Abitare il confine tra invisibilizzazione e iper-visibilità: negoziazioni quotidiane della queerness nel contesto migratorio del Bangladesh verso l’Italia

di Valeria Infantino

 

1. Introduzione

La storia di ciò che generalmente viene definito «movimento queer»[1] è costellata di manifestazioni, slogan e simboli che rimarcano il potenziale emancipatorio e rivoluzionario del rendersi visibile, dell’uscire allo scoperto e del dirsi queer. «We’re here, we’re queer, get used to it» declamavano gli attivisti di Queer Nation[2] negli anni ’90, con una formula divenuta popolare proprio in virtù della sua efficacia nell’esprimere uno dei principali obiettivi di gran parte dei movimenti lgbt+ di allora e di oggi: rivendicare, per tutte quelle soggettività considerate «non conformi» da un punto di vista sessuale e/o di genere, uno spazio di vita possibile nella forma di uno spazio di vita visibile.

Eppure, come spesso accade in relazione alla sfera del queer,[3] nonostante si tratti di una prerogativa in apparenza incontestabile, anche l’importanza di assumere la visibilità della queerness come obiettivo politico – di pari passo con l’urgenza a opporsi alla sua relegazione al regno dell’abiezione, del silenzio e dell’invisibilità – necessita di essere messa in discussione, o quantomeno complicata.

Tale esigenza appare particolarmente impellente nel caso in cui si rivolga lo sguardo alle minoranze sessuali e/o di genere che si spostano nella migrazione, un contesto complesso dove i linguaggi e i paradigmi «globali» di teoria e attivismo queer non funzionano come ci si aspetterebbe,[4] ma dove, al contrario, è l’intrecciarsi di visibilità e invisibilità a mostrare la complessità connessa all’essere al contempo queer e migrante: il binomio visibilità/invisibilità, con tutte le contraddizioni delle relazioni di potere in cui è intrecciato, fornisce paradossalmente le modalità – vedere/non vedere – per sancire e punire allo stesso tempo soggettività che, nei nuovi contesti d’arrivo, continuano a essere lette come «non conformi» sia dalle comunità diasporiche di riferimento, sia dai sistemi istituzionalizzati dell’accoglienza.[5]

Alla luce di questa premessa, in questo articolo s’intende ripercorrere alcuni episodi della storia di Zakir – un giovane ragazzo bangladese che oggi si auto-identifica come omosessuale,[6] arrivato a Roma da solo all’incirca dieci anni fa quando era ancora minorenne – per esplorare il ruolo ambiguo assunto da visibilità e invisibilità nel dare forma a una traiettoria di vita che si dispiega nello spazio complesso determinato dall’incontro tra queerness e migrazione.[7] Nel farlo, si vuole innanzitutto sottolineare la necessità di riconsiderare il paradigma visibilità/invisibilità come un continuum complesso, stratificato e relazionale, piuttosto che come un binomio di opposti.[8] In secondo luogo, si intende mettere in luce il potenziale, spesso ignorato, implicito nella sfera dell’invisibilità,[9] tramite l’analisi di una serie di azioni in/visibili, im/materiali e temporanee – che il teorico queer José Esteban Muñoz avrebbe definito ephemera[10] concepite come tattiche[11] quotidiane di resistenza messe in atto da un corpo queer e migrante che, in quanto tale, viene paradossalmente costruito e letto come invisibile e iper-visibile allo stesso tempo.[12]  

2. Il paradosso dell’in/visibilità

Nel momento in cui si sceglie di analizzare il fenomeno complesso della migrazione di corpi letti come «non conformi» da un punto di vista sessuale e/o di genere, ci si trova a misurarsi con i limiti di quei parametri discorsivi stabiliti da un immaginato movimento lgbt+ «globale», secondo cui la visibilità rappresenterebbe la massima prova di autenticità per un corpo queer e l’invisibilità un sintomo indiscutibile della sua oppressione e mancata politicizzazione.[13] Per cogliere la complessità della queerness in ambito migratorio è invece opportuno abbracciare il carattere di ambivalenza e di coesistenza – spesso scomoda – che caratterizza questa doppia dimensione e che non si esaurisce nella dicotomia visibilità/invisibilità come domini nettamente separati e opposti.

Non a caso, è proprio il paradigma relazionale dell’in/visibilità[14] così concepito a strutturare nel profondo l’esperienza di queerness e migrazione di Zakir, a partire dal carattere di ambiguità che l’elemento del desiderio omosessuale ricopre nella scelta stessa di intraprendere il percorso migratorio, fino alle strategie di resistenza che egli mette in atto per negoziare il suo posizionamento prima e dopo la migrazione. Quest’ultima non si risolve infatti in un percorso lineare dall’oppressione dell’invisibilità in Bangladesh alla libertà della visibilità in Italia, ma, al contrario, crea le condizioni per un paradosso esistenziale che porta all’impossibilità di tracciare una linea di confine netta tra ciò che è visibile e ciò che non lo è. Seppur costante nell’esperienza di Zakir, tale dinamica appare particolarmente evidente soprattutto nella delicata fase iniziale della sua esperienza migratoria, quando la sua «non conformità» sessuale e di genere assume al contempo una condizione di invisibilità sul piano discorsivo e di iper-visibilità su quello corporeo e materiale, esponendolo al rischio costante di sanzioni e obbligandolo a ritagliarsi spazi di resistenza proprio all’interno del dominio ambiguo dell’in/visibilità in cui si ritrova una volta giunto in Italia. Durante gli anni dell’infanzia e della prima adolescenza trascorsi in Bangladesh, infatti, Zakir riesce a contenere tale paradosso, seppur a costo di uno sforzo di repressione che, come testimoniano le sue parole, si rivela incredibilmente sofferto: «Tu non lo sai quanto è stata difficile questa cosa che non riuscivo a dire a qualcuno questa cosa», ricorda oggi a proposito di quegli anni, alludendo implicitamente alla propria omosessualità (qui ambiguamente indicata con l’espressione «questa cosa»). O ancora: «Ogni giorno, ogni notte sentivo una sofferenza assurda. Perché mi sentivo inutile in questo mondo». È tuttavia con l’innescarsi delle dinamiche migratorie – che, non va dimenticato, prendono avvio durante gli anni complessi dell’adolescenza di Zakir – che la difficoltà di mostrarsi e di dare un nome al proprio desiderio si scontra con le conseguenze dell’assunzione di un nuovo status di visibilità, indissolubilmente legato alla sfera corporea della sua queerness. È dunque opportuno analizzare più da vicino i due poli di invisibilità discorsiva e iper-visibilità corporea che danno forma al paradosso di in/visibilità appena introdotto.

Con «invisibilità discorsiva» si fa qui riferimento al fatto che, nonostante Zakir acquisisca presto consapevolezza della difformità del proprio desiderio rispetto a quello espresso dai suoi coetanei,[15] al momento del suo arrivo in Italia non ha a disposizione alcuno strumento per dare a esso un senso al di là di un regime di patologizzazione, per nominarlo, né tantomeno per uscire allo scoperto in quella dimensione di incontestata visibilità immaginata come la diretta conseguenza del coming out.[16] Basti pensare che la motivazione ufficiale per cui egli lascia il Bangladesh per l’Italia ricalca uno schema piuttosto classico, in cui a essere visibile è soltanto l’aspetto prettamente economico:[17] unico figlio maschio di una famiglia non particolarmente abbiente di una piccola città del Paese, viene incoraggiato dai suoi parenti a raggiungere un amico di famiglia in Italia per lavorare, senza sapere che cosa aspettarsi né dal viaggio, né dalla destinazione. Tuttavia, come spesso accade nel caso di soggettività che faticano a conformarsi alle norme sessuali e di genere dominanti, la dimensione economica della migrazione finisce con l’intrecciarsi con altri fattori di carattere emotivo relativi alla sessualità e al genere, che svolgono un ruolo altrettanto – se non più – importante nel motivare lo spostamento migratorio, anche nel caso in cui non vengano espressi esplicitamente.[18] Nel ricordare oggi il periodo precedente alla sua partenza, attraverso poche frasi allusive ma eloquenti, Zakir traccia una connessione profonda tra l’impossibilità di continuare a reprimere i propri desideri e la necessità di lasciare il proprio Paese: «Poi io volevo scappare sinceramente da quel luogo. Perché, guarda… la natura, la gente, tutto quanto, mi piace un sacco, anche sento la mancanza. Però qua c’è altro, la mentalità, la tua vita…». E ancora, stavolta alludendo più direttamente all’imperativo di reprimere i desideri adolescenziali sempre più distanti da quelli di amici e coetanei: «Mentalmente ero forte perché stavo pensando da anni [di partire], dall’inizio dell’adolescenza fino a 17… 5 anni della mia [vita] soppressa, capito? Volevo solo scappare da quel luogo». Nascosta tra le pieghe delle motivazioni ufficiali e pubbliche di quella che viene costruita come una migrazione puramente economica, si insinua dunque la dimensione intima e segreta del desiderio omosessuale che non può essere né espressa apertamente né attualizzata concretamente, ma che, proprio per questo, agisce come ulteriore fattore di spinta nella scelta di partire. Dunque, sebbene la migrazione economica venga offerta a Zakir come strumento per risollevare le sorti della famiglia proprio in virtù del ruolo di «uomo (eterosessuale) di casa» che ci si aspetta egli incarni in pubblico,[19] essa viene in realtà segretamente riappropriata e risignificata da lui stesso come migrazione queer[20] a tutti gli effetti, e il dislocamento dal Bangladesh all’Italia come il movimento necessario affinché egli possa iniziare ad abbracciare la propria omosessualità. [21] Sebbene in un primo momento questo processo avvenga lontano dallo sguardo altrui, unicamente in quella sfera più profonda del suo intimo che non troverà espressione all’esterno se non solo dopo il suo arrivo in Italia, la sua traiettoria migratoria non può tuttavia essere scissa dalla sfera del desiderio omosessuale,[22] che contribuisce a dare forma e significato a essa, sfruttandone strategicamente la stessa apparente conformità alla norma etero-patriarcale che la abilita. 

A questo primo elemento di invisibilità discorsiva – relativo alla mancanza di strumenti per auto-identificarsi positivamente, nonché all’impossibilità di condividere dubbi, pensieri e desideri relativi alla sfera sessuale con famiglia e amici – si affianca, però, quella che nel nuovo contesto d’arrivo viene ben presto identificata come l’iper-visibilità del suo corpo queer. Con il suo arrivo a Roma, infatti, l’incontrovertibilità della queerness di Zakir – manifesta innanzitutto nella percepita «femminilità» dei suoi atteggiamenti – appare chiaramente agli occhi delle persone che lo circondano, primi fra tutti gli operatori del centro di accoglienza di cui è ospite. La prima apertura esplicita sulla sua omosessualità avviene proprio all’interno di questo contesto, quando lo psicologo del centro si assume il compito di spiegare a un ragazzo ancora giovanissimo e confuso che quello che prova è del tutto «normale» e «naturale». In un certo senso, la queerness stessa di Zakir viene costruita a partire da questo primo scambio, allo stesso tempo intimo e didattico, a seguito del quale egli assume per la prima volta le vesti del «migrante gay» proprio nella misura in cui il coming out verso cui viene accompagnato lo porta a essere visto, riconosciuto e compreso come tale sia dagli altri, sia da sé stesso. Il processo di soggettivazione di Zakir passa dunque per l’acquisizione da parte della sua stessa omosessualità di una specifica tipologia di intelligibilità discorsiva, articolata nei termini rassicuranti della naturalità e della visibilità, centrali in quello che Gayatri Gopinath definisce il «global human-rights-based framework»[23] della queerness. Nella rilettura che Zakir ne fa oggi, il momento di presa di coscienza appena descritto assume il valore di vero e proprio spartiacque positivo nella sua storia personale: «A quel punto… come si dice? Una rinascita per me è stata!», afferma ripensando a quell’episodio ormai ad anni di distanza.

In questo caso in cui le dinamiche della migrazione giocano un ruolo tanto importante nell’influenzare il modo in cui il desiderio omosessuale viene compreso, espresso e attualizzato,[24] non mancano, tuttavia, delle importanti contraddizioni relative proprio alla nuova condizione di visibilità che Zakir si trova ad occupare una volta giunto a Roma: innanzitutto, il regime di violenza e le sanzioni che tale visibilità inevitabilmente innesca, e poi il carattere parziale e relazionale che quest’ultima assume, soprattutto se letta attraverso una lente transnazionale che abbracci contemporaneamente l’Italia e il Bangladesh. Tali contraddizioni – oggetto d’analisi della restante porzione di questo paragrafo – contribuiscono a mettere in luce la misura in cui, nella dinamica migratoria, l’idea stessa di queerness vada intesa non solo nei termini classici della non conformità ai dettami dell’eterosessualità, ma anche del sottile slittamento rispetto alle aspettative associate all’omosessualità stessa. 

A questo proposito, sarebbe innanzitutto sbagliato considerare l’acquisizione di visibilità appena descritta come un processo risolto e risolutivo, compiuto una volta per tutte e mai più rinegoziato. Al contrario, non solo la visibilità rimane sempre parziale e situazionale, ma la relatività stessa di ciò che si può/vuole dichiarare e mostrare si rivela connessa a una rete complessa di relazioni, in cui affetto e violenza, rapporti familiari e imposizioni sociali, fierezza e vergogna si mescolano, rendendo estremamente riduttiva qualunque facile associazione tra visibilità ed emancipazione, e imponendo, piuttosto, di prestare attenzione anche ai significati, spesso ignorati, del silenzio e dell’invisibilità.[25] È significativo, ad esempio, che Zakir non abbia mai dichiarato la propria omosessualità a familiari e amici in Bangladesh, pur muovendosi ormai con grande disinvoltura tra le dinamiche, i linguaggi e gli spazi della socialità lgbt+ romana. Le motivazioni che adduce per tale scelta si muovono tutte nella stessa direzione: non tanto salvaguardare sé stesso, quanto piuttosto proteggere la famiglia dal contraccolpo negativo che la colpirebbe qualora egli decidesse di rendere pubblico questo aspetto di sé. In questa istanza, dunque, sarebbe riduttivo leggere il silenzio e l’invisibilità come mera prova di una mancata politicizzazione del soggetto queer; piuttosto, essi vanno compresi sullo sfondo di un più ampio orizzonte transnazionale in cui parentela e queerness, e rispettabilità e visibilità non sono contrapposte in una relazione puramente antagonistica, ma interagiscono in quello che Brian Horton definisce un rapporto di «agonistic intimacy, where violence and care intermingle».[26] Al contempo out e «silent queer»,[27] Zakir mette così a nudo l’inadeguatezza di una lettura semplicistica che vorrebbe invisibilità e visibilità come i due estremi inconciliabili di una dicotomia di opposti, rivelando invece la misura in cui, nelle parole di Horton, «inhabiting contradictions between queer and normative – failing to ever be fully one or the other – is perhaps the substance central to queer experience».[28]

In secondo luogo, è necessario sottolineare come, in questo caso, l’assunzione pubblica della posizione di migrante gay in Italia – indissolubilmente connessa alla visibilità non solo discorsiva, ma anche e soprattutto corporea di una queerness associata inoltre a una dimensione di razzializzazione –, oltre a fornire gli strumenti per liberare l’omosessualità dal regime di silenzio e patologizzazione in cui giaceva relegata – e, dunque, nelle parole di Zakir, per «rinascere» –, si riveli al contempo ciò che «autorizza» l’applicazione di una serie di sanzioni più o meno esplicite e violente, messe in atto sia nel contesto diasporico della comunità bangladese di Roma, sia all’interno della più ampia sfera pubblica romana. Non è certo un caso se la storia di Zakir è costellata di episodi durante i quali è proprio la visibilità della sua corporeità al contempo non sufficientemente mascolina né sufficientemente bianca – e dunque subito individuata come doppiamente «non conforme» – a costituire il principale ostacolo alla sua vita in Italia di giovane ragazzo gay e bangladese che non gode del privilegio materiale del passing.[29] Tale visibilità corporea sfugge infatti al controllo stesso di Zakir, per venire invece sistematicamente captata da sguardi esterni che non sempre si rivelano disposti ad accettarla. Le sanzioni associate a tale visibilità si nascondono nei contesti più disparati e, a seconda dei casi, si intersecano con le aspettative proiettate sul suo corpo dai membri della diaspora bangladese, o, in alternativa, con lo scherno razzista e omofobo rivoltogli nel momento in cui viene identificato come al contempo non italiano e non eterosessuale. Così succede, ad esempio, che, una volta assunto in un ristorante gestito da suoi connazionali nel quartiere di Torpignattara – il cuore della diaspora bangladese di Roma[30] –, gli venga impedito di servire ai tavoli in sala e gli venga imposto, invece, di lavorare nell’ambiente chiuso delle cucine, relegato in una zona in cui il suo corpo, percepito come troppo femminile, non può essere raggiunto dallo sguardo dei clienti, che – non va sottovalutato – sono in maggioranza bangladesi. Significativamente, è Zakir stesso a sottolineare come la presenza di connazionali contribuisca a dare forma a tale processo di invisibilizzazione sul posto di lavoro: «[il proprietario del ristorante] non voleva mettermi in sala, anche se sono bravo, perché ho un atteggiamento femminile e là vengono clienti bengalesi e loro non accettano questa cosa», ricorda lui stesso oggi. Dunque, più che il desiderio omosessuale di per sé, in questo caso è l’evidenza iper-visibile della queerness di Zakir, chiaramente manifesta nella «femminilità» dei suoi atteggiamenti, a causare la sua relegazione a uno spazio di invisibilizzazione forzata nell’ambiente lavorativo. Per cogliere a pieno la portata di tale episodio, è opportuno osservarlo alla luce di una più profonda comprensione delle dinamiche che strutturano le costruzioni sessuali e di genere della maschilità in Sud Asia. Spesso in tale contesto, più che il coinvolgimento in pratiche omoerotiche di per sé, è piuttosto quella che viene letta come «devianza» di genere (l’«effeminatezza») a funzionare come marcatore sociale, attivo sia nel direzionare le azioni discriminatorie, sia nel dare forma a costruzioni comunitarie e identitarie. Lo chiariscono bene Aniruddha Dutta e Raina Roy:

Often, same-sex-desiring men who do not claim a distinct identity may gain their anonymity by virtue of their masculine gendering, which permits a degree of sexual license, whereas feminized male-assigned persons (whether they desire men or not) have less access to such unmarked flexibility, being subject to stigmatizing labels […]. This suggests that “same-sex” practices in South Asia are not just diffusely spread among “men” but are fundamentally constituted vis-à-vis gender normativity or variance and that gender variance, often perceived as being connected to same-sex desire, serves as a significant axis of social demarcation.[31] 

Alla luce di questa riflessione, appare chiaro come, ancor più della dimensione del desiderio, dell’attrazione, o del sesso, sia la questione della visibilità – qui corrispondente alla percepita trasgressione dei dettami egemoni della corporeità maschile messa in atto da Zakir – a giocare un ruolo cruciale nell’innescare i sistemi di contenimento e castigo applicati negli ambienti della diaspora contro un soggetto letto come «difforme».

Ancora, in una dimensione più intima come quella delle app di dating, o più esplicitamente comunitaria come quella del locale notturno lgbt+, è piuttosto la visibilità del corpo non bianco di Zakir ad attirare l’attenzione e a essere in alternativa evitata o cercata, con motivazioni che spaziano dallo scherno razzista a istanze di esotizzazione ed erotizzazione sintomo di gretto orientalismo. Interpellato come corpo erotico-esotico sempre a disposizione per dispensare sesso a piacimento, o, in alternativa, letto attraverso una lente razzializzante semplicistica e incapace di ricondurre la sua corporeità a un modello noto e intelligibile – «Pensavano che sono filippino, mi dicevano che sono un cinese scuro, cinese nero» ricorda egli a proposito del trattamento ricevuto in un locale gay da altri frequentatori italiani –, Zakir si trova spesso a essere respinto anche da spazi teoricamente destinati a un pubblico lgbt+. Come la sua esperienza dimostra, tali ambienti si rivelano in realtà plasmati su un modello di omosessualità imbevuto di pregiudizi, e finiscono con il funzionare da agenti di esclusione nei confronti di tutto ciò che esula da una griglia di intelligibilità implicitamente fondata sulla bianchezza.

In questo caso, dunque, i regimi di intelligibilità e visibilità innescati dalle dinamiche della migrazione e dell’accoglienza assumono un ruolo particolarmente ambiguo: a emergere è un quadro impossibile da ridurre a un’unica lettura lineare, all’interno del quale la necessità di migrare per «diventare» queer[32] coesiste con l’obbligo costante di rinegoziare, spesso in solitudine, questa stessa queerness a fronte delle molteplici punizioni che incombono su di essa all’interno del nuovo contesto di arrivo. È dunque su questo sfondo di sanzioni multiple e insidiose che un corpo costruito e percepito come doppiamente «non conforme» – perché straniero e gay, e allo stesso tempo in e out of the closet – si ritrova a dover aprire degli spazi in cui provare a rinegoziare un equilibrio tra la necessità di rimanere parte attiva della società senza venire sanzionato e relegato a una dimensione di invisibilità forzata, e il bisogno di esprimere in relativa libertà tutte le sfumature che compongono il suo genere e la sua sessualità. È all’analisi di tali tattiche di negoziazione che si rivolgerà ora l’attenzione.

3. «Ephemera as evidence»: tattiche di in/visibilità queer

Sulla base del quadro appena tracciato, si andrà ora a esplorare il potenziale implicito nella dimensione dell’invisibilità quando si tratta di negoziare uno spazio possibile di vita queer a cavallo di un complicato processo migratorio. Questo nuovo sguardo permette infatti di scorgere, all’interno di una serie di momenti quotidiani, ordinari, in apparenza banali, importanti tattiche di negoziazione e resistenza, che altrimenti andrebbero perdute proprio per la loro incapacità di conformarsi alle aspettative di intelligibilità che dominano molte delle letture dei percorsi migratori lgbt+.[33]

 L’in/visibilità che caratterizza tali spazi – il loro essere particolarmente nascosti o, in alternativa, il loro formarsi in concomitanza di situazioni che sono già di per sé di sospensione del normale status quo, come può essere considerato, ad esempio, il locale notturno lgbt+ – non è di certo un dato casuale. Essa rappresenta, piuttosto, un tentativo di aggirare quelle sanzioni riservate a chi, come Zakir, fallisce nel fare bene il proprio genere,[34] a cui la visibilità inevitabilmente espone. Uno dei metodi privilegiati da Zakir consiste nello sfruttare a proprio vantaggio esattamente spazi e momenti di questo tipo, al fine di liberare, anche solo temporaneamente, quelle modalità di incarnare il suo genere e la sua sessualità che, in contesti ordinari, devono invece essere tenute nascoste. Nel farlo, egli mette in atto una serie di «tattiche» di in/visibilità, nel senso che attribuisce a questo termine Michel De Certeau quando parla di esse come dell’«arte del più debole»:

[D]efinisco tattica l’azione calcolata che determina l’assenza di un luogo proprio. Nessuna delimitazione di esteriorità le conferisce un’autonomia. La tattica ha come luogo solo quello dell’altro. Deve pertanto giocare sul terreno che le è imposto così come lo organizza la legge di una forza estranea. […] Non ha dunque la possibilità di darsi un progetto complessivo né di totalizzare l’avversario in uno spazio distinto, visibile e oggettivabile. Si sviluppa di mossa in mossa. […] Questo non luogo le permette indubbiamente una mobilità, soggetta però all’alea del tempo, per cogliere al volo le possibilità che offre un istante.[35]

La natura stessa della tattica appena descritta la rende particolarmente sfuggente a qualsiasi metodo classico di analisi, e richiede che venga piuttosto adottata una modalità diversa, a tutti gli effetti, di guardare. È l’operazione che compie José Esteban Muñoz quando formula il paradigma dell’ephemera as evidence – letteralmente delle «cose effimere, di scarso valore, temporanee» (ephemera) come «prova» (evidence) – come metodologia alternativa per riuscire a cogliere quelle performance del queer che non possono essere indagate tramite lo strumento tradizionale della ricerca di prove durature, materiali, tangibili e visibili.[36]

Secondo Muñoz, l’immaterialità, la transitorietà e l’inafferrabilità rappresentano infatti caratteristiche strategicamente costitutive della queerness tutta, a maggior ragione quando essa è associata a una dimensione di razzializzazione e/o migrazione e, dunque, di ulteriore precarietà.[37] A causa della minaccia che può abbattersi su di essa nel caso in cui si azzardi a lasciare segni troppo visibili della propria esistenza, la sfera del queer deve infatti esistere ed essere tramandata in una dimensione di segretezza, nella forma della traccia momentanea e del frammento effimero, al fine di risultare riconoscibile e interpellabile unicamente da coloro che sono già collocati all’interno della sua sfera epistemologica, «evaporando», invece, al minimo tocco di tutti quegli altri che, qualora la scoprissero, si adopererebbero per distruggerne ogni traccia.[38] L’analisi che segue è dunque radicata in questa posizione teorico-epistemologica che sceglie di assumere come oggetto privilegiato di indagine più che la «cosa» o la performance in sé, la traccia e il residuo – spesso invisibili – che di esse rimangono.[39]

Una prima zona di in/visibilità nella quale iniziare a scorgere istanze effettive della tipologia di tattica effimera appena descritta coincide con lo spazio del locale notturno. Spesso relegato in secondo piano dalle teorizzazioni sul queer che tendono a prediligere, piuttosto, il terreno dell’azione più esplicitamente politica, qui esso emerge invece in quanto dimensione che, come scrive Kareem Khubchandani, «[m]olds and shapes its participants into political subjects, much like activism».[40] Nel caso di Zakir, oltre alla scelta di questo spazio come terreno di sperimentazione e rivendicazione identitaria – già di per sé significativa –, è poi ancora più rilevante la traccia in/visibile che di esso egli sceglie di lasciare. Si tratta di una foto postata sulle Storie di Instagram – una funzione che permette di pubblicare un contenuto per un periodo di tempo limitato a ventiquattro ore, allo scadere delle quali esso sparisce automaticamente –, che lo ritrae vestito e truccato «da donna», durante quella che egli mi ha poi spiegato essere una festa di Carnevale. In tale occasione egli decide infatti di mettere in scena una performance di genere che altrimenti non gli verrebbe concesso di mostrare in pubblico, vestendosi e truccandosi in modo inequivocabilmente femminile. Il contesto stesso in cui ciò accade è teoricamente già di per sé isolato rispetto alla quotidianità della vita ordinaria, trattandosi della festa di Carnevale di una nota discoteca gay romana dove Zakir si reca spesso con i suoi amici. Eppure, è indicativo che la presenza di un ambiente esplicitamente pensato per un pubblico lgbt+ non sia sufficiente di per sé a garantire la sospensione delle norme e delle aspettative di genere che pesano sul suo corpo;[41] piuttosto, si rivela necessario aspettare di poter accedere alla dimensione di esplicita mascherata che è invocata e, in un certo senso, imposta dai festeggiamenti carnevaleschi, affinché egli si senta autorizzato a impersonare il proprio genere in modo così inequivocabilmente non conforme alle aspettative della maschilità, nonché a lasciarne una traccia, seppure momentanea, su internet.[42] Quest’ultimo aspetto non è da sottovalutare se si tiene in considerazione la dimensione di silenzio e invisibilità in cui giace la sua omosessualità rispetto ad amici e familiari in Bangladesh: da essa dipende infatti la scelta attenta di quali aspetti della sua vita mostrare sui social network, uno spazio virtuale in grado di ricollocarlo nell’universo relazionale e simbolico di provenienza. In questo caso, però, egli può permettersi di esporsi proprio in virtù della tattica che mette in atto: da un lato, sfrutta il pretesto del Carnevale come copertura in grado di fornire la giustificazione perfetta per una performance di genere altrimenti etichettabile come sovversiva e, in quanto tale, sanzionabile; dall’altro, approfitta della temporaneità intrinseca nel mezzo scelto per la condivisione della foto, così da ridurre quella che potrebbe essere una prova schiacciante della sua queerness a una traccia momentanea e sfuggente – gli ephemera di cui parla Muñoz – facilmente visibile e riconoscibile solo per coloro che sono già familiari con il contesto in cui la foto stessa viene scattata. In questo caso, dunque, è tale gioco di equilibri e ambiguità sul piano dell’in/visibilità che permette a Zakir di azzardare un superamento inequivocabile, seppure temporaneo, dei confini di genere entro i quali deve muoversi invece in situazioni di vita ordinaria.

La necessità di esprimersi senza esporsi allo sguardo inquisitore altrui è poi alla base di un’altra tattica di in/visibilità messa in atto da Zakir, prima ancora di intraprendere l’esperienza migratoria: la stesura di un diario segreto le cui sorti sono tutt’altro che prevedibili. La scrittura intima e segreta del diario si rivela in grado di fare luce sulla fitta rete di negoziazioni affettive, familiari e intime, all’interno delle quali deve districarsi un corpo la cui «non conformità», potenzialmente sempre sanzionabile, non è ancora passata attraverso le maglie discorsive del discorso «globale» della visibilità lgbt+, con tutte le potenzialità e i limiti a esso associati.[43]

Anche in questo caso, la scelta di confidare la propria queerness alla materialità della pagina scritta necessita di essere astutamente negoziata. Come ricorda oggi Zakir, all’epoca della scrittura del diario egli si ritrova a inscenare quello che descrive come «un trucchetto»: separare il diario contenente ciò che può essere mostrato da quello che, invece, va tenuto nascosto. Egli finisce così con lo scrivere due diari paralleli: uno «pubblico» in cui racconta la sua quotidianità, le gite con gli amici, le giornate a scuola, e che fa leggere in particolare al padre, speranzoso di potersi accostare a quei pensieri del figlio percepiti come particolarmente misteriosi e inaccessibili; e uno «privato», al quale consegna i suoi dubbi più inconfessabili sulla sua sessualità, e della cui esistenza nessuno deve venire a sapere. Questa ulteriore tattica di in/visibilità si basa su un utilizzo strategico di quelli che, prendendo in prestito la terminologia di James Scott, potremmo definire come verbale pubblico e segreto della queerness:[44] la messa in scena di una performance di eterosessualità all’interno del verbale pubblico e l’invisibilizzazione della componente omosessuale tramite la sola condivisione del diario «edulcorato» è, infatti, ciò che permette a Zakir di accedere a uno spazio in cui poter esprimere il verbale segreto della propria queerness in relativa libertà.

Il carattere di invisibilità strategica del doppio diario, tuttavia, non si limita a questa dimensione appena descritta. Arriva infatti un momento in cui Zakir decide di distruggere il diario, la cui materialità rivive oggi unicamente negli ephemera che di esso riaffiorano nelle dimensioni del ricordo e del racconto. A muovere tale gesto non è solo la paura che qualcuno possa scoprirne il contenuto, ma, ancor di più, la vergogna provata nel rileggere le confessioni consegnate alle sue pagine in un momento in cui egli non aveva a sua disposizione altro se non il timore di essere «pazzo» o «malato». Da questa prospettiva, nel gesto di Zakir si può scorgere un significato ancora più profondo della necessità pratica di distruggere il custode del verbale segreto[45] della sua queerness, che, in quanto tale, non può e non deve essere letto da nessun altro. Come suggeriscono alcune parole che Susan Sontag consegna ai suoi stessi diari segreti, il diario è infatti molto più di un mero contenitore: «In the journal I do not just express myself more openly than I could do to any person; I create myself».[46] Se, nel momento della stesura del diario, la corporeità queer di Zakir può limitarsi a esistere solo nella creazione che di essa egli realizza nella scrittura, allora la distruzione di quelle pagine può essere letta anche come il punto di rottura definitivo con una vecchia versione di sé con cui non è più possibile riconoscersi, nonché l’inizio di un nuovo modo di pensarsi, costruirsi e mostrarsi.

Lungi dal rappresentare un momento di pura negatività, l’invisibilizzazione e la smaterializzazione del diario – volute e attualizzate dal suo stesso autore – segnano simbolicamente anche l’inizio potenziale di un nuovo percorso di vita possibile, questa volta non più solo scritto ma a tutti gli effetti incorporato, che inizia a prendere forma proprio con la partenza verso l’Italia – con tutte le potenzialità e i limiti esplorati finora che tale processo implica.

 

4. Conclusioni

Pur non essendo possibile restituire in poche pagine tutte le sfaccettature di una traiettoria di vita complessa che continua a evolversi in direzioni diverse ogni giorno, i brevi ritratti di quotidianità qui tracciati a partire delle parole e dai ricordi di Zakir riescono comunque a fornire un’importante testimonianza dell’ambiguità che il paradigma dell’in/visibilità assume rispetto a un’esperienza – una delle tante possibili – di migrazione queer.

Se da un lato la discussione portata avanti finora testimonia della centralità che l’acquisizione di visibilità assume per un corpo altrimenti forzatamente costretto a nascondersi e a camuffarsi, allo stesso tempo essa pone di fronte ai limiti evidenti di quei discorsi che si rivelano incapaci di cogliere i punti di continuità che uniscono invisibilità e visibilità in un terreno paradossale di coesistenza e condivisione, evidenti già a partire dalla decisione di Zakir di consegnare la sua testimonianza al linguaggio della ricerca scientifica. Dunque, più che di stabilire quale tra visibilità e invisibilità sia la lente più adatta attraverso cui leggere le molteplici e complesse esperienze di corpi queer in movimento nella migrazione, si tratta piuttosto di farsi trascinare dal disordine che attraversa entrambe le dimensioni, che dà loro forma e le unisce, e che, secondo Martin Manalansan IV, costituisce il cuore della queerness stessa:

Queerness and queer are not about the heroic and triumphant distancing from the normative but rather how queerness and queers are awash in the flow of the everyday – where norm and queer are not easily indexed or separable but are constantly colliding, clashing, intersecting and reconstituting. Therefore, queerness and the normative are really about mess – its violence, ambivalence, and its productive possibilities.[47]

Sono proprio le «productive possibilities» affioranti dal flusso della quotidianità, ordinaria e disordinata al tempo stesso, a emergere con maggiore forza delle tattiche di resistenza effimere e in/visibili analizzate nelle pagine precedenti. È dunque su questo sfondo che l’invisibilità e l’assenza – ciò che non c’è, ma anche ciò che c’è ma non si vede – devono assumere un ruolo di primo piano: non certo al fine di romanticizzare la dimensione dell’invisibilità, né tantomeno di ignorare o sottovalutare la violenza sottesa a pratiche di invisibilizzazione forzata tanto frequenti nel caso di corpi costruiti e letti come «non conformi», quanto piuttosto allo scopo di individuare modalità nuove di guardare alle molteplici esperienze della queerness nella migrazione. 

 

 

[1] Parlare di «movimento queer», oltretutto al singolare, è una semplificazione estrema di storie molteplici, stratificate e talvolta contrapposte, dettata unicamente dai limiti di spazio che la discussione qui impone. Per una panoramica in grado di restituire complessità storica e ideologica al tema rispetto ai contesti europei e statunitensi, si rimanda a M. DE LEO, Queer. Storia culturale della comunità LGBT+, Torino, Einaudi, 2021.

[2] Formatosi a seguito di una scissione dalla sezione newyorkese di ACT UP, Queer Nation nasce come gruppo di attivismo impegnato nella lotta all’AIDS e diviene noto soprattutto per la particolare radicalità delle sue posizioni.

[3] Quando non specificato altrimenti, utilizzo i termini queer e queerness – volutamente non in corsivo – come contenitori semantici funzionali a fare riferimento a espressioni e forme variegate di non normatività sessuale e/o di genere.

[4] La letteratura che mette in luce i limiti della presunta universalità di un discorso «globale» della queerness, nonché il suo essere radicato nei linguaggi e nelle dinamiche dell’accademia euro-statunitense, è in continua espansione, con contributi che spaziano dalla teoria queer vera e propria a prospettive provenienti dagli studi delle migrazioni e dall’antropologia. Riporto di seguito alcuni interventi particolarmente significativi: A. Cruz-Malavé, M. F. Manalsan iv (a cura di), Queer Globalizations. Citizenship and the Afterlife of Colonialism, New York, New York University Press, 2002; D. L. Eng, J. Halberstam, J. E. Muñoz, What’s Queer About Queer Studies Now?, «Social Text», s. 3-4, vol. 23, 2005, pp.1-17; G. Gopinath, Impossible Desires. Queer Diasporas and South Asian Public Cultures, Durham, Duke University Press, 2005; M. F. Manalsan iv, Global Divas. Filipino Gay Men in the Diaspora, Durham, Duke University Press, 2003; A. Wilson, Queering Asia, «Intersections», s. 14, 2006, pp. 1-10.

[5] Basti pensare, ad esempio, che nel caso di richiedenti asilo SOGI (Sexual Orientation and Gender Identity) la capacità di rendersi visibili nei termini di un’identità lgbt+ «globale», erroneamente considerata universale, costituisce uno dei requisiti fondamentali per l’ottenimento della protezione internazionale, con un processo implicitamente fondato sull’essenzializzazione della queerness in un elemento statico, naturale e universalmente intelligibile a prescindere dalle specificità del contesto storico, geografico e sociale di riferimento del richiedente. La letteratura sulle modalità di funzionamento dell’asilo SOGI, sulle sue potenzialità, ma soprattutto sui limiti e i rischi delle logiche che ne sottendono l’applicazione è vasta e in costante crescita. Per una panoramica a riguardo rispetto al contesto italiano, cfr. N. Martorano, M. Prearo (a cura di), Migranti LGBT. Pratiche, Politiche e Contesti d’Accoglienza, Pisa, Edizioni ETS, 2020.

[6] Nel corso delle interviste, quella di «omosessuale» costituisce la categoria più frequentemente impiegata da Zakir per autoidentificarsi. Tuttavia, nelle sue parole essa sembra godere di un certo grado di interscambiabilità con altre etichette quali «gay», o con un più generico «lgbt».

[7] Io e Zakir ci siamo conosciuti a novembre 2021 e ci siamo successivamente incontrati di nuovo nei mesi di dicembre dello stesso anno e di aprile del successivo. Le informazioni riportate in questo articolo sono frutto di conversazioni informali e di due interviste libere condotte nel corso di tali incontri. Zakir è sempre stato informato degli scopi delle interviste e ha espresso il suo esplicito consenso alla pubblicazione del materiale raccolto nel presente contributo, nonché all’utilizzo del suo nome. Per questo e, ancora di più, per la generosità con cui ha scelto di condividere con me tanti aspetti della sua vita lo ringrazio sinceramente. Ringrazio poi Mara Matta per aver facilitato il nostro primo incontro.

[8] M. Liinason, Challenging the Visibility Paradigm. Tracing Ambivalences in Lesbian Migrant Women’s Negotiations of Sexual Identity, «Journal of Lesbian Studies», 2019, p. 4.

[9] C. U. Decena, Tacit Subjects, «GLQ», s. 2-3, vol. 14, 2008, pp. 339-359; B. A. Horton, What’s So ‘Queer’ About Coming Out? Silent Queers and Theorizing Kinship Agonistically in Mumbai, «Sexualities», s. 7, vol. 21, 2018, pp. 1059-1074.

[10] J. E. Muñoz, Ephemera as Evidence. Introductory Notes to Queer Acts, «Women & Performance», s. 8, vol. 2, 1996, pp. 5-16.

[11] M. De Certeau, L’invenzione del Quotidiano (L’Invention du Quotidien. I Arts de Faire, 1980), trad. di M. Baccianini, Roma, Edizioni Lavoro, 2001, pp. 69-79.

[12] M. Liinason, Challenging the visibility paradigm, cit., p. 14.

[13] Ivi, p. 3.

[14] Utilizzo le forme «in/visibilità» e «in/visibile» per sottolineare l’elemento relazionale che caratterizza ogni condizione di visibilità o invisibilità, nonché l’impossibilità di separare nettamente due dimensioni che spesso coesistono e sconfinano l’una nell’altra.

[15] Nel ricordare gli anni dell’infanzia in Bangladesh, è Zakir stesso a formulare la questione della presa di coscienza della propria omosessualità tramite il riferimento alla percezione di una diversità sempre più incolmabile tra i suoi desideri e le esperienze dei coetanei: «Poi piano piano sto crescendo, passati i tredici anni, quando è iniziato l’età di adolescente, che la gente sente attrazione di… sessuale, a quel punto ho capito che io sono diverso dagli altri. Nel senso che quando parlavo con gli amici, compagni di classe, o compagni di giochi quando andavo a giocare fuori… Tutti che parlavano di: “No, mi interessa di questa ragazza”. Io volevo raccontare a loro, però avevo dubbi perché il mio pensiero proprio diverso [dal loro] perché i miei amici sta raccontando sulle ragazze. Invece, se io racconto: “A me piace un ragazzo, un uomo” è una cosa proprio strana».

[16] Per una riconsiderazione critica del concetto di coming out nei termini relazionali della «strategic outness», cfr. J. Orne, ‘You Will Always Have to “Out” Yourself’. Reconsidering Coming Out through Strategic Outness, «Sexualities», s. 6, vol. 14, 2011, pp. 681-703.

[17] R. C. M. Mole, Introduction. Queering Migration and Asylum, in Idem (a cura di) Queer Migration and Asylum in Europe, London, UCL Press, 2021, pp. 1-12.

[18] Ibidem.

[19] Per approfondire il discorso sulle dinamiche di genere che strutturano le migrazioni dal Bangladesh all’Italia, cfr. F. Della Puppa, Uomini in Movimento. Il Lavoro della Maschilità tra Bangladesh e Italia, Torino, Rosenberg & Sellier, 2014.

[20] Come sottolinea Richard Mole, a oggi non c’è ancora un consenso univoco su cosa renda un percorso migratorio identificabile come «migrazione queer». Se in molti identificano il peso giocato dalla queerness nel dare forma alla scelta di migrare come fattore determinante, Mole va oltre questo modello e afferma: «I argue that queer migration should be understood as a more dynamic, two-way process, whereby the experience of migration can also influence sexuality – the way it is understood, performed and experienced – even if the stated motivation is not sexuality-related». Il caso di Zakir rispecchia la complessità messa in luce da queste parole. R. C. M. Mole, Introduction, in Queer Migration and Asylum in Europe, cit., p. 3.

[21] A. Fortier, Queer Diaspora, in D. Richardson, S. Seidman (a cura di), Handbook of Lesbian and Gay Studies, London, SAGE Publications, 2002, pp. 183-197.

[22] M. F. Manalasan iv, Queer Intersections. Sexuality and Gender in Migration Studies, «International Migration Review», s. 1, vol. 40, 2006, p. 243. 

[23] G. Gopinath, Unruly Visions. The Aesthetic Practices of Queer Diaspora, Durham, Duke University Press, 2018, p. 31.

[24] R. A. Lewis, N. A. Naples, Introduction. Queer Migration, Asylum, and Displacement, «Sexualities», s. 8, vol. 17, 2014, pp. 911-918; R. C. M. Mole, Introduction, in Queer Migration and Asylum in Europe, cit., p. 3.

[25] B. A. Horton, What’s So ‘Queer’ About Coming Out?, cit., p. 1060.

[26] Ibidem.

[27] Ivi, p. 1059.

[28] Ivi, p. 1061.

[29] Il concetto di passing viene tendenzialmente impiegato in relazione all’esperienza delle persone trans. Esso può essere definito, semplificando, come il successo nell’essere percepiti dall’esterno come appartenenti al genere verso cui si sta effettuando la transizione. Storicamente, l’importanza di «passare» è stata spesso associata a questioni concrete di sicurezza, oltre che di autorealizzazione, ma oggi la sua legittimità viene talvolta messa in discussione. In questo contesto, il concetto viene impiegato per sottolineare il «fallimento» da parte di Zakir nel «passare» per eterosessuale – e, contestualmente, per italiano –, da cui dipende gran parte delle sanzioni imposte contro di lui. Per una prospettiva creativa su tale concetto, cfr. M. B. Sycamore (ed.), Nobody Passes. Rejecting the Rules of Gender and Conformity, Berkeley, Seal Press, 2006.

[30] Cfr. F. Pompeo (ed.) Pigneto-Banglatown. Migrazioni e Conflitti di Cittadinanza in una Periferia Storica Romana, Roma, Meti Edizioni, 2011.

[31] A. Dutta , R. Roy, Decolonizing Transgender in India. Some Reflections, «TSQ», 3, vol. 1, 2014, p. 324.

[32] A. Fortier, Queer Diaspora, in Handbook of Lesbian and Gay Studies, cit., p. 190.

[33] M. Abbey, Beyond Intelligibility. The Hauntings of Queer Migration, «Identities», 2021, pp. 1-19.

[34] J. Butler, Performative Acts and Gender Constitution. An Essay in Phenomenology and Feminist Theory, «Theatre Journal», s. 4, vol. 40, 1988, pp. 519-531.

[35] M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, cit., p. 73

[36] J. E. Muñoz, Ephemera as Evidence, cit., p. 10.

[37] Ivi, pp. 8-9.

[38] Ivi, p. 6.

[39] Ivi, p. 10.

[40] K. Khubchandani, Ishtyle. Accenting Gay Indian Nightlife, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2020, p. 23.

[41] Nel raccontare la sua predilezione per la sfera del femminile, Zakir tende a identificarla con una dimensione di trasgressione che vuole e deve rimanere limitata a momenti e spazi circoscritti, e non sfociare nella quotidianità dove sarebbe causa di vergogna e scherno. Inoltre, sebbene la connessione non venga esplicitata da Zakir stesso, è possibile ipotizzare un legame tra la sua prudenza nell’esporsi anche all’interno di un luogo teoricamente «protetto» e la potenziale minaccia di sanzione che pende su di lui anche in tale contesto in quanto corpo razzializzato. Si veda a tale proposito la riflessione portata avanti nel paragrafo precedente rispetto alle dinamiche di razzializzazione perpetrate da membri della comunità lgbt+ italiana nei confronti di Zakir.

[42] A tale proposito, si può notare un’importante analogia tra la strategia di Zakir qui presa in esame e il primo «Pride» di Dhaka, tenutosi in concomitanza dei festeggiamenti del Pohela Bhoishakh (il Capodanno bengalese) il 14 aprile 2014. Organizzata da Xhulaz Mannan, attivista e redattore della rivista gay Roopbaan – la prima del suo genere in Bangladesh –, e promosso non tanto come un vero e proprio Pride, quanto piuttosto come una «Rainbow Rally», con una definizione più funzionale perché meno esplicita e politicizzata, la marcia si inserisce all’interno dei più ampi festeggiamenti del Capodanno proprio al fine di sfruttare le possibilità di camuffamento offerte dalla festività in corso. È con queste parole che l’evento viene ricordato nel sito ufficiale di Roopbaan: «April 14 is celebrated as the first day of Bangladeshi new year. Xulhaz Mannan organized a Rainbow Rally to celebrate a more inclusive new year in 2014. The colors of the rally created a natural camouflage for the community, and yet LGBTQ people could walk as themselves in a public space for the first time. It was only after the rally ended that the country and world noticed what happened. […] Despite the country’s violent reaction in 2014, Xulhaz organized another rally in 2015. The 2016 LGBTQ rally was canceled under pressure from the Government of Bangladesh amid threats from religious extremist groups». Nei mesi successivi a questi primi tentativi di Pride, la situazione per la comunità lgbt+ del Bangladesh peggiora drasticamente, con il formarsi di un clima di estrema violenza e repressione culminante con l’uccisione dello stesso Xulhaz Mannan e di Mahbub Rabby Tonoy, anch’egli attivista gay. An., Roopbaan Rainbow Rally (2014, 2015), 23 Settembre 2017, [consultato il 15 marzo 2023]; A. Hossain, Section 377, Same-sex Sexualities and the Struggle for Sexual Rights in Bangladesh, «Australian Journal of Asian Law», s. 1, vol. 20, 2019, pp. 115-125; A. Hossain, Roopbaan, in H. Chiang, A. Arondekar (eds.), The Global Encyclopedia of Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender and Queer History, Farmington Hills, Charles Scribner and Sons, pp. 1390-1392.

[43] Si veda la nota 4 di questo contributo.

[44] J. C. Scott, Il Dominio e l’Arte della Resistenza. I «Verbali Segreti» Dietro la Storia Ufficiale (Domination and the Arts of Resistance. Hidden Transcripts, 1990), trad. di R. Ambrosoli, Milano, Elèuthera editrice, 2006. Ringrazio Marianna Ferrara per avermi suggerito questa chiave di lettura.

[45] Ibidem.

[46] S. Sontag, Reborn. Journals and Notebooks 1947-1963, a cura di D. Rieff, New York, Farrar Straus Giroux, 2008, p. 164.

[47] M. F. Manalansan iv, Messing Up Sex. The Promises and Possibilities of Queer of Color Critique, «Sexualities», s. 8, vol. 21, 2018, p. 2.


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