo il fatto che in età moderna si sia  sentita l’esigenza di attribuire a una figura leggendaria la paternità del taijiquan: in questo modo le origini erano nobilitate e sospinte in un passato nebuloso e senza tempo;  ma al tempo stesso si delimitava l’ambito della disciplina: il taijiquan nasce come pratica spirituale, sviluppata da un taoista che era stato anche a Shaolin, il principale centro attraverso cui il buddhismo dei patriarchi indiani era stato veicolato in Cina, in uno con l’arte marziale. Chi attribuiva l’origine del taijiquan a Zhang Sangfeng credeva anche che l’arte fosse un modo di meditare sul Dao in movimento e di praticare lo spirito marziale come arte della pace.

Il modo in cui si racconta l’origine del taijiquan è denso di significato.  Pare che Zhang Sangfeng vide un serpente e una gru combattere: con un gran battito d’ali la gru cercava di colpire il serpente, ma questo si muoveva appena; gli bastava un piccolo movimento circolare per schivarla. Zhang comprese allora che l’arte di “cedere” e assorbire i colpi con movimenti circolari prevaleva sulla rigidità dell’aggressore. La narrazione suggerisce la “scoperta” del taijiquan per imitazione dei movimenti naturali. Un’altra versione della storia fa pensare piuttosto a una invenzione. Per la seconda versione Zhang Sangfeng vide alcuni monaci della montagna Wudang lottare tra loro e gli sembrarono goffi: il loro movimento non era equilibrato perché usavano troppa forza fisica e si sbilanciavano da sé. In termini taoisti: lo yang era troppo prevalente sullo yin. Zhang diede allora forma al taijiquan come tecnica per equilibrare lo yin e lo yang nel movimento.
Come si comprende, entrambe le narrazioni fanno ampio ricorso a elementi leggendari, frutto di interpretazioni retrospettive. Ma entrambe custodiscono un nucleo che rivela una verità di centrale importanza nella pratica dell’arte: la “cedevolezza” (o anche morbidezza) è una via per praticare larmonia anche in una situazione estrema come quella del conflitto. Le è essenziale una forma raffinata di presenza di spirito, che ascolta e intuisce il movimento dell’altro; e poi ancora hanno un ruolo importante il senso dell’equilibrio, l’adesione al movimento dell’avversario, la coordinazione e la prontezza. Sono tutte qualità che non chiamano in causa la forza muscolare.  Per questo è corretto parlare del taijiquan come arte marziale morbida: ai livelli avanzati o della maestria, si usa poca forza per neutralizzare l’aggressione con movimenti circolari che squilibrano l’avversario. In altri termini, si “investe nella perdita”. Il classico taoista dice che si uccide con una spada presa in prestito.[7] Sun Tzu avrebbe senz’altro commentato che in questo modo si vince senza combattere. Un tale livello nella disciplina del corpo e nell’arte si raggiunge con l’esercizio. Certo, passione e talento hanno il loro peso, come del resto in tutte le arti. Ma essenziale è il lavoro di rieducazione del corpo-mente, che fa pensare a una vera e propria “nascita mistica”. Alla fine del percorso si diventa uno con il Dao in movimento.

Ce ne spiega la dinamica il classico attribuito a Lao Tzu. «Il molle e il debole – si dice nel testo - vincono il duro e il forte»; e in un luogo successivo un passaggio chiarisce l’affermazione: «La cosa più molle al mondo si precipita contro la più dura al mondo. Niente al mondo è più molle e debole dell’acqua; ma nell’avventarsi contro ciò che è duro e forte, niente può superarla… Così io so che il Non-agire ha il sopravvento».[8] Lao Tzu osserva che l’elemento più forte in natura, l’acqua, è anche quello più “molle” e cedevole di tutti; e ne trae la conclusione che la virtù dell’arte sta nel prendere a modello la natura. Il non-agire (wu wei) cui si accenna in conclusione è lo stadio supremo dell’arte, una virtù, una qualità eccellente dell’intera personalità che è diventata uno con le fasi della natura, e con la più forte delle forze naturali. In virtù di questa forza “morbida”, si rimane vuoti e sensibili, pronti a muoversi in modo fluido adattandosi a ciò che è rigido per sgretolarlo.

Quando nasce – afferma ancora Lao Tzu -, l’uomo è tenero e debole; quando muore, è duro e rigido. I diecimila esseri, piante e alberi, durante la vita sono teneri e fragili; quando muoiono, sono secchi e appassiti. Perché ciò che è duro e rigido è servo della morte; ciò che è tenero e debole è servo della vita. Dunque: se un’arma è troppo rigida viene distrutta; se un albero è troppo rigido si spezza.[9] 

Troviamo qui formulata un’intuizione fondamentale del taoismo: ogni vivente è tenero a confronto di quello che è privo di vita. La flessibile cedevolezza e il non-agire rappresentati nel modo più compiuto dall’acqua sono più vicini alla vita rispetto alla rigidità: infatti quest’ultima è dura e moralmente intransigente, per cui è come se fosse già morta, visto che non si flette, ma si rompe e si spezza. Seguire il Dao, manifestare il Dao in movimento, vuol dire allora educare il corpo a diventare flessibile e cedevole come lacqua, che non ha forma e si adatta a ogni situazione. Ricordiamo il serpente che Zhang Sangfeng vide scontrarsi con la gru: rimanendo centrato nel suo movimento fluido, riuscì a far desistere l’avversario con poco sforzo. Ecco dunque il senso del “non-agire” taoista: vincere il rigido con la morbidezza; così «la quiete domina l’agitazione».[10]

Come si addice a una disciplina ermeneutica, cerchiamo i principi su citati nel testo sul taijiquan attribuito a Zhang San Feng.[11]  

Quando cominci a muoverti, che il corpo sia leggero e agile. Ogni parte del corpo sia collegata a tutte le altre. Si dovrebbe espandere l’energia interna, farla vibrare come il battito di un tamburo. Lo spirito dovrebbe condensarsi all’interno del corpo. Quando esegui il tai chi, che esso sia perfetto; non consentire alcuna imperfezione. La forma deve essere omogenea senza irregolarità, e continua, senza che vi sia spazio per alcuna interruzione.

Si accenna in apertura all’agilità e alla leggerezza, qualità del movimento che sono opposte ai movimenti “duri” basati sulla forza muscolare esterna. La fonte del movimento è l’energia interna che deve potersi propagare dall’interno all’esterno. Poi si introduce un concetto nuovo: ogni parte del corpo deve muoversi in sintonia con tutte le altre. Si rimane sorpresi di fronte a questa affermazione perché pare ovvia. Da buon taoista, Zhang Sanfeng sapeva benissimo che il corpo è un organismo in cui le diverse parti hanno un’unità funzionale; ma il testo intende dire che il corpo deve potersi muovere come ununità. Muoversi in questo modo è difficile. Discipline moderne come la psicosomatica e la bioenergetica a partire da Reich fanno capire per quale motivo: sotto la pressione dei conflitti inconsci e del rapporto con la realtà l’unità funzionale del corpo può irrigidirsi in blocchi: si formano così tensioni muscolari specifiche che diventano con il passare del tempo croniche. Nella vita di tutti i giorni un carico inconscio grava sul corpo, e il movimento risulta per lo meno inestetico, se non inefficace e spezzato: vorrebbe rappresentare un senso e realizzare scopi con l’azione, ma non vi riesce del tutto perché il corpo è contratto e resiste a se stesso. Di qui la mancanza di coordinazione tra alto e basso, destra e sinistra, avanti e indietro.

Si comprende l’importanza di quanto sostiene Zhang Sangfeng in apertura del suo trattato. Il movimento leggero, continuo e ininterrotto serve a capovolgere le condizioni diffuse di scarsa coordinazione. È proprio quello che avviene ancora nel training moderno: esercitandosi nella forma a solo, il praticante cerca di ripristinare la naturale armonia del corpo muovendosi in maniera fluida, in piena presenza di spirito. Egli cerca la leggerezza, non lo sforzo, e - per così dire - lascia che il movimento fluisca da sé, in modo naturale. Si ripetono lentamente i movimenti, coordinandoli con il respiro e con l’attenzione, che segue ogni movimento. Con il tempo e l’esercizio, la strategia ripaga: si supera la scissione per cui il corpo è di ostacolo a se stesso, e se ne riscopre l’unità funzionale. Le qualità di cui si parla nel testo, l’agilità, la leggerezza, l’omogeneità, la regolarità e continuità del movimento, sono qualità di un corpo sciolto e rilassato. Il primo passo in questa direzione sta proprio “nell’investire nella perdita”, nel lasciare andare le tensioni inutili e nell’ “essere” pienamente nel proprio corpo, da fermi e in movimento. Ai livelli più progrediti l’apprendistato nei diversi stili punta proprio agli obiettivi additati da Zhang Sangfeng: il corpo integrerà destra e sinistra, alto e basso, avanti e indietro, e scorrerà con continuità da una forma all’altra nella sequenza.  Così, la pratica del taijiquan è anche un lavoro sull’integrazione del corpo.

L’energia, il qi, è radicata ai piedi, si trasferisce nelle gambe, è controllata dalla vita e si sposta, infine, lungo la schiena fino alle braccia e alla punta delle dita.

Quando trasferisci il qi dai piedi alla vita, il corpo agisce come se tutte le parti fossero una cosa sola; ciò ti consente di avanzare e arretrare liberamente controllando l’equilibrio e la posizione. Se non riesci, perdi il controllo dell’intero sistema corporeo. Il solo rimedio a tale problema è la verifica della posizione.

L’applicazione dei principi favorisce il movimento fluido del tai chi in ogni direzione: avanzare, arretrare, spostarsi verso destra e verso sinistra.

In tutto ciò, si dia risalto all’uso della mente nel controllo dei movimenti, e non semplicemente a quello dei muscoli esterni. È necessario seguire il principio tai chi degli opposti: quando ti muovi verso l’alto, che la tua mente sia consapevole del basso; quando avanzi, che la tua mente tenga presente anche l’arretrare; quando ti sposti sul lato sinistro, che la tua mente presti contemporaneamente attenzione al lato destro, così che quando la mente sta salendo, essa stia anche scendendo.

Tali principii sono collegati al movimento tai chi così come sradicare un oggetto, distruggendone quindi le fondamenta, lo fa cadere più in fretta.

 

È noto che il taoismo antico aveva sviluppato tecniche per la buona circolazione del “qi” o energia vitale nel corpo, sia per un fine generale di salute, sia per un fine ascetico-meditativo.[12] A sua volta, Zhang Sangfeng parla del qi nel contesto dellarte marziale. Come va intesa questa affermazione? Intanto appare subito plausibile che un corpo rilassato e libero da tensioni inutili sia non solo più leggero e agile, ma anche più morbido e capace di vibrare con energia. Ma nel testo si dice anche qualcosa di più preciso sull’integrazione del corpo e della mente. Leggiamo che il praticante si concentra per condurre il qi. La componente cognitivo-intenzionale svolge un ruolo di spicco: guida il movimento scheletrico-muscolare in ogni sua fase e lo coordina con il respiro.

Non è facile parlare di questa qualità vissuta del movimento, che risulta ovvia ai livelli avanzati dell’arte. Troviamo una chiave di accesso guardando all’aspetto strutturale. Il testo allude innanzitutto al radicamento di piedi e gambe.  Zhang Sangfeng ci spiega che dalla spinta delle radici, da piedi e gambe, si ricava la forza; la si conduce attraverso la vita e la schiena e la si proietta con le braccia e le mani. Per ottenere questo radicamento, si sposta il baricentro fisico – e anche quello mentale – più in basso. È giusto insistere sul radicamento nelle gambe perché va in controtendenza rispetto allesperienza comune, in cui di solito si tende a portare il peso verso laltoPsicologia e psicopatologia ci fanno comprendere perché: stati dansia, insicurezza, tensioni croniche a livello pelvico connesse a difficoltà di ordine psicosessuale rendono problematico fidarsi delle gambe, ragione per cui il baricentro della persona si sposta più in alto. Si crea in questo modo un circolo vizioso: l’elevata posizione del baricentro alimenta la paura di cadere, la rigidità, il bisogno di sostenersi “dall’alto”; e questi stati, a loro volta, consolidano la “fuga” verso l’alto. Non è necessario chiamare in causa sindromi specifiche; basta un’ordinaria situazione di stress a spiegare il ritrarsi dello psichismo verso l’alto, in una sorta di autodifesa, che è poi in linea con il generale orientamento intellettualistico della cultura e degli stili di vita contemporanei. Per quanto paradossale possa suonare, il corpo che incarni gli insegnamenti taoisti andrà in alto solo dopo essere andato verso il basso: ogni slancio avviene sempre sulla base di un radicamento. Viene in mente il mito di Anteo, il gigante che al contatto con la terra riceveva sempre nuova forza. Per quanto potente, il semidio Eracle non riuscì ad avere la meglio su di lui se non grazie a uno stratagemma: staccarlo dal suolo per separarlo dalla scaturigine delle sue forze.  Anche il corpo educato al taijiquan è legato alla terra, e finché dura questo legame, le fondamenta sono salde, per cui non sarà facile venire sradicati, come appunto dice il testo.

Il radicamento non dipende solo dalla posizione del baricentro fisico.  Zhang Sangfeng lo lascia intendere quando afferma che serve soprattutto il controllo mentale del movimento, e non la forza muscolare proveniente dalle spalle e dalle braccia. Il testo stesso suggerisce una chiave interpretativa: per controllo mentale si intende una distribuzione diffusa dell’attenzione, che integri gli aspetti opposti: quando ci si muove verso l’alto con la spinta dei palmi, si rimane consapevoli del basso, con l’attenzione rivolta al radicamento dei piedi; e quando ci si muove verso il basso, ad esempio in un momento di ritirata o cedevolezza strategica, si resta consapevoli dell’alto, con l’attenzione rivolta alla sommità del capo. Lo stesso vale per l’avanti e l’indietro, per la destra e la sinistra. Nel passaggio citato si propone un modello globale di attenzione: esso corrisponde per intero a quanto vediamo raffigurato nel noto simbolo del taijitu, che raffigura l’interconnessione dello yin e dello yang.[13] Su un piano bidimensionale il taijitu descrive movimenti circolari e spiraliformi; ma su un piano tridimensionale gli stessi movimenti tracciano i contorni di un globo, di una sfera che può variare verso, angolo e centro di rotazione. Se ci si muove come una sfera, allora le parti del corpo integreranno nel movimento ogni direzione; se non ci riesce, allora si perderà il controllo e si verrà sradicati da un avversario più radicato. Insomma, il punto essenziale è l’integrazione degli opposti, e senza di essa, si perde facilmente il centro e ci si sradica da soli.

La netta separazione del positivo dal negativo deve accompagnarsi alla netta individuazione del sostanziale e dell’insostanziale. Il corpo intero, integrato dalla connessione di tutte le parti, diviene un rapporto esteso di unità d’energia positiva e negativa, ciascuna delle quali deve essere interrelata, affinché tra loro non vi sia alcuna interruzione.

Nella lunga forma il corpo deve muoversi come lo scorrere cadenzato dell’acqua di un fiume o come l’avvicendarsi delle onde dell’oceano.

Nella lunga forma parare, ritirarsi ruotando, premere, spingere, tirare verso il basso, dividere, colpo di gomito e colpo di spalla sono dette le forme degli otto diagrammi, il movimento che comprende le otto direzioni. La posizione in piedi, l’avanzare, il ritirarsi, il guardare a sinistra, il fissare a destra e l’equilibrio centrale sono detti i passi dei cinque stili. Parare, ritirarsi ruotando, premere e spingere sono detti le quattro direzioni cardinali. Tirare verso il basso, dividere, colpo di gomito e colpo di spalla sono detti le quattro diagonali. L’avanzare, il ritirarsi, il guardare a sinistra, il fissare a destra e l’equilibrio centrale sono detti, rispettivamente, metallo, legno, acqua, fuoco e terra. Quando le forme si combinano sono dette i tredici stili originari del tai chi.

Nella parte finale il testo si richiama alla numerologia taoista. Vi si afferma che il positivo va separato dal negativo e, alla stessa maniera, il sostanziale dall’insostanziale. Abbiamo visto che il corpo educato al taiji si muove come una sfera dinamica che integra gli opposti. Il testo riprende ora questo discorso da un altro punto di vista: ci spiega che il corpo fluisce in modo continuo e cadenzato nell’esecuzione della forma perché contiene in sé il pieno e il vuoto, ovvero le parti positive o yang (o sostanziali) sono connesse alle parti negative o yin (o insostanziali). Continuità e ritmo si basano sulla polarità dinamica di yin e yang, simboleggiata dal numero due.[14]

Si noti che la suprema polarità è un principio indeterminato di movimento, non una tecnica determinata. Per questo motivo lascia ampio spazio alla creatività; anzi, da un certo punto di vista, la vera creatività è proprio il divenire del Dao.  Mi limito a un paio di esempi, cominciando dal lavoro delle gambe. Il peso va passato con gradualità da una gamba (piena) a un’altra (vuota) e non sarà mai su entrambe le gambe, salvo all’inizio e alla fine della forma.[15] Trasponendo il discorso al lavoro delle braccia, il risultato non cambia: ci dovrà essere sempre un’alternanza dinamica di pieno e vuoto. Così, se un braccio assesta un colpo, andrà considerato pieno: ma allora l’altro braccio dovrà essere vuoto, rilassato, morbido, per poter fluire secondo la necessità; e se, al contrario, si subisce una presa, poniamo, al polso, allora il polso dovrà diventare vuoto e cedevole, lasciando la sostanzialità al gomito e alla spalla e/o all’altro braccio. Questo modello di movimento distingue solo relativamente tra positivo e negativo, poiché il positivo o sostanziale – una volta raggiunto il suo acme - tende a passare in modo graduale nel negativo o insostanziale.  Ancora una volta conviene figurarsi una sfera, che è unitaria, ma ruotando integra e inverte i rapporti tra gli opposti.

Il corpo che si muova come una sfera può assecondare ogni situazione ricercando un nuovo centro di equilibrio. Questo è il significato dei “passi dei cinque stili” menzionati nel testo. Il riferimento al numero cinque richiama le cinque fasi o movimenti dell’energia secondo la cosmologia cinese.[16] Troviamo poi menzionate otto forme, che corrispondono agli otto trigrammi derivati dallo sviluppo combinatorio della suprema polarità di yin e yang. Le otto forme e i cinque passi danno origine ai tredici stili originari del taijiquan.  Dalla combinazione di questi tipi generali del movimento i maestri sviluppano tecniche di combattimento (e questo è precisamente il lavoro del taijiquan come arte marziale), ivi inclusi colpi, proiezioni, calci e prese, uso delle armi e, infine, combattimento a due e combattimento libero.

Nelle forme a solo dei diversi stili non sono visibili le tecniche in tutte le loro potenzialità, ma si riconoscono le posture, che mostrano possibilità semplici di utilizzare il corpo nello spazio. Il buon praticante sa che le posture sono più importanti delle tecniche in senso stretto, perché quest’ultime sono limitate, mentre il principio è creativo e dà origine a interpretazioni e ad applicazioni illimitate.  Mi limito a fare un esempio significativo. Consideriamo il movimento lu, tradotto solitamente con “ritirarsi ruotando”. Esso corrisponde al trigramma composto da tre linee spezzate e rappresenta un’energia che è il massimo dello yin, incarna cioè la piena cedevolezza. Ma la “cedevolezza” è l’esatto opposto di un’inerme passività poiché il movimento lu assorbe la forza dellavversario e la usa per metterlo fuori combattimento.[17]  Dellefficacia di questa strategia non si può dubitare se si considera che anche arti giapponesi come il judo e laikido giapponese vi si richiamano. Nel contesto del taijiquan la cedevolezza (giapp.: ju) è una sorta di ritirata strategica che rimane nel pieno controllo dell’avversario. Chi usa una strategia lu ruota a partire dal dan tian, il “campo di cinabro” della medicina tradizionale cinese (posto tre-quattro dita sotto l’ombelico), mentre le braccia aderiscono alle estremità dell’avversario. Grazie a questo controllo a partire dalla vita, viene a formarsi una sfera dinamica che assorbe l’energia esterna: sfruttando questa forza, il praticante si radica a terra e conduce l’energia in senso tangenziale alla rotazione. Quando l’energia propulsiva dell’avversario è del tutto dispersa dalla rotazione, il praticante di taijiquan avanza (fase yang, tre linee intere negli otto trigrammi), terminando di solito con una presa (qin na). La cedevolezza taoista e la non-violenza buddhista appaiono qui strettamente connesse. Combinando la rotazione con una presa (o con una proiezione), si neutralizza l’aggressione senza inutili violenze e senza sforzo: basta poca energia per controllare una forza lineare e condurla lungo una tangente. Nei classici del taijiquan si dice a proposito: «Usare cento grammi per deviare quattrocento chili».

La cedevolezza ha sottili implicazioni.  Dal punto di vista biomeccanico, prende corpo in una rotazione intorno al proprio asse. Ma si riesce per davvero ad essere “cedevoli” quando non si risponde alla forza con la forza, e si aderisce alla forza dell’avversario per disperderla e bloccarla. Serve un’adeguata disposizione di spirito: una condizione di vuoto mentale che ha lasciato andare ogni anticipazione e ogni immagine relativa a vantaggio e svantaggio. Rimanendo vuoti, a contatto con l’altro da sé, si “investe nella perdita”,[18] e in altri termini si trascende l’ego.  Per combattere con efficacia, occorre il coraggio di trascendere le rappresentazioni relative a vittoria e sconfitta. Suona paradossale: pare del tutto naturale che in una situazione di conflitto gli sforzi siano ottimizzati per ottenere un risultato vantaggioso, del massimo vantaggio possibile; e invece la nozione della cedevolezza capovolge questa logica del senso comune. Dal punto di vista taoista, uno che combatta sulla base di schemi e anticipazioni relativi a ogni singola mossa, impiegherà troppo tempo a muoversi e non riuscirà a stare al passo del Dao in movimento; e se è troppo pieno della sua energia e del suo sforzo, finirà con il mettere fuori gioco se stesso con il suo orgoglio. Il taijiquan punta all’opposto: a una fantasia motoria e a una creatività che emergono spontaneamente quando il corpo ha raggiunto un livello adeguato di rilassamento e si è realizzata una condizione di vuoto mentale. Ai livelli più elevati dell’arte, la cedevolezza richiede che si comprenda il vuoto, ovvero il non-agire: allora si realizza pure che “investire nella perdita” è importante, ma non c’è nessuno che lo faccia: avviene e basta. L’arte della lotta è diventata l’arte del muoversi nella pace.
Una tale condizione mentale richiede tempo ed energia. Va vista come un risultato, frutto del più raffinato gong fu, anche se di per sé è semplice come acqua che scorre. Parliamo di un atteggiamento che non si attacca a nessuna forma illusoria ed è libero da attaccamento e paura secondo l’insegnamento del Buddha nel Sutra del Diamante: non desidera conseguire né teme perdere alcunché, e si limita a fluire con il variare della situazione, avvalendosi delle energie disponibili. Da questo punto vista, la rotazione del corpo intorno al proprio centro è solo uno dei possibili aspetti della cedevolezza, che non si esaurisce nell’uso marziale del corpo. È cedevole un movimento naturale come ad esempio quello del bambù, che sotto la pressione degli elementi si flette, ma non si spezza. Al limite, è espressione della stessa energia lu anche la capacità dialettica che si serve delle parole usate da un interlocutore per metterlo fuori gioco.  Lu indica la rotazione del corpo intorno al proprio asse, ma il presupposto di questa strategia di movimento cedevole è più vasto: si riferisce alla condizione di una mente che non è attaccata ad alcuna forma ed è potenzialmente aperta a tutte le transizioni.

 

2. La distinzione ci permette di distinguere fra taijiquan come arte marziale e come meditazione in movimento. Nello studio dell’arte marziale si affrontano tecniche di proiezione, colpi, prese, armi (spada, sciabola, bastone e lancia), il particolare training nelle forme in coppia (tui shou) e infine il combattimento libero (san shou).[19] Ma il taijiquan come arte marziale è solo una parte delleducazione del corpo-mente secondo i principii taoisti. Per rimanere nell’ambito del taijiquan, basta ricordare che un filone piuttosto vivace si richiama alla mistica taoista e al buddhismo (ad esempio, nel ch’an cinese e giapponese il taijiquan è praticato come forma di zen in movimento), per non parlare di altri orientamenti più moderni, che provengono dalla medicina tradizionale cinese e usano forme semplificate di taijiquan come ginnastica medica per la promozione della salute.  Sia pure con accenti diversi, i diversi percorsi hanno reso autonoma la pratica della forma a solo, ovvero esercizi specifici tratti da essa. È del tutto legittimo parlare allora del taijiquan anche come pratica di consapevolezza in movimento che non implica di per sé la dimensione marziale: in verità, la pratica della forma a solo è già di per sé completa come lavoro che integra la postura corporea con la dimensione energetica e quella mentale.[20] Al taijiquan come meditazione in movimento intendo ora volgere più da vicino lo sguardo. Senza pretendere che il linguaggio restituisca del tutto la dimensione non-linguistica del fenomeno, cercherò di tracciare un ambito concettuale che lo renda comprensibile.
Quando si guarda un maestro eseguire una forma di taijiquan, sembra di vedere qualcosa di naturale: per l’appunto acqua che scorre. Lo aveva detto già Zhang Sangfeng: «nella lunga forma il corpo deve muoversi come lo scorrere cadenzato dell’acqua di un fiume o come l’avvicendarsi delle onde dell’oceano».[21] Al culmine dell’arte, ci si muove con ritmo e con naturalezza. Un maestro manifesta nel movimento (ma anche nella quiete) sensibilità, ricettività, spontaneità, e insomma libertà. La sua armonia sortisce anche un effetto estetico:  osservando  il movimento, il principiante rimane dapprima preso dalla bellezza; e poi forse sarà tentato di comprendere qualcosa per via intellettuale: ad esempio, nominando  la sequenza di posture (tale è una forma di taijiquan, a prescindere dallo stile), identificando i tipi di energie racchiusi in una specifica posizione, e poi anche le tecniche marziali che possono derivarne.[22] L’approccio può essere magari utile all’inizio della pratica, ma occorre qualcosa di diverso per penetrare nell’armonia del movimento, che sembra avere qualcosa di magico.[23] Dal punto di vista di una psicologia fenomenologica come quella di Erwin Straus, l’armonia del movimento andrebbe concettualizzata in questi termini: la scissione tra io e mondo è stata superata ed è apparsa in maniera naturale lintrinseca connessione del sentire e del muoversi.[24] I taoisti preferiscono affermare che è lo stesso Dao a manifestarsi nel movimento in modo tale da armonizzare gli opposti; così i maestri appaiono  quieti nel movimento e mobili nella quiete.[25]

Se guardiamo più da vicino al movimento del maestro, vedremo che egli si serve del respiro come elemento intermedio che unifica mente, corpo e movimento in rapporto all’ambiente circostante. È luso del respiro la chiave di volta. Per penetrare nella magia del movimento, al principiante non servono nomi o concetti intellettuali: non c’è altra via se non quella di diventare pienamente questa armonia degli opposti per il tramite del respiro. Anche in questo caso si investe nella perdita, non nell’apprendimento di qualche tecnica complicata. Si intende che alcuni insegnamenti di base vanno compresi e fatti propri, [26] ma si comincia a percorrere la via dei maestri solo dopo che si è stabilito un rilassamento profondo del corpo attraverso il respiro.[27] L’aspetto più evidente nei maestri è il rilassamento (cinese: song): anche sotto pressione, si muovono rilassati come onde ritmiche o come nuvole fluttuanti; sono radicati come alberi, eppure appaiono lievi e in qualche modo “aerei”.

Proprio il rilassamento è difficile da capire per un neofita, in buona misura perché sul suo movimento gravano blocchi irrisolti. Ad esempio, se braccia e gambe sono irrigidite da muscoli ipertrofici o da tensioni a livello delle articolazioni, la forza della schiena non può essere integrata con la parte anteriore del corpo. Avanti e dietro restano separati. Si è già accennato alle tensioni inconsce a carico di piedi, caviglie, ginocchia e articolazioni coxo-femorali. Ma anche gli arti superiori possono essere molto rigidi. In alcuni casi la rigidità delle spalle si riversa a cascata su scapole, gomiti e polsi. Invece, in un maestro si nota subito che muscoli, tendini e articolazioni sono sciolti, e il movimento ha qualcosa di morbido e al tempo stesso potente. I gomiti lavorano nella giusta tensione, né del tutto piegati e contratti né del tutto rigidi. Le braccia funzionano come archi, pronti a scattare in sintonia con l’arco della colonna e gli archi delle gambe. Si forma così una sinergia tra basso e alto, dietro ed avanti, destra e sinistra, in breve: una sfera che ruota intorno all’asse centrale (zhong ding) del corpo. A questo ci si riferisce quando si parla di armonia del corpo “nelle sei direzioni”. In effetti, i maestri suscitano un’impressione “musicale” perché nel loro movimento si possono “vedere” ritmo, melodia e armonia.

Cerchiamo di scomporre gli elementi fondamentali su cui si basa la musicalità del corpo. Citiamo in primo luogo il centramento: in un maestro il movimento è centrato, ossia si irradia a partire dal centro fisico del corpo (la vita, il tan dian della medicina tradizionale cinese). Comprendere profondamente, realizzare questa possibilità di movimento, è impegnativo, come sempre quando si lavora sulla postura.  Nell’esperienza comune la postura non è del tutto integrata. A voler esasperare il discorso, possiamo dire che il basso è separato dall’alto, la destra dalla sinistra, il lato anteriore da quello posteriore. Alle tensioni particolari, ad esempio alle spalle (molto diffuse), alle ginocchia, si somma l’effetto di quella che potremmo chiamare forma sociale dell’anima: in una cultura intellettualistica e ipertecnologica come quella delle società industriali avanzate è proprio il sistema sociale, fondato sulle comunicazioni di massa, a promuovere la tendenza all’astrazione e i sogni a occhi aperti. In queste condizioni di vita sociale semi-onirica non è facile per nessuno rimanere “con i piedi per terra”. Il che si spiega anche da un punto di vista posturale: se il centro fisico e mentale della persona sale verso l’alto, le caviglie e le ginocchia si serrano e il piede resta scarico, privo di peso. Anche per effetto di questo squilibrio verso l’alto gravano sulla testa tensioni che si annidano nella regione del collo e dei trapezi; così la testa tende a irrigidirsi, e perdono vigore anche gli occhi e lo sguardo, che guarda senza vedere. (Per inciso: il correlato psicologico di questo squilibrio è la tendenza a distrarsi, che – come dice il Buddha nel Dhammapada – è all’origine di ogni sofferenza morale).

Per rimanere all’aspetto scheletrico-muscolare, va aggiunto che lo squilibrio verso l’alto si riversa sulla colonna vertebrale, che viene chiamata a sopportare un carico sproporzionato. Chi intenda studiare l’arte del movimento deve compiere allora un lavoro posturale che passa attraverso la correzione degli squilibri, a tutto beneficio della colonna. Sovviene quella frase dello psicologo e psicoterapeuta Alexander Lowen, per il quale l’unica via d’uscita è la via verso il basso (“The only way out is the way down”; scil.: l’unica via per cavarsela, l’unica strategia utile, è fidarsi delle gambe). La massima vale anche in questo contesto. Per apprendere a muoversi a partire dal proprio centro fisico, il praticante dovrà affondare il peso verso il basso: le ginocchia andranno tenute flesse e rilassate, e il peso del corpo dovrà cadere non sui talloni, ma in prevalenza sulla parte anteriore del piede. Questi espedienti aiutano a superare la paura di cadere (ancestrale nella nostra specie, che ha conquistato a fatica la stazione eretta), la quale può accompagnare come correlato emotivo la rigidità delle gambe e delle ginocchia. Con la pratica vi si riesce, avendo sempre ben presente che l’integrazione posturale non è mai un’operazione emotivamente neutra: realizzare una postura giusta aiuta ad avere fiducia nella terra che sostiene; e, a sua volta, questa esperienza di fiducia in se stessi consente di affrontare e superare la paura inconscia.

Non è tutto. Affinché la colonna sia scaricata da tensioni inutili, la posizione della testa dovrà compensare un baricentro situato più in basso del solito. I testi antichi dicono che va tenuta eretta senza rigidità. Per così dire, dovrebbe essere “agganciata” in alto, in modo da stirare con delicatezza le vertebre cervicali ed estendere la colonna verso il cielo: così si libera il collo e si restituisce al capo la piena escursione del movimento sui lati; ma si favorisce anche la rotazione della vita intorno all’asse centrale del corpo. Si viene a formare una specie di fuso: mentre le gambe e la testa spingono e si ancorano rispettivamente in basso e in alto, le anche ruotano in piena libertà intorno all’asse centrale del corpo. Queste tre forze, una diretta verso il basso, una verso l’alto, una che media le altre due, sono sempre presenti nel movimento di un maestro, che per questo risulta in asse e centrato. Il linguaggio poetico cinese vi allude quando afferma che l’uomo sta tra cielo e terra. Il centro, la vita, la respirazione addominale servono da luogo di incrocio tra il basso e l’alto, così che anche il più semplice dei movimenti è sempre un movimento di tutto il corpo, mediato dalla vita; per rimanere nel linguaggio poetico, è un movimento che fonde cielo e terra.

Subito dopo il radicamento e il centramento dovremo accennare alla flessibilità, non solo quella articolare, ma soprattutto la flessibilità della colonna. La prima è il risultato del rilassamento generale del corpo, la seconda è frutto di un lavoro specifico su cui occorre dire qualcosa di più preciso. La colonna è l’asse del corpo, l’elemento di congiunzione che tiene insieme la testa e gli arti superiori con il bacino e gli arti inferiori. Se la colonna è rigida, il movimento non fluirà dal basso verso l’alto e verso le estremità. Per questo ogni training profondo dovrà includere un lavoro di scioglimento vertebrale. I testi prestano particolare attenzione alla mobilizzazione dell’articolazione lombo-sacrale, che deve potersi distendere verso il basso, in modo da “agganciare” il coccige al terreno: così si aprono le anche e le vertebre lombari, e la spinta di queste ultime mobilizza segmento per segmento anche le vertebre toraciche e cervicali. La colonna agisce allora come un propulsore che trasmette un’onda di energia alle braccia e alle gambe. Questa possibilità di movimento è propria dei bambini, dei maestri e in parte anche del mondo animale; ma sotto le condizioni dell’esperienza moderna, la maggior parte delle persone la ignora quasi del tutto poiché di solito la schiena è irrigidita da tensioni croniche. Come insegna la psicosomatica, si trasferiscono alla schiena quelle tensioni che non si sopportano di fronte a sé, davanti agli occhi.

D’altra parte, le pratiche taoiste dimostrano che quanto è duro e rigido può ritornare a essere morbido e flessibile. Nelle arti marziali “interne” si vede subito il risultato del “duro lavoro”: la muscolatura di sostegno alla colonna è morbida e tonica, e l’energia si trasmette da una vertebra all’altra. In questo modo avviene proprio quello che scrivono i testi classici, ossia che “l’energia, il qi, è radicata ai piedi, si trasferisce nelle gambe, è controllata dalla vita e si sposta, infine, lungo la schiena fino alle braccia e alla punta delle dita.” Con la pratica si impara a usare la forza delle gambe, che poi viene trasmessa per livelli successivi in cui subisce una variazione incrementale: la rotazione della vita concentra la forza, la flessione della colonna la indirizza verso le spalle, fino ai gomiti e ai polsi. Il movimento assomiglia così allo schioccare di una frusta: proietta la forza dal centro verso la periferia in modo flessibile, rapido e potente.

Citiamo poi la coordinazione come fattore distintivo del movimento taiji. Al riguardo, i classici cinesi parlano delle “sei armonie” che si realizzano nella postura e nel movimento.[28] Per comodità, si distinguono le tre armonie esterne, relative al piano fisico-corporeo dalle tre armonie interne, che già introducono l’aspetto energetico e mentale. Vediamo prima le armonie esterne. Esse consistono appunto nel coordinare il movimento delle mani con quello dei piedi, il movimento delle ginocchia con quello dei gomiti, e infine il movimento delle anche con quello delle spalle. Ma c’è anche una dimensione più nascosta di questa coordinazione esterna: le tre armonie

 

riguardano la connessione strutturale interna (armonia) tra il sistema muscolo-tendineo e osteo-articolare. Il che vuol dire: 1° armonia: quando un muscolo si muove, in maniera coordinata si devono muovere all’unisono tutti gli altri; - 2° armonia: le ossa devono essere ben allineate e connesse, per sostenere e armonizzare la struttura generale del corpo e devono muoversi a spirale come dei serpenti; - 3° armonia: il sistema muscolo-tendineo deve lavorare in sintonia con quello osteo-articolare.[29]

 

Prese nel loro complesso, le armonie esterne si riferiscono alla connessione profonda delle articolazioni tra loro, e del sistema osteo-articolare con quello muscolo-tendineo.  Lo si vede negli esperti e nei maestri: il loro movimento appare rotondo, coordinato e composto, ma al tempo stesso vibrante di energia. Guardandolo, si ricava un’idea di unità nella dinamicità. La struttura formale del movimento e la vitalità appaiono fuse insieme, in un modo che non è descrivibile soltanto in termini di fisiologia scheletrico-muscolare. Viene in mente Merleau-Ponty quando parla della “motricità” come “intenzionalità originaria”.[30]

Alla coordinazione strutturale e dinamica del corpo (le tre armonie esterne) si aggiunge una dimensione più sottile, che si estende agli aspetti cognitivi ed energetici. I testi antichi del taoismo parlano di tre armonie interne, ossia la coordinazione di xin e yi, di yi e qi, di qi e li. Vediamo cosa si intende. I concetti di xin e yi stanno rispettivamente per la mente emotiva e per la chiara intenzione. Coordinarli significa stabilire una circolarità virtuosa tra vita emozionale e intenzionalità. Ricordiamo una concezione affine, presente nella cultura filosofica europea fin dai tempi più antichi. Mi riferisco al mito platonico dell’auriga che guida una biga trainata da due cavalli alati, simbolo degli appetiti e delle emozioni, e tiene salde le briglie per impedire che i cavalli scartino. Fuor di metafora, noi comprendiamo che per Platone la parte razionale dell’anima deve esercitare un’egemonia su appetiti ed emozioni, mettendoli al servizio della chiarezza razionale.  Ora, nella prima armonia interna dei taoisti troviamo qualcosa di simile, senza però le complicazioni metafisiche della teoria platonica dell’anima, e senza il latente discreditamento delle passioni a tutto vantaggio del hegemonikon razionale. È affermata l’idea di una circolarità tra l’energia emozionale e l’intenzionalità; ma di circolarità virtuosa si tratta, per cui la prima apporta energia alla seconda, e a sua volta questa la incanala per produrre azioni chiare e precise. Per coordinare emozioni e intenzionalità, i taoisti ricorrono al respiro. Che una respirazione consapevole, calma e profonda, sia capace di calmare le emozioni, è ben noto anche nelle pratiche occidentali. La usano ad esempio gli atleti, gli artisti e anche psicologi e psicoterapeuti. Infatti, il respiro è implicato nella regolazione degli stati emotivi: stati ansiosi o depressivi tendono a restringerlo, mentre invece una respirazione addominale profonda distende e chiarisce questi stati emotivi. I taoisti aggiungono alla respirazione profonda e ritmica il movimento lento e continuo, nonché l’attenzione che fluttua liberamente verso entrambi; ed è proprio la combinazione di questi fattori che calma la mente e rende il movimento stesso più chiaro e preciso. 

È il caso di insistere sul ruolo della lentezza. Muovendosi lentamente, il praticante centra diversi obiettivi. In primo luogo, la lentezza sradica l’ansia di conseguire un risultato e fortifica la capacità di pazientare e gustare quello che si sta facendo nel momento presente, senza affannarsi. Inoltre, consente di rimanere attenti al movimento nel suo sviluppo temporale: si scopre così il movimento “giusto”, quello cioè più ergonomico e razionale. Lo coglie bene Moshe Feldenkrais nella sua teoria della consapevolezza motoria, quando scrive che «la lentezza è necessaria per scoprire l’energia superflua e parassitica e per la sua parziale eliminazione».[31] La lentezza rende possibile una chiara esattezza nel movimento, e poi anche la capacità di accelerare in modo rapido. Il taoista che vuole essere fulmineo sa che per prima cosa deve investire nella perdita e muoversi nel modo più lento possibile. La cosa si comprende: l’attenzione continua a un movimento lento e consapevole libera il corpo dai pattern di risposta irriflessi su cui gravano emozioni negative (es.: le contrazioni ansiose). Il lavoro sulla lentezza, sulla ritmicità, sull’equilibrio, sulla leggerezza del movimento è in realtà una pratica di decondizionamento: libera l’attenzione dal corto circuito dei pensieri ricorrenti e ossessivi e la porta “nel” movimento. Così la mente si compatta e si calma: una chiara intenzionalità rende il respiro lento e regolare, il corpo diventa capace di risposte più spontanee e naturali.  

 Il movimento dei maestri non è nervoso né affannato, e scorre come un grande fiume in condizioni normali. Il che risulta comprensibile alla luce della prima armonia interna: l’energia è coordinata con una chiara intenzione. Nei termini della teoria dell’azione elaborata da Feldenkrais, parliamo di un movimento monomotivato,[32] basato cioè su una motivazione dominante.[33] La pratica della forma a solo di taijiquan è anche un lavoro sulla chiarezza e sull’efficacia dell’azione, ovvero – come dice lo stesso Feldenkrais – sulla potenza e libertà personali. Non appare subito evidente nel training; ci vuole del tempo, ma una pratica assidua crea le condizioni per istituire un condizionamento reciproco tra rilassamento corporeo, calma e chiarezza mentale.

Quando la mente emotiva è calma, l’intenzione è più efficace nel dirigere il respiro e l’energia.  Appare ora la seconda tra le armonie interne, quella di yi e qi, che possiamo intendere come la coordinazione della mente e del flusso energetico per il tramite del respiro. Il respiro è lungo, sottile, continuo, calmo e profondo, e offre una base ritmica che consente alla mente di guidare l’energia. L’inspirazione corrisponde in genere ai movimenti di apertura delle diverse posizioni e l’espirazione coincide con il movimento di chiusura. Si noti la sottile ma profonda differenza tra la finalità marziale e quella meditativa: quando la finalità è marziale, si usa solitamente la respirazione addominale inversa, ossia l’addome si espande sull’espirazione, che corrisponde all’acme del colpo. Invece quando la finalità è meditativa, l’addome si espande sull’ inspirazione e si svuota quando si espira. È lo stesso tipo di respirazione che si usa nella meditazione zen, e per questo è conosciuta anche come respirazione buddhista, mentre la prima è nota anche come respirazione taoista.[34] In entrambi i casi, però la mente guida il qi, ed è possibile visualizzare il flusso energetico nel corpo a partire dall’addome.

La coordinazione dell’attenzione e del flusso energetico apre la strada alla terza armonia. Ora è in gioco la coordinazione di qi e li, ossia dell’energia interna e del movimento muscolare. L’idea è che il movimento muscolare non sia eseguito con sforzo, ma segua il flusso energetico, che a sua volta è indirizzato dal respiro e da una chiara intenzione. Anche in questo caso la mente ha un ruolo guida. Per apprendere a muoversi in questo modo, si praticano esercizi di sensibilità e di visualizzazione. Ad esempio, si inspira visualizzando il punto yong chuan nel meridiano dei reni (al centro del piede, sotto il metatarso) e si espira portando l’attenzione al lao gong (al centro del palmo delle mani). La sensazione è quella di premere con delicatezza su un oggetto resistente. Questo semplice esercizio fa parte di un training di condizionamento adottato anche nelle altre marziali interne.[35] Nelle forme del taijiquan a due il contatto e la pressione sono reali e continui; invece nelle forme a solo il contatto e la pressione sono visualizzati. Si “avverte” la pressione esercitata su un corpo estraneo come resistenza che limita il movimento, di modo che il movimento stesso sia guidato dal flusso energetico e dalla mente. Non a caso, la forma a solo del taijiquan è stata chiamata anche “boxe con l’ombra”. A un livello avanzato di pratica si esegue lo stesso movimento che si eseguirebbe all’inizio del percorso di studio, ad esempio il movimento di spinta con le mani, ma la qualità è del tutto diversa. Il praticante avanzato rimane sciolto e rilassato mentre immagina di spingere realmente un avversario: la visualizzazione dirige il flusso energetico dai piedi ai palmi e si “sente” la resistenza che pone l’avversario. È una condizione paradossale: si lavora al tempo stesso sul rilassamento e sulla pressione. Già in questa “boxe con l’ombra” si trova un’originaria esperienza di contatto, inteso come relazione bidirezionale allo spazio, “interfunzionamento unitario” in atto tra organismo e ambiente, come dicono Perls e i gestaltisti.[36] Anche in movimento da soli si sperimenta così una “intercorporeità” (Zwischenleiblichkeit) come relazione del corpo in movimento a uno spazio di corpi che sostengono o resistono,[37] e tale relazione è anteriore all’emergere di un soggetto contrapposto a un oggetto. Nel contatto fluido, continuo, consapevole tra il corpo proprio e lo spazio circostante la mente emotiva, il flusso energetico e l’intero movimento si fondono. Diventando uno con il flusso energetico e con il movimento, il praticante scopre la fantasia motoria.

 

3. Mi avvio alla conclusione. Ho iniziato la mia trattazione ricordando che il taijiquan gode di notevole fama tra i conoscitori di marziale e anche presso l’opinione pubblica. Ora siamo in grado di comprendere perché la fama sia del tutto meritata. Che lo si studi come arte marziale, come ginnastica medica o come meditazione in movimento, il taijiquan restituisce molto perché richiede molto. Il praticante che intenda aspirare ai gradi elevati dell’arte passa attraverso un profondo lavoro di condizionamento psicofisico. Ce lo lasciano intendere le sei armonie. Tutte e sei insieme descrivono il campo del lavoro: si tratta di un’integrazione posturale e di una coordinazione dinamica tra l’interno e l’esterno. Le tre armonie esterne riguardano l’allineamento strutturale e la coordinazione del sistema osteo-articolare con il sistema tendineo-muscolare; le tre armonie interne coinvolgono più direttamente l’area cognitiva: la calma mentale, una chiara intenzionalità che guidi attraverso il respiro il flusso energetico nel corpo e verso l’esterno. Non è facile raggiungere questa condizione psicofisica; occorre tempo e investimento energetico, ma il risultato poi si nota: nel corpo si realizza l’unità del sentire e del muoversi. Si creano così le condizioni per un’agile visione e per quella motricità che trascende ogni azione rigidamente stereotipata. Il corpo sensibile e capace di fantasia motoria offre una risposta spontanea e creativa alla situazione circostante. Questa creatività ha qualcosa di artistico, ma non è superficiale o meramente tecnica, e dipende piuttosto da una profonda disposizione di spirito in cui quiete e movimento si incrociano e fondono: ci si muove all’esterno, ma all’interno si è calmi; e ancora: la mente si muove, abbozzando un’idea del movimento e il movimento segue in modo sciolto e rilassato.

Appare poi del tutto fondato che la pratica della forma a solo - anche a prescindere dall’arte marziale – possa valere come una forma di meditazione in movimento.  L’essenziale è che si stabilisca una mente meditativa. Su questo occorre dire qualcosa di più preciso. L’etimologia ci insegna che la meditazione - come la medicina - è una pratica che “cura”: nelle due discipline è presente la stessa radice  “med” dell’antico sanscrito, che significa “aver cura di qualcosa” (e quindi anche “sanare”); ma la meditazione corrisponde più in particolare all’aspetto cognitivo della cura,  poiché è l’atto di “prendere in considerazione”, “rivolgere l’attenzione”, “avere in mente qualcosa”, “concentrare la mente” su un tema o argomento determinato per indagarne la natura (per inciso: proviene da questo senso la  “meditatio” quale forma di riflessione filosofica che si afferma già nel pensiero antico e moderno).  Ogni forma di meditazione, dal dhyana dei Veda allo zen, punta a favorire un atteggiamento di spirito rilassato e presente. Proprio questa condizione fa emergere l’attenzione pura; e questa non è mera concentrazione, ma è la stessa vita infinita che è in noi.

Tenendo presente questa concezione, il taijiquan può senz’altro essere considerato una meditazione. Nella pratica della forma si segue il filo conduttore del respiro e si diventa uno con il movimento: “muovendosi senza muoversi”, si libera la mente dall’attaccamento all’ego. Anche quando esegue un semplice gesto impermanente, un gesto che inizia e finisce in un momento determinato, un vero maestro manifesta una mente integra, che si muove in sintonia con il Tutto.  Secondo questa accezione, la pratica della forma a solo di taijiquan è un upāya – come avrebbe detto il Buddha -, ossia null’altro se non un espediente per realizzare nel movimento una mente che integri gli opposti.  Nella sostanza, non è molto diverso da quello che avviene nella meditazione zen, in cui da seduti si diventa uno con il corpo e con il respiro.  La postura è inessenziale; essenziale è la mente senza attaccamenti.

Le forme e la pratica del taijiquan dicono molto dell’antica cultura cinese in cui è sorto. Nel corpo educato al taijiquan si rende visibile anche una più ampia possibilità umana: nel movimento si può raggiungere una condizione di presenza e vuoto mentale, di diffusa vitalità, di leggerezza e spontaneità motoria. Sembra inarrivabile finché si rimane legati a uno schema cognitivo basato sulla coscienza egocentrica che cerca il dominio su un mondo di corpi estesi. Ma con la pratica si trascende la posizione centrata sull’ego. Il paradosso sta nel fatto che non c’è un risultato da raggiungere, né – per usare la terminologia di Merleau-Ponty – un “significato intellettuale” da comprendere; piuttosto occorre investire nella perdita e immedesimarsi in un movimento lento, continuo, leggero, di cui scoprire il “significato motorio”. In tal modo si risale a quella corporeità vivente che è in origine “intenzionalità motoria”, ossia «indissolubilmente movimento e coscienza del movimento».[38] Un’agile e lenta leggerezza del movimento apre a una consapevolezza molto più profonda della coscienza, intesa come puro pensiero che rappresenta oggetti estesi. Proprio in questa direzione, anche il fondatore della Gestalttherapy Fritz Perls diceva che «il ‘consapevole’ aggiunge qualcosa di ulteriore al conscio» in quanto sviluppa nella persona «il senso delle sue capacità e abilità, del suo apparato sensoriale, motorio e intellettuale».[39] La consapevolezza motoria non è il risultato di uno sforzo, e ogni tentativo di giungervi per il tramite di una rigida volontà è destinato al fallimento. Questo è stato l’errore di Cartesio, che si è rappresentato il movimento come un meccanismo diretto da una volontà inestesa.[40] Un corpo che si muovesse per davvero in questo modo non avrebbe né grazia né leggerezza, e anzi – come insegna la psicopatologia contemporanea - avrebbe parecchie caratteristiche del movimento delle persone scisse e poco presenti a se stesse. Invece nel taijiquan si “investe nella perdita”, non nell’accumulo di tecniche meccaniche. La consapevolezza come qualità del movimento sorge da sé quando si eliminano i pattern stereotipati di risposta, e si dà spazio all’azione spontanea e rilassata del corpo. Per così dire, non c’è uno che agisce né il suo gesto meccanico e sforzato, ma un movimento equilibrato e calmo in cui corpo, mente e respiro sono del tutto armonizzati. Allora l’attenzione si integra con il movimento, che manifesta in modo chiaro il suo intendimento e risulta preciso.  Il corpo forma una sfera dinamica che integra gli opposti e fluisce in ogni direzione, utilizzando la minima energia necessaria all’azione. Per descrivere riassuntivamente questa condizione di vuoto fertile e di vibrante armonia possiamo ricorrere al concetto di vitalità. Il corpo educato al taijiquan è vitale, nel senso che è animoso e disciplinato; esso mostra un’intenzionalità originaria, un’unione di vita e forme che sta al di qua della scissione metafisica tra un soggetto egocentrico e un mondo di corpi estesi e indifferenti. L’animosa vitalità del corpo taijiquan è la sua stessa potenzialità aperta.

 

 

[1] Per un’introduzione al taijiquan nel contesto delle arti marziali “interne”, e più in generale delle arti marziali d’Oriente cfr. P. Crompton, Il tai chi. Lo spirito di un’arte marziale, Milano, Xenia, 1993, in particolare le pp. 68-79.

[2] Non sempre l’influsso del buddhismo sul taijiquan è stato colto in maniera adeguata. Fanno bene invece Chang Dsu Yao e Roberto Fassi a richiamare l’attenzione su una serie di aspetti che documentano tale influsso: in primo luogo, va citato il fatto che il taijiquan deriva in qualche misura dallo shaolinquan, sviluppato a Shaolin, il luogo dove aveva insegnato Bodhidharma. Secondo la tradizione, fu lui a portare dall’India la meditazione buddhista (o dhyana) in Cina, dove poi divenne il ch’an di epoca Tang. Si deve poi aggiungere l’aspetto cognitivo: nel buddhismo ch’an (giapp.: zen) si cerca il risveglio attraverso l’esperienza interiore del vuoto; in modo analogo, nell’esperienza marziale si ricerca la non-mente (mushin), uno stato mentale libero da condizionamenti di rabbia o paura, che permette di rispondere alla realtà non attraverso un concetto o un ragionamento, ma con la risposta istintiva del corpo. C’è infine un aspetto più sottile: il taijiquan è un’arte marziale di autodifesa che non persegue l’eliminazione fisica dell’avversario, in conformità agli ideali di non violenza del buddhismo. Cfr. Chang Dsu Yao, R. Fassi, Il tai chi chuan. Il segreto dell’energia vitale, Milano, De Vecchi, 1997, pp. 29-30.

[3] Su questo cfr. soprattutto P. Crompton, Il tai chi. Lo spirito di un’arte marziale, cit., e Id., Tai chi. I principi dell’antica arte cinese del movimento e dell’armonia, Milano, Mondadori, 2000; ricchi di riferimenti filosofici sono poi i testi di Jou Tsung Hwa, Il Tao del tai-chi chuan, Roma, Ubaldini-Astrolabio, 1986, e Huang Chungliang Al, Abbraccia la tigre, torna alla montagna, Milano, Corbaccio, 1998.

[4] Cfr. D. Siaw-Voon Sim, D. Gaffney, Taijiquan stile Chen. L’origine dell’arte del Taijiquan, Firenze, M.I.R. edizioni, 2005, p. 12.

[5] Per una descrizione comparata dei diversi stili di taiji rinvio a Wong Kiew Kit, Il libro del tai chi chuan, Roma, Ubaldini-Astrolabio, 1998.

[6] Sulla figura di Zhang Sangfeng cfr. soprattutto Jou Tsung Hwa, Il Tao del tai-chi chuan, cit., pp. 13-18.

[7] Cfr. I 36 stratagemmi, tr. it. a cura di G. Magi, Vicenza, Il punto di incontro, 2003, in particolare il terzo stratagemma “Uccidere con una spada presa in prestito”. 

[8] Lao Tzu, Tao-tê-ching, cap. 36, tr. it., Milano, Fabbri, 1997, p. 90.

[9] Ivi, cap. 76, p. 158.

[10] Ivi, cap. 26, p. 70. 

[11] Per il testo del trattato, arricchito da commenti, cfr. Liao Waysun, I classici del t’ai chi, Roma, Ubaldini-Astrolabio, 1996, pp. 91-99; cfr. anche Yang Jwing Ming, La via del tai chi chuan. Parole segrete degli antichi maestri, Vicenza, Il punto di incontro, 2001, pp. 15-28 (riporta anche il testo cinese e un utile glossario). Assumo qui il testo come base per aprire la strada a un discorso sul vissuto del corpo nella pratica del taijiquan.

[12] Il concetto di “qi” (giapponese: ki; sanscrito: prana) è di centrale importanza nella concezione cinese del cosmo.  “Qi” significa “energia”, ma con alcune significative differenze rispetto al concetto occidentale moderno.  Quest’ultimo indica la capacità di svolgere un lavoro oggettivamente misurabile sul piano fisico ed esprimibile in termini matematici; invece il “qi” è una nozione molto ricca di implicazioni filosofiche, psicologiche e cosmologiche e non può essere ridotta a una formulazione fisico-matematica nel senso della scienza moderna. Ad esempio, il “qi” può essere facilmente sentito, specie nei palmi delle mani, e manipolato consapevolmente per fini marziali o terapeutici, ma sfugge a qualsiasi tipo di definizione astratta e a qualsiasi tentativo di quantificarlo. Come indica l’ideogramma moderno, “qi” sta per il complesso delle forze che gli organismi ricavano dal cielo e dalla terra, e che entrano a far parte di un ciclo energetico di assunzione-restituzione. Nei termini più generali, il “qi” è dunque una qualità generale della relazione corporea all’ambiente circostante, una modalità qualitativa dell’esperienza che si riferisce ai processi energetici per come vengono vissuti su un piano esperienziale. Anche lo stile dell’alimentazione, la qualità del tatto o la capacità di essere in ascolto, e non solo del linguaggio, sono espressione di un certo “qi”. A differenza dell’ideogramma moderno, l’ideogramma antico non pone l’accento sulla qualità del ciclo organismo-ambiente, ma rende visibile il fine della mistica taoista: un’alchimia interna, che ha il compito di raffinare gli strati più materiali dell’essere.

[13] Il taijitu va letto in senso dinamico e diacronico: indica che lo yin e lo yang non sono separati, ma connessi e interdipendenti, così che il loro svolgersi forma una spirale aperta nel tempo. Questo è anche confermato dai rispettivi ideogrammi, che rappresentano il versante al sole e quello in ombra di una collina. Gli ideogrammi suggeriscono sul piano visivo che gli aspetti della stessa montagna sono opposti e complementari. La suprema polarità di yin e yang coglie gli aspetti dinamicamente correlativi di ogni fenomeno.

[14] Nella cosmologia taoista il mutamento del Dao si manifesta attraverso la dualità (la polarità di yin e yang), che si è originata da un Vuoto (wuji) senza limiti e che è anche la qualità dell’essere che è sempre presente prima dell’accadere di qualsiasi cosa. Quando sorge qualcosa dal wuji, la condizione di Vuoto cessa e si manifesta la suprema polarità. Yin e yang sono forze opposte e complementari che operano in ogni fenomeno (dunque anche in qualsiasi momento e aspetto del confronto marziale). Dalla suprema polarità di yin e yang, ognuna espressa da un trigramma (tre linee continue per lo yang e tre linee spezzate per lo yin), derivano poi per combinazione gli otto trigrammi di base e i sessantaquattro esagrammi dell’Yi Jing, l’antico testo sapienziale e oracolare, i quali cercano di cogliere i mutamenti di una qualsiasi costellazione di fenomeni.   

[15] Per questo motivo ogni forma di taijiquan – indipendentemente dallo stile – si apre con una postura meditativa eretta e ad essa fa ritorno, a significare che la polarità di yin e yang trae origine e fa ritorno al Vuoto.

[16] La teoria delle cinque fasi o “agenti” (wu xing) si affianca alla nozione della suprema polarità di yin e yang. Secondo questa teoria acqua, legno, fuoco, terra e metallo sono elementi materiali, ma anche simboli che alludono a qualità energetiche del movimento. I cinque agenti sono responsabili della generazione, equilibrio e trasformazione del reale, ricorrono in maniera ciclica e influiscono uno sull’altro secondo rapporti determinati. La fase “legno”, ad esempio, indica l’espansione verso l’esterno, che possiamo vedere nella concreta dinamica della vita vegetativa (ramificazione, radicamento, produzione di fogliame). All’opposto l’agente “metallo” (visibile nella formazione dei fossili o dei cristalli minerali) rappresenta un movimento dall’esterno verso l’interno; ne deriva che ogni movimento di con-centrazione, da fuori verso dentro, sarà retto dall’agente “metallo”. A sua volta, la fase “fuoco” – osservabile nel concreto scoppiettare della fiamma - è presente in tutto quello che brucia, dal basso verso l’alto, ed è contraria al movimento “acqua”, che invece tende a inumidire e a scendere verso il basso. La terra rappresenta infine il momento di stasi e di inizio di un nuovo ciclo. Nella cosmologia taoista i cinque agenti regolano anche i processi umani. Per questo vi si richiamano, tra l’altro, le arti mediche e le arti marziali interne: le regole energetiche sono infatti le stesse per la mano che cura e per la mano che colpisce, salvo che le finalità sono diverse.  In generale, il medico tradizionale cinese potrebbe decidere, ad esempio, di trattare una contrattura infiammata secondo il ciclo di controllo tra gli elementi: in questo caso dovrà ricorrere all’agente acqua, che è dominante sulla fase fuoco; e dunque userà aghi, erbe, massaggi, un regime dietetico basato sulle proprietà energetiche dei cibi per disperdere il fuoco in eccesso e ripristinare una condizione di equilibrio tra gli elementi.  Lo stesso principio è usato nelle arti marziali: un attacco diretto ed esplosivo, tipico del movimento fuoco, sarà controllato ricorrendo a tecniche morbide di assorbimento del colpo e di conduzione del movimento verso il basso, entrambe espressione della fase acqua. Questo principio è applicato nel taijiquan, ma anche negli altri due stili interni di gong fu, ossia lo xing yi quan (boxe della forma e dell’intenzione), e il bagua zhang (palmo degli otto trigrammi); e in fin dei conti, lo troviamo anche nelle arti giapponesi che discendono dal jujitsu e nellaikido. L’idea guida è la stessa: una condizione di squilibrio può essere riequilibrata lavorando sull’energia disponibile in un determinato campo di forze.

[17] A Eugen Herrigel si deve una lucida riflessione sulla “cedevolezza” nell’arte del tiro con l’arco: «Riuscire dopo un anno – egli scrive – a tendere l’arco ‘spiritualmente’, cioè con potenza eppure senza fatica, non è certo un risultato sconvolgente. Eppure me ne accontentai: cominciavo a comprendere perché si chiami ‘arte mite’ quel modo di autodifesa elevata a sistema che abbatte l’avversario col cedere inaspettatamente, elasticamente e senza dispendio di forze al suo attacco impetuoso, ottenendo così che la sua forza si rivolga contro lui stesso. Da tempi immemorabili essa ha per archetipo l’acqua, che sempre cede e mai recede, così che Lao-Tzu può dire saggiamente che la giusta via è simile all’acqua, che adeguandosi a tutto, a tutto è adatta». Cfr. E. Herrigel, Lo zen e il tiro con l’arco, Milano, Adelphi, 1975. Sul principio della cedevolezza nelle arti marziali giapponesi cfr. O. Ratti, A. Westbrook, Aikido e la sfera dinamica, Roma, Mediterranee, 1992, in particolare il cap. V sulle strategie di difesa aiki, pp. 63 e s. Tra i classici cinesi di strategia psicologico-militare cfr. I 36 stratagemmi, cit., in particolare il terzo stratagemma “Uccidere con una spada presa in prestito”. 

[18] Cfr. Cheng Man Ching, Cheng Tzu’s Thirteen Treatises on T’ai Chi Ch’uan, Berkeley North Atlantic Books, Calif. 1985, p. 22. «Quando dico ‘apprendere a investire nella perdita’ (investing in loss) – scrive Cheng –, chi è che fa questo? Investire nella perdita è permettere agli altri di usare la forza per attaccare senza usare una benché minima forza per difendersi. Al contrario si conduce via la forza di un avversario di modo che risulta inutile».

[19] Una trattazione del taiji marziale che tiene ben presenti i presupposti filosofici dell’arte si può leggere in P. Crompton, Tai chi for Two. The Practice of Push Hands, London, Paul Crompton Ltd, 1999 e Id., T’ai chi Combat, London, Paul Crompton Ltd, 1994. Per quanto riguarda lo stile Yang, il più diffuso, rinvio soprattutto ai numerosi scritti di Yang Jwing Ming, tra cui in particolare Taiji Theory and Martial Power, Boston, Ymma, 1986; Id., Taijiquan Martial Applications, Boston, Ymma, 1986; sull’arte delle prese, leve e bloccaggi cfr. Id., Taiji Chin Na-The Seizing Art of Taijiquan, Boston, Ymma, 1995; sull’arte della spada Id., Taiji Sword-Classical Yang Style, Boston, Ymma, 1999.

[20] Per un approfondimento di questi aspetti rinvio a T. Grandi, M. Venanzi, Fondamenti di Taiji chuan, Milano, Luni, 2001, in particolare osservazioni in merito a “Relazione tra Tai Chi chuan, Dao Yin e meditazione”, pp. 59-72.

[21]  “Trattato del maestro Zhang Sangfeng”, in Liao Waysun, cit., p. 96.

[22] Un approfondimento di questi aspetti relativo allo stile Chen si trova in C. Vittorioso, Taijiquan stile Chen, Roma, Edizioni Mediterranee, 1995; F. Daniele, La forma antica del taijiquan stile Chen, Milano, Luni, 2003; D. Siaw-Voon Sim, D. Gaffney, Taijiquan stile Chen, cit.; per lo stile Yang, il più diffuso, oltre agli scritti citati di Yang Jwing-Ming, si veda anche Chang Dsu Yao, R. Fassi, Corso pratico di tai chi chuan, Milano, De Vecchi, 1996; per la forma interstile, che raccoglie gli elementi principali degli stili Chen, Yang e Wu cfr. S. Danesi, E. Martinelli, Taijiquan, Milano, Fabbri, 2000.

[23] Su questo tema si possono leggere argomentazioni e spunti filosofici in B. Klein, Movement of Magic. The Spirit of T’ai Chi Ch’uan, North Hollywood (CA), Newcastle Publishing, 1984.

[24] Cfr. E. Straus, Vom Sinn der Sinne, Berlin-Göttingen-Heidelberg, Springer Verlag, 1956, pp. 240 e sgg.

[25] Cfr. al riguardo “I punti fondamentali del T’ai Chi Ch’üan” di autore ignoto, citati da Chang Dsu Yao, R. Fassi, Il tai chi chuan, cit., p. 197.

[26] Una abbondante letteratura taiji, composta da poesie, canzoni, strofe, richiama i punti essenziali della pratica. Si vedano ad esempio i testi riportati in Yang Jwing Ming, Tai Chi Secrets of the Yang Style, Boston, Ymma, 2001; e Id., Taijiquan Theory. The Root of Taijiquan, Boston, Ymma, 2003 (entrambi riportano i testi originali cinesi, seguiti da traduzione e commento); cfr. inoltre i testi classici riportati in Chang Dsu Yao, R. Fassi, Il tai chi chuan, cit., pp. 173-195; e gli autori raccolti e commentati da Liao Waysun, I classici del t’ai chi, cit.

[27] L’apprendistato nelle arti d’Oriente è una via di armonizzazione e di integrazione psicosomatica attraverso l’uso consapevole del respiro. Così descrive Eugen Herrigel la sua esperienza con l’arco giapponese: «Imparai a perdermi nella respirazione – scrive Herrigel – con tanto abbandono che talvolta avevo la sensazione di non essere io a respirare ma – per quanto possa suonare strano – di essere respirato». Cfr. E. Herrigel, Lo zen e il tiro con l’arco, p. 38. Conviene ricordare qui che Alexander Lowen, il grande allievo di Wilhelm Reich, descrive una sua esperienza da principiante nel tiro a segno in maniera molto simile. Mentre si esercitava al poligono di tiro, l’istruttore gli consigliò di eseguire il colpo usando il respiro come preparazione e filo conduttore dell’azione in modo da sciogliere la tensione muscolare. Da allora Lowen maturò una specifica attenzione al rapporto tra respirazione e tensione muscolare. Cfr. A. Lowen, La voce del corpo. Il ruolo del corpo in psicoterapia, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 2009, p. 86 sgg.

[28] Da non confondere con l’armonia nelle sei direzioni, che riguarda il piano strutturale più che quello dinamico.

[29] Cfr. F. Daniele, I tre poteri segreti del Taijiquan: Corpo – mente – energia, Milano, Luni, 2001, p. 155, cui si rinvia per una discussione sistematica delle basi strutturali del taijiquan. Dello stesso autore cfr. anche Il potere segreto del corpo nelle arti marziali, Milano, Luni, 2003.

[30] Cfr. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard, 1945, p. 160, su cui rinvio a B. Waldenfels, Das leibliche Selbst. Vorlesungen zur Phänomenologie des Leibes, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 2000, p. 147.

[31] M. Feldenkrais, Le basi del metodo per la consapevolezza dei processi psicomotori, Roma, Astrolabio Ubaldini, 1991, p. 91.

[32] Id., L’io potente. Uno studio sulla spontaneità e la compulsione, Roma, Astrolabio Ubaldini, 2007, p. 65 s.

[33] Nel discorso di Feldenkrais la motivazione dominante riveste un ruolo fondamentale per la formazione di un “io potente”.  In questo contesto potere e libertà si equivalgono: è libera quella condizione di spirito in cui il conflitto delle motivazioni opposte è risolto; e allora confusione emotiva e dispersione energetica dileguano e viene fuori da sé la capacità di agire con efficacia, e in modo sensibile e spontaneo. L’azione potente è anche artisticamente creativa. Können (potere) e Kunst (arte) sono in rapporto di rinvio reciproco.

[34] Sulla teoria del respiro nella pratica del taijiquan rinvio a Yang Jwing Ming, Taijiquan Theory, cit., pp. 61-83.

[35] Al riguardo si possono vedere ad esempio gli esercizi usati nel yi quan (boxe della mente), uno stile di gong fu sviluppato nel primo Novecento per ricavare l’essenziale e mediare tra gli stili interni e quelli esterni. Cfr. S. Agostini, Kung Fu Yi Quan. La boxe della mente, Roma, Mediterranee, 2000.

[36] F. Perls, R. F. Hefferline, P. Goodman, Teoria e pratica della terapia della Gestalt: Vitalità e accrescimento nella personalità umana, Roma, Astrolabio Ubaldini, 1997, p. 345.

[37] Cfr. B. Waldenfels, Das leibliche Selbst, cit., p. 284-285. “La relazione a se stessi (Selbstbezug) non precede la relazione all’altro, così questa diverrebbe una relazione secondaria, ma relazione a se stessi e all’altro vanno lette in senso sincronico.” Waldenfels riprende in questo modo un concetto importante nell’indirizzo fenomenologico ed ermeneutico della filosofia contemporanea; in base a questo concetto la relazione agli altri, nelle diverse forme del sostegno e della limitazione è costitutiva dell’esperienza della realtà.

[38] M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 128.

[39] F. Perls, L’approccio della Gestalt - Testimone oculare della terapia, Roma, Astrolabio Ubaldini, 1977, p. 66.

[40] Cfr. A. R. Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello, Milano, Adelphi, 1995, in particolare le pp. 336-343.

 


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Filosofia

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