Lontano dalle foreste, dentro la città: forme di invisibilità e strategie di visibilità tra le donne migranti ādivāsī del Jharkhand

di Marilena Proietti

 

 

1. Introduzione

Durante un programma culturale nei pressi della fermata metropolitana Moolchand di Delhi nell’ottobre 2022, una donna ādivāsī[1] della comunità dei Santal[2] proveniente dal distretto di Dumka, nello stato del Jharkhand (India orientale), affermava: «non sono molte le occasioni di incontrare altri Santal in città e parlare in lingua santali. Quando ci riuniamo, danziamo per ore. Danzare ci fa sentire uniti».[3] Il programma era stato organizzato per la comunità santal migrante di Delhi e prevedeva un rito cristiano di due ore, al termine del quale la vibrante musica del tumdak’ e del tamak’ [4] avrebbe accompagnato le danze di gruppo circolari.[5] Durante i balli frasi di incoraggiamento da parte di leader al microfono hanno ricordato l’importanza di non dimenticare le origini e la cultura santal.[6] Un evento che doveva riunire i singoli migranti santal di Delhi ha rappresentato, invece, un’occasione per ricreare il senso di comunità, un sentimento che è parte integrante dell’identità dei popoli ādivāsī, i cosiddetti primi abitanti dell’India.

Nel subcontinente indiano, l’identificazione dei primi reali abitanti è un tema piuttosto dibattuto. Durante l’epoca coloniale, i britannici, seppur producendo studi accurati sulle popolazioni ādivāsī, li etichettarono con stereotipi etnici fissi, ponendoli omogeneamente sotto la dicitura costituzionale di Scheduled Tribes – una categoria che a sua volta non ha trovato soluzioni di continuità nell’India indipendente: il termine tribes, con le sue connotazioni evoluzionistiche, rimane attuale sul piano istituzionale, dal momento che è legalmente riconosciuto nella Costituzione indiana. Negli ultimi anni la nozione di indigenità, varrebbe a dire le caratteristiche basilari dell’essere indigeno, è stata enfatizzata da numerosi ricercatori e attivisti che hanno respinto il bagaglio culturale portato dal concetto di tribe.
Il senso di comunità e la presa di distanza dalla società mainstream del subcontinente è, tuttavia, ciò che accumuna le diverse definizioni.[7] 

Nel discorso accademico contemporaneo il termine ādivāsī è ampiamente accettato, sebbene il suo uso sia comunque circostanziato: questa parola non trova un consenso unanime nel contesto pan-indiano, visto il dibattito intorno all’identificazione delle reali popolazioni autoctone dell’India. Nel caso del Jharkhand questo termine viene abbracciato ed assume una connotazione politicamente assertiva, soprattutto a causa dei movimenti ādivāsī contro gli espropri della terra iniziati nel periodo coloniale e proseguiti anche nel periodo seguente l’Indipendenza indiana. Sempre in Jharkhand, il termine allude anche a una continuità con un’altra comunità storicamente marginalizzata, quella dei Dalit.[8] La questione terminologica risulta dunque tanto spinosa quanto fondamentale negli ultimi anni.

L’identità dei gruppi ādivāsī dell’India è stata ampiamente discussa nel periodo post-coloniale in seguito a fenomeni di acquisizione della terra - sia per scopi agricoli che per schemi di sviluppo come industrie minerarie, deforestazione e dislocamento, vale a dire le principali cause dello smarrimento identitario delle comunità ādivāsī dell’area del Chota Nagpur Plateau, corrispondente all’attuale Jharkhand.[9] La separazione, a tratti indotta, a tratti volontaria, delle comunità dalla terra con cui tradizionalmente hanno una profonda relazione ha condotto al sollevamento della questione dell’identità indigena sotto il peso di politiche neoliberiste invasive.[10] Le popolazioni ādivāsī stanno attualmente attraversando un processo sociale apparentemente irreversibile connesso alle politiche di espropriazione delle terre che, iniziate in epoca coloniale ma perpetrate in epoca post-coloniale, hanno condotto a una frammentazione di tali comunità.

Questo spiega perché uno sguardo aereo sul territorio del Jharkhand restituisce lunghe distese nere. Sebbene questa area dell’India sia nota come «terra delle foreste», durante le ricerche condotte da chi scrive nel 2018 presso il villaggio di Jorakath, nel distretto di Hazaribagh, ai lati della strada si potevano vedere principalmente interminabili file di cumuli di carbone. È difficile credere, osservando quegli strati neri, che quella terra fosse usata un tempo per l’agricoltura o la pastorizia. Tuttavia, nel periodo successivo all’indipendenza, la diffusione di iniziative di una politica economica neo-liberista ha provocato una serie prolungata di dislocamenti con cifre senza precedenti: sono diversi i gruppi privati che hanno sottoscritto accordi con il Governo indiano attraverso dei Memoranda of Understanding, accaparrandosi il diritto di utilizzare vaste aree di terra per lo sfruttamento minerario o per la costruzione di progetti industriali di varia natura. Tale processo ha generato pesanti fenomeni di esproprio e spopolamento tra le popolazioni ādivāsī del Jharkhand, che hanno costruito una profonda relazione culturale con un territorio che presenta ingenti quantità di risorse minerarie.[11] In un simile scenario è soprattutto la posizione della donna ādivāsī ad aver subito un graduale deterioramento, a causa, in buona parte, del fenomeno di spopolamento crescente.

Va precisato che all’interno delle maggiori comunità agricole ādivāsī del Jharkhand contemporaneo proprio le donne[12] si trovano ad affrontare diverse forme di discriminazioni, in parte legittimate da pratiche tradizionali connesse all’eredità della terra che hanno subito un’evoluzione storica a causa di interventi governativi coloniali e post-coloniali. Le donne ādivāsī sono soggette a convenzioni e norme di natura patriarcale che dipendono da un corpus dinamico di tradizioni:[13] dagli studi di Sanjukta Das Gupta si evince, ad esempio, che il controllo sulla terra, sacralizzata da riti religiosi, ha restituito un’impostazione patriarcale alla società ādivāsī – tradizionalmente gli uomini infatti non controllavano solo la terra ma anche tutti gli strumenti necessari alle attività produttive come l’aratro, l’arco e le frecce. La comunità del villaggio, sebbene di stampo patriarcale, offriva tuttavia una forma di protezione alle donne.[14] La convergenza tra l’irrigidimento di tali pratiche patriarcali dovuto a interventi coloniali e il graduale processo di spopolamento fornisce punti di vista adeguati che consentono di cogliere il doppio svantaggio che colpisce le donne ādivāsī per il loro status di donne in un sistema patriarcale e per la condizione di membri di società marginalizzate. Una donna ādivāsī generalmente porta sul proprio corpo il fardello di una doppia alterità, dentro e fuori dalla comunità, come donna e come indigena marginalizzata.[15]

Prendendo le distanze dal binomio donna-vittima oppressa, in questo contributo si intende mostrare come le donne ādivāsī siano agenti del miglioramento della propria condizione socio-economica attraverso azioni individuali, tra cui la scelta di intraprendere un complesso processo migratorio per la costruzione di un futuro lavorativo più roseo, lontano dal villaggio di origine. Ma all’interno delle realtà urbane le donne indigene vengono relegate ai margini, pertanto si sta assistendo sempre più spesso alla creazione di forme di visibilità. Si cercherà, dunque, di esplorare le diverse forme di visibilità/invisibilità delle donne ādivāsī, in particolare di molte lavoratrici domestiche migranti di Delhi, attraverso un approccio intersezionale,[16] che mette in relazione lo status della donna ādivāsī delle maggiori comunità agricole del Jharkhand contemporaneo e la sua condizione di subalterna tra i subalterni in riferimento alla posizione in quanto donna all’interno di tali comunità, in cui si riscontrano stereotipi di genere latenti. Ci si soffermerà in seguito sulla loro attuale migrazione interna verso le metropoli e, in conclusione, verrà analizzata la dimensione di visibilità/invisibilità all’interno dello spazio urbano di Delhi.

 

2. Storie di donne ādivāsī: la doppia subalternità

Land belongs to the community. Our community and our male people assume that community means male. Not at all! Community means male and female. So many lands are saved by tribal women, […] women are the main collectors of the forest products, […] women are working, timeless, there is no limit of time […] but they are not getting any contribution nor any payment, also for their domestic labour.[17]

In una recente intervista condotta presso la città di Ranchi, la leader femminista ādivāsī Vasavi Kiro[18] ha sottolineato la centralità dei diritti sulla terra quando si parla di uguaglianza di genere all’interno delle comunità ādivāsī. In effetti, come precedentemente accennato, le donne ādivāsī affrontano disabilità sostanziali in termini di eredità della terra a causa della legittimazione di consuetudini di stampo patriarcale che le escludono dal diritto di possedere una terra come, ad esempio, il veto sull’uso dell’aratro.[19] Con la colonizzazione inglese queste usanze sono state convertite in leggi consuetudinarie: questo passaggio ha legittimato il controllo maschile sulla terra ancestrale. Il riconoscimento legale delle consuetudini tradizionali venne mantenuto anche dopo l’indipendenza dal Governo indiano. Le attuali sfide affrontate dalle donne ādivāsī del Jharkhand derivano non solo dai fenomeni di sfollamento, ma anche da un’evoluzione dei costumi tradizionali, che sono stati legittimati durante la colonizzazione inglese e che sono tutt’oggi riconosciuti dalla legge dello Stato-nazione.[20]

Parallelamente le recenti pressioni causate dalla globalizzazione hanno portato al coinvolgimento su larga scala delle donne nella produzione agricola, un fenomeno che prende il nome «femminilizzazione dell’agricoltura».[21] Il numero crescente di donne nella produzione agricola dei villaggi sembra essere collegato a fattori eterogenei, come il lavoro salariato stagionale maschile. Questo processo ha portato nuovi e considerevoli cambiamenti nell’ambito delle relazioni di genere, in quanto ha trasferito alle donne ādivāsī maggiori responsabilità nella cura della terra, non colmando, tuttavia, la necessità di una maggiore indipendenza femminile dal controllo maschile della terra e delle risorse. È significativo il fatto che la femminilizzazione del villaggio non abbia cambiato gli equilibri di potere interni: dalle ricerche di Nitya Rao nel distretto di Dumka si evince che la creazione di forze di mercato, quali la manodopera salariata, ha rafforzato i legami di parentela, contribuendo alla formazione di un «nuovo» patriarcato. Questo avrebbe marginalizzato ulteriormente le donne, aumentando nel contempo la violenza di genere.[22] Jacinta Kerketta,[23] che è attivista e poetessa ādivāsī, attribuisce il deterioramento dello status della donna ādivāsī all’incontro con la società castale hindu.[24] Dalle ricerche di Shashank Shekhar Sinha e altri studiosi si evince, invece, che le radici di queste forme di violenza non sono unicamente dovute all’incontro con la società castale o al processo di sfollamento, giacché derivano anche da fattori interni alla cultura ādivāsī stessa.[25]

Tra le attuali forme di oppressione si annoverano casi di violenza domestica connessi ad un grave problema di alcolismo, ripetuti episodi di caccia alle streghe, i cui target sono soprattutto le donne sole e una crescente migrazione caratterizzata da dinamiche tipiche della tratta di esseri umani.[26] Queste forme di violenza non sono riconosciute in modo uniforme: è la politica dell’indigeneità a definire se si tratti di violenza o meno. In altre parole gli episodi di violenza contro le donne sono scavalcati dalla maggiore domanda di indigeneità. Elina Horo,[27] che è attivista ādivāsī, spiega chiaramente che non si può parlare dei diritti delle donne se vengono meno i diritti collettivi ādivāsī sulla terra.[28]

Corpi invisibili sul piano economico e sociale affrontano così forme visibili di oppressione, motivo per cui le donne dei villaggi e una rete di attiviste ādivāsī oggi combattono quotidianamente attraverso strategie di affermazione su macro e micro livello. Ne sono esempi concreti le campagne di sensibilizzazione sui diritti delle donne e di diffusione di consapevolezza giuridica, ad un livello base o grassroot level, organizzate da attivisti e attiviste ādivāsī e non, così come le tipologie di resistenza che si articolano in scelte relative alle singole comunità di villaggio: «we decided for the first time not to produce anymore alcohol in the village», riferiscono le donne del villaggio di Datra, nel distretto di Gumla.[29]

L’attuale fenomeno migratorio, definito «rampant» dall’attivista Vasavi Kiro, che potremmo tradurre con «dilagante», spinge le più giovani a rifiutare una situazione economica precaria e ad intraprendere una migrazione a scopo lavorativo. Attraverso un percorso di sfruttamento, le donne ādivāsī che decidono di migrare vivono forme di invisibilità sovrapposte, ritrovandosi catapultate nella metropoli più popolosa dell’India, Delhi, costrette ad acquisire spazio attraverso la resistenza e la visibilità.

Prima di addentrarsi nelle attuali dinamiche di migrazione delle donne ādivāsī verso la metropoli di Delhi, va precisato che le maggiori comunità ādivāsī dell’area dell’attuale Jharkhand non sono estranee ai fenomeni migratori: già la comunità degli Ho è nota per aver intrapreso migrazioni consistenti verso l’area del Kolhan dal nord-ovest dell’altopiano di Chotanagpur, e i Santal si sono spostati da Hazaribagh al Damin-i-Koh, nel Santal Pargana, agli albori del diciannovesimo secolo.[30]

Tra il 1870 e il 1900 si è verificata una massiccia migrazione di queste popolazioni con una significativa dimensione di genere verso le coltivazioni di tè dellAssam. Diverse studiose hanno sostenuto la non casualità di un’alta percentuale di manodopera femminile: le donne possedevano elevate capacità di coltivazione, mostrandosi idonee all’intensa attività di raccolta delle foglie di tè.[31] Un’idea della misura dell’occupazione femminile nell’industria di tè assamese può essere resa dai dati di reclutamento di Lakhimpur, dove nel 1874 sono state registrate su 7496 lavoratori ben 3236 donne e 703 bambini e bambine.[32] Durante la fase di reclutamento, sembra che le donne fossero ingannate e successivamente «rapite», in quanto non era possibile una migrazione volontaria perché è stata legalmente proibita nel 1901.[33] All’epoca l’onere di reclutare le donne, in Chotanagpur e altrove, venne assegnato a una serie di imprenditori professionali: tale sistema era internamente stratificato e coinvolgeva anche figure sub-imprenditoriali, tra cui molte donne che venivano appositamente ingaggiate al fine di identificare e persuadere le potenziali migranti.[34] Queste ultime erano esposte non solo ad uno sfruttamento contrattuale, ma anche a violazioni sessuali da parte di manager, supervisori e altri braccianti.[35] Al tempo di queste migrazioni sospette la preferenza verso le lavoratrici ādivāsī è risultata anche nelle miniere di carbone, a fronte di un numero esiguo di donne ādivāsī nei flussi verso le aree metropolitane; gli scarsi spostamenti verso le città sono stati spiegati in termini di inesperienza verso il nuovo assetto del mercato industriale urbano e di desiderio di mantenere intatto il proprio legame con la foresta e la terra.[36]

 

3. Lavoratrici domestiche ādivāsī di Delhi tra responsabilità e invisibilità

La scelta di soffermarsi sui flussi migratori verso l’Assam a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo è dovuta ad una particolare ragione: ci sono importanti analogie fra i numerosi casi di donne ādivāsī che partivano verso le piantagioni di tè e le modalità che, un secolo più tardi, caratterizzavano le dinamiche migratorie delle donne e ragazze ādivāsī del Jharkhand.
Tra i fattori di spinta v’è una profonda trasformazione sociale di tali comunità, dovuta in larga misura agli effetti generati da un massiccio fenomeno di sfollamento che ha recato uno stravolgimento delle attività lavorative tradizionali all’interno della realtà di villaggio. Ogni membro della famiglia, le cui attività erano tradizionalmente complementari e garantivano un sostentamento del nucleo familiare, oggigiorno è divenuto ununità separata, tale da essere introdotto nel mercato moderno del lavoro come unità indipendente. Le scarse opportunità di occupazione, le condizioni di povertà e i disagi di analfabetismo hanno inoltre suscitato un impellente bisogno di migliorare la propria condizione economica e sociale.[37]
La povertà è un fattore determinante per le migrazioni forzate, ma in particolare le donne che appartengono a comunità marginalizzate hanno maggiori probabilità di vivere in stato di povertà e dunque di essere coinvolte nella tratta di esseri umani.[38] Accelerando l’espropriazione delle terre, la ristrutturazione neoliberista ha alimentato la crescita e lo sfruttamento di una forza lavoro migrante estremamente precaria, composta da uomini e donne di comunità ai margini delle gerarchie socio-economiche indiane come gli ādivāsī.[39] Come hanno mostrato gli studi di Jens Lerche e Alpa Shah, l’appartenenza a una tribe o casta bassa gioca un ruolo cruciale nello sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici migranti.[40]

Sebbene sia piuttosto complesso determinare se un dato caso sia connesso alla tratta di esseri umani,[41] dalle testimonianze ottenute dalle ricerche sul campo svolte da chi scrive alla fine del 2018 e del 2022 in Jharkhand risulta evidente che le dinamiche di migrazione presentano aspetti simili alla tratta.[42] L’attuale migrazione interna delle donne ādivāsī verso le metropoli, in particolare Delhi, implica condizioni di sfruttamento e reti di agenti ben organizzate dal luogo di origine alla meta ultima.[43] Elina Horo afferma che «trafficking was and still is the biggest issue in Khunti area. Women were trafficked to big cities for domestic help and they are sexually abused. There are two cases we are working on from Torpa block».[44] Questo significa che spesso le donne che accolgono le proposte dei trafficanti, dopo aver ottenuto l’impiego, devono sottoporsi a forme di sfruttamento sessuale sia da parte degli intermediari delle varie operazioni che dai loro datori di lavoro: alle volte il rapporto sessuale è addirittura una precondizione per ottenere la mansione promessa.[45] Questo fenomeno sembra essere particolarmente diffuso nell’area di Khunti, il distretto del Jharkhand con uno dei più alti livelli di analfabetismo e sotto la soglia della povertà.[46]

Per sfuggire da una condizione di estrema povertà, le più giovani accettano di buon grado le proposte degli agenti trafficanti, mostrandosi notevolmente attratte non tanto dal lavoro offerto, di cui non ottengono neppure informazioni adeguate, quanto da uno stile di vita urbano e dalla possibilità di perseguire una buona istruzione.[47] La decisione di una partenza implica una presa di coscienza della complessità e vulnerabilità della propria situazione e, al contempo, porta con sé un certo tipo di vitalità e desiderio di ricostruirsi in una dimensione differente. In assenza di alternative percorribili, le donne ādivāsī che accettano le proposte degli agenti intraprendono una scelta necessaria, assumendosi la responsabilità di migliorare la propria condizione economica e sociale. In questi casi le migranti possono essere considerate attive e disposte alla costruzione di nuove prospettive future e alla negoziazione con la realtà urbana, seppur con una conoscenza limitata delle condizioni lavorative reali?[48] Alma Grace Barla, che è un’attivista ādivāsī dell’Orissa, sostiene che «during the migration to cities, my people do not have any idea of the risks».[49] Lo sfruttamento delle lavoratrici migranti è, dunque, frutto di una specifica modalità di flussi migratori che produce una divisione del mercato del lavoro all’interno della quale questioni come l’oppressione sociale e il genere giocano un ruolo fondamentale.

L’insieme di questi schemi di vulnerabilità portano a una mancanza di alternative al tacito consenso di fronte a condizioni non particolarmente chiare: in un contesto simile i trafficanti fanno leva sul desiderio della donna di migliorare il proprio status e sfuggire alla povertà strutturale. Alle origini di determinati sistemi di sfruttamento migratorio vi è quindi un sistema che si nutre delle diseguaglianze economiche, come la povertà e la mancanza di opportunità lavorative, ma anche di dinamiche patriarcali che, nei contesti rurali dell’India, producono forme di violenza estreme.[50]

 

4. Mo(vi)menti urbani tra spazi di margine e resistenza

Le lavoratrici domestiche ādivāsī di Delhi tendono a sperimentare uno smarrimento culturale, in quanto sono trasferite in un’altra società dove portano con sé il loro bagaglio di conoscenze e si aspettano di integrarsi in un nuovo ambiente culturale, adempiere a nuove responsabilità e assumere nuovi ruoli sociali. L’esposizione alla vita urbana lascia un’impronta significativa non solo sullo stile di vita, ma anche sulla comprensione delle dinamiche familiari e relazionali. La migrazione riconfigura e rinegozia i ruoli familiari e di genere nel momento in cui le protagoniste si imbattono in valori ed esigenze potenzialmente contrastanti.[51] Va sottolineato che spesso l’isolamento delle donne ādivāsī nella città impedisce loro di mettersi in contatto e creare un fronte comune, relegandole ancora una volta ai margini della nuova vita urbana: contrariamente ad altre lavoratrici domestiche residenti nella metropoli, che hanno la possibilità di entrare in contatto tra loro, organizzarsi ed eventualmente riunirsi per una causa comune, le donne ādivāsī faticano a fare altrettanto a causa dell’esclusione sociale primariamente dovuta alla barriera linguistica[52] e all’estraneità di cui soffrono nell’ambiente urbano.[53] L’unica forma di contatto è limitata a una ristretta cerchia di donne ādivāsī ed è saltuaria. Ruby Hembrom,[54] fondatrice ādivāsī della casa editrice Adivaani, nota che «somehow, few of them are allowed to go out on Sunday and they all show up in church. This seems the only way to have a contact with the same group of people».[55] Recarsi in chiesa la domenica è spesso un’occasione di incontrare donne della stessa comunità che condividono simili contesti socio-economici e di parlare nella propria lingua madre.[56] A tal proposito alcune informazioni giungono anche per il tramite di Prem Xalxo, padre ādivāsī gesuita di Ranchi e docente della Pontificia Università Gregoriana, secondo cui gli incontri domenicali rappresenterebbero un’occasione per condividere le esperienze di saakham-dukham (gioie e dolori) per le migranti ādivāsī.[57]

Molte lavoratrici domestiche ādivāsī devono dunque fare affidamento sugli spazi pubblici, come le chiese o le organizzazioni con sede nelle missioni cristiane[58] per avere l’opportunità di incontrarsi e sentirsi socialmente a proprio agio. Parallelamente altri spazi culturali propongono occasioni di celebrazione dei maggiori festival ādivāsī, alle quali prendono parte soprattutto le donne: ne sono un esempio l’area turistica del Dilli Haat, mercato di artigianato locale di tutto il paese e spazio per eventi culturali e l’istituto YMCA con il Programme Cultural & Tribal Committee.

La creazione di questo tipo di contesti riconfigura la città come spazio per la riappropriazione della lingua madre, dei costumi e dello stretto legame con la comunità: la partecipazione delle migranti ādivāsī a questi eventi comporta l’adattamento di forme culturali ai vincoli di un ambiente altro dal villaggio. Sembra che tale adattamento faccia parte di un processo di resistenza spaziale che controbilancia la tipica condizione di invisibilità. Da questa prospettiva la città rappresenterebbe quindi uno spazio inclusivo che apre le porte a pratiche di resistenza dove l’invisibile può trovare nuove forme di visibilità.[59]

I dati fin qui presentati mostrano che l’esperienza migratoria delle donne ādivāsī verso le grandi aree urbane implica condizioni di sfruttamento oltre a cambiamenti nei loro valori, stili di vita e percezioni. Da un lato si assiste a nuove pratiche di resistenza, ma dall’altro le norme alterate di socializzazione e le relazioni familiari acquisite dalla vita urbana provocano situazioni di isolamento sociale. Inoltre, l’impatto con la realtà urbana, influendo su attitudini linguistiche e caratteriali, non è percepito benevolmente dalle comunità ādivāsī di villaggio: si possono verificare episodi di ostracismo sociale al seguito dei quali molte ragazze scelgono di fronteggiare nuovamente, in modo del tutto indipendente, la vita della metropoli.[60]

 

5. Conclusione

Oggi la situazione critica delle popolazioni ādivāsī influisce sullo status della donna di queste comunità: la scelta di migrare verso le aree metropolitane si configura spesso come una non-scelta, dovuta alla convergenza tra un modello di sviluppo poco compatibile con le società ādivāsī e delle pratiche tradizionali di natura patriarcale che si sono adattate ai cambiamenti storici ed hanno ottenuto un riconoscimento legale. Dalle testimonianze raccolte sul campo si evince che l’invisibilità della donna ādivāsī è il risultato della sovrapposizione di diverse forme di discriminazione, che possono essere adeguatamente analizzate soltanto attraverso la lente dell’intersezionalità, come è stato fatto da molte attiviste ādivāsī che hanno denunciato l’oppressione patriarcale e di classe. Lo chiarisce bene Elina Horo quando racconta la sua storia:

[…] I was always aware of the triple jeopardy I faced. First, as a woman in general, second as an Adivasi in a caste structure and third as an Adivasi woman. I was aware, since college, for instance, of the fact that Adivasi women were victimised as dayans (witches) in rural areas of Jharkhand. I was aware that despite being educated in the same schools, Adivasi women were discriminated in the name of their traditions. But it was only after I started working in the social development sector that I realised how structural and systematic the discrimination against Adivasi women really is.[61]

L’esperienza delle donne ādivāsī è determinata dal loro posizionamento sociale e dalle dinamiche di potere a cui sono sottoposte come donne e come indigene. La condizione di invisibilità è determinante nel discorso sulle spinte migratorie degli ultimi decenni, il quale mostra forme di continuità con il periodo coloniale in cui v’era un’alta richiesta di manodopera femminile ādivāsī per l’industria di tè assamese. Le dinamiche che caratterizzano l’attuale migrazione di queste donne manifestano forti analogie con quelle della tratta degli esseri umani, causando episodi di sfruttamento e violenza. Le migranti ādivāsī nell’area urbana di Delhi hanno alle volte la possibilità di rifarsi una vita come lavoratrici domestiche, ma si ritrovano in un gap tra forme societali e culturali molto diverse che comporta per molte di loro situazioni di acuta crisi identitaria e isolamento sociale.[62] In concomitanza al disagio migratorio emergono anche spazi di visibilità e resistenza in cui alcune donne riescono a ricreare i legami con le comunità oltre i confini dei loro villaggi d’origine. È proprio l’ambivalenza della dicotomia visibilità/invisibilità che non le colloca né dentro né fuori ma piuttosto su una linea di margine, che segna sia aree di esclusione sia aree di inclusione: le lavoratrici ādivāsī di Delhi vivono una realtà che non è soltanto di confinamento e sfruttamento ma anche di resistenza e visibilità. È questo il background che bisogna tenere in considerazione per cogliere la complessità identitaria dell’esperienza migratoria delle donne ādivāsī che lasciano le foreste e le terre per raggiungere la città.

 

 

 

[1] La parola di derivazione sanscrita ādivāsī significa letteralmente «abitanti originari» di un dato luogo. Circa la suo origine, è opinione diffusa che il termine ādivāsī sia stato coniato negli anni quaranta dal Mahatma Gandhi, attraverso l’intuizione dell’attivista sociale Thakkar Bapa. Il termine, tuttavia, viene usato per la prima volta in un contesto politico nell’attuale stato del Jharkhand, con la formazione dell’Adivasi Mahasabha (il gran consiglio degli ādivāsī) nel 1938. Per ulteriori approfondimenti sul discorso terminologico si veda: S. Beggiora, Fare etnografia: teoria e pratiche della ricerca sul campo in India (con particolare riferimento alla realtà adivasi), in I. Baglioni, E. Vasconi (a cura di), Fare Etnografia. Teorie e pratiche della ricerca sul campo, Roma, Edizioni Quasar, vol. 6, 2022, pp. 74-75; S. Bosu Mullick, Introduction, in R.D. Munda, S. Bosu Mullick (a cura di), The Jharkhand Movement, Copenhagen, 2003, pp. IV-XVII; D.J. Rycroft, S. Dasgupta, Indigenous Pasts and the Politics of Belonging, in D.J. Rycroft, S. Dasgupta, S. (a cura di), The Politics of Belonging in India. Becoming Adivasi, New York, Routledge, 2013, pp. 1-13.

[2] I Santal sono una etnia numerosa dislocata nel subcontinente indiano in diverse comunità in Jharkhand, Bihar, Orissa, Bengala Occidentale, Assam, Bangladesh e Nepal. Insieme ai Munda, agli Oraon e agli Ho, i Santal sono tra le principali comunità ādivāsī dello stato del Jharkhand. In Jharkhand il numero totale di Santal è di 2,754,723 milioni. Cfr Census of India, 2011.

[3] Affermazione estratta da un dialogo con una donna santal il 16 ottobre 2022 durante il Sona Santhal Program 2022 presso New Delhi (trad. mia). Si ritiene opportuno mantenere anonima l’identità dell’informatrice, dal momento che l’informazione riportata è frutto di uno scambio del tutto informale.

[4] Il tumdak’ e il tamak’ sono due strumenti a percussione tradizionali usati dalle comunità dei Santal durante le cerimonie religiose o i festival. Entrambi sono generalmente suonati dagli uomini.

[5] Le danzatrici e i danzatori formano un cerchio o un semicerchio e ballano in file separate con le braccia intrecciate e i fianchi e le gambe che si muovono all’unisono mentre, passo dopo passo, creano lentamente un movimento in senso anti-orario. È attraverso i balli e la musica che la cultura ādivāsī, come quella santal, si esprime e si trasforma: la danza in circolo non è solamente fondamentale per il mantenimento delle tradizioni ma, nel caso del Jharkhand, è anche espressione delle politiche identitarie ādivāsī. Cfr. C. Babiracki, ‘Saved by Dance’ The Movement for Autonomy in Jharkhand, «Asian Music», s. 1, vol. 32, 2000, pp. 35–58.

[6] I Santal hanno una cultura molto ricca e variegata. Oltre al posto di rilievo occupato dalla danza, i Santal possiedono una varietà di generi come ad esempio i kahni, (storie) kudum (indovinelli), siring (canzoni), bhenta katha (eufemismi), men katha, (espressioni idiomatiche), gidra bauli (ninna nanne). Un tempo prevalentemente orale, oggi la cultura santal prevede anche l’uso della scrittura.. In S. T. Murmu, Karam Binti: The Oral tradition of Santals, Tesi di Dottorato non pubblicata, Jamia Millia Islimia, New Delhi, 2018, p. 2.

[7] R. Ciocca, S. Das Gupta, Introduction. Out of Hidden India: Adivasi Histories, Stories, Visual Arts and Perfomances, «Anglistica AION», s. 1, vol. 19, 2015, pp. 1-2; S. Beggiora, Fare etnografia: teoria e pratiche della ricerca sul campo in India (con particolare riferimento alla realtà adivasi), cit., pp. 73-78.

[8] R. Ciocca, S. Das Gupta, Introduction, cit., p. 2.

[9] Nato ufficialmente il 15 novembre 2000 da 18 distretti meridionali del Bihar, il Jharkhand è il risultato di una lunga lotta condotta dalle popolazioni dell’area, iniziata con la costituzione dell’Adivasi Mahasabha nel 1938 e protratta fino alla fine del ventesimo secolo all’interno del Jharkhand Movement. Cfr. R. D. Munda, S. Bosu Mullick (a cura di), The Jharkhand Movement. Indigenous Peoples’ Struggle for Autonomy in India, Copenhagen, International Work Group for Indigenous Affairs, 2003.

[10] S. Shilee, Indigenous Identity of Tribals in Jharkhand, «Indian Anthropologist», s. 1/2, vol. 32, 2002, p. 76.

[11] Per maggiori approfondimenti cfr. A. Roy, Capitalism: A Ghost Story, Delhi, Verso Books, 2014.

[12] Nel riferirci alle «donne» non si intende, tuttavia, alludere a un gruppo già costituito e omogeneo con interessi e desideri identici, indipendentemente dalla collocazione o dalle contraddizioni di classe, etnia o razza. Come è stato ampiamente discusso da Chandra Talpade Mohanty, bisogna fare attenzione a non cadere nella semplificazione, tipica di certi testi del femminismo occidentale, di pensare alla «donna del terzo mondo» come a un soggetto monolitico. Si veda C. Mohanty, Under Western Eyes: Feminist Scholarship and Colonial Discourses, «Boundary 2», s. 3, vol. 12, 1984, pp. 333-358.

[13] Ci si riferisce alle «tradizioni» come a fenomeni dinamici che esprimono la capacità del gruppo di mantenere collettivamente particolari visioni del mondo apparentemente immutabili. In questa sede si intende sottolineare proprio gli aspetti mutevoli che, con l’avanzare del tempo, si fanno spazio nell’apparente immutabilità della tradizione, prendendo parte a una sorta di dinamismo che traccia una continuità con il passato. Cfr. E. Hobsbawm, Introduction: Inventing Traditions, in E. Hobsbawm, T. Range (eds.), The Invention of Tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, p. 1.

[14] Secondo la studiosa Sanjukta Das Gupta la subalternità delle donne non è stata unicamente frutto di determinati interventi coloniali ma è dipesa anche da aspetti intrinsechi dei sistemi socio-economici delle maggiori comunità ādivāsī basate sull’agricoltura stanziale. Tradizionalmente l’esclusione delle donne dai diritti sulla terra non implicava una perdita delle libertà sociali ed economiche. Le donne ādivāsī erano infatti ampiamente rispettate sia nella sfera familiare che in quella economia del villaggio. In S. Das Gupta, Customs, Rights and Identity. Adivasi Women in Eastern India, «Anglistica AION», s. 1., vol. 19, 2015, pp. 93-104.

[15] D. De, A History of Adivasi Women in Post-Independence Eastern India: The Margins of the Marginals, Delhi, SAGE, 2018, p. xvi.

[16] Si intende utilizzare l’intersezionalità come strumento analitico per esplorare le molteplici strutture di oppressione, intesa nella chiave di lettura di Kimberlé Crenshaw. Fu proprio Crenshaw a utilizzare per la prima volta il termine «intersezionalità» nel 1989 per discutere le discriminazioni vissute dalle donne nere nordamericane. K. W. Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, «University of Chicago Legal Forum», vol. 1, 1989, pp. 139-167.

[17] Intervista condotta in lingua inglese presso Ranchi il 25 ottobre 2022.

[18] Nata nel 1967 a Chatwal, un villaggio nei pressi di Ranchi, è studiosa e attivista impegnata su questioni legate ai movimenti contro gli espropri della terra e ai diritti delle donne ādivāsī. Vasavi Kiro è presidente di Torang Trust, un’organizzazione non governativa che ha lo scopo di preservare la medicina ādivāsī, ed ex membro della Jharkhand State Commission for Women.

[19] È bene anche specificare che le donne hanno il diritto di usufrutto della terra e in alcuni casi il diritto di proprietà su terre non ereditate dalla famiglia, ma che possono aver acquistato. Cfr. S. Das Gupta, Customs, Rights and Identity, cit., p. 95.

[20] È solo a partire dal diciannovesimo secolo che viene introdotta la mercificazione della terra. Da quel momento le aree abitate dalle popolazioni ādivāsī si sono aperte a sfruttatori esterni come le compagnie minerarie e industriali, nonché a gruppi di contadini hindu con maggiori competenze tecniche, come i migranti dalle vicine regioni dell’Orissa o gli operai reclutati per la costruzione della ferrovia Calcutta-Nagpur, che acquistarono i terreni limitrofi ai binari. Man mano che aumentavano i contatti tra gli ādivāsī e le persone esterne, questi ultimi hanno acquisito potere sui popoli ādivāsī, spesso cacciandoli dalle loro terre. Ivi, pp. 94-97; S. Das Gupta, Adivasi e Raj: Socio-Economic Transition of the Hos, 1820–1932, Delhi, Orient Blackswan, 2011, pp. 25-26, 218.

[21] S. Lastarria-Cornhiel, Feminization of Agriculture: Trends and Driving Forces, Washington, World Bank, 2008.

[22] N. Rao, Kinship Matters: Women’s Land Claims in the Santal Parganas, Jharkhand, «The Journal of the Royal Anthropological Institute», s. 4, vol. 11, 2005, pp. 725-746.

[23] Nata il 3 agosto 1983 nel distretto del Singhbhum Occidentale, è poetessa, giornalista e attivista ādivāsī. Attraverso le sue poesie, Kerketta racconta le ingiustizie commesse sulle comunità ādivāsī e le altrettante lotte.

 

[24] Estratto di una lezione tenuta da Jacinta Kerketta dal titolo «Indigeneity, Environment and Poetry: Adivasi Writings in Contemporary Jharkhand» in data 8 maggio 2020 presso il Dipartimento Istituto Italiano di Studi Orientali, Sapienza Università di Roma.

[25] S. S. Sinha, Culture of Violence or Violence of Cultures? Adivasis and Witch-hunting in Chotanagpur, «Anglistica AION», s. 1, vol. 19, 2015, pp. 105-120; K. Sharma, Mapping Violence in the Lives of Adivasi Women: A Study from Jharkhand, «Economic and Political Weekly», s. 42, vol. 53, pp. 44-52.

[26] Ibidem; M. Proietti, Tra tradizione e disempowerment. Il caso delle donne ādivāsī del Jharkhand, in L. Karami e R. Rossi (a cura di), Donne Violate. Forme di violenza nelle tradizioni giuridiche e religiose tra Medio Oriente e Sud Asia, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2021, pp. 173-188.

[27] Nata in Orissa nel 1972, è co-fondatrice dell’Adivasi Women’s Network, una rete di attiviste ādivāsī del Jharkhand che ha l’obiettivo di contrastare le forme di violenza contro le donne ādivāsī.

[28] Intervista condotta in lingua inglese presso Ranchi il 22 novembre 2022 (trad. mia).

[29] Scambio informale avvenuto con un gruppo di 10-15 donne dei villaggi di Datra e di Bendora, distretto di Gumla, il 22 novembre 2022. Le donne incontrate, per la maggior parte di origine oraon, fanno parte di diversi gruppi di auto-aiuto (SHG, Self-Help Groups), strumento di empowerment economico femminile e di contrasto alla povertà che si è diffuso negli ultimi trent’anni nelle aree rurali dell’India. Un gruppo di auto-aiuto è composto da circa 10-20 persone, generalmente donne, ed è per lo più finalizzato all’avvio di un’attività imprenditoriale attraverso l’accesso al microcredito. In T. Jakimow, P. Kilby, Empowering Women: A Critique of the Blueprint for Self-Help Groups in India, «Indian Journal of Gender Studies», s. 3, vol. 13, 2006, p. 397; P. Chidambaram, Budget 2004–2005: Speech of P. Chidambaram, Minister of Finance, 8 July 2004 Part A, 2004, <https://www.indiabudget.gov.in/budget_archive/ub2004-05/bs/speecha.htm> [consultato in data 7 giugno 2023].

[30] S. Das Gupta, Accessing Nature: Agrarian Change, Forest Laws and their Impact on an Adivasi Economy in Colonial India, «Conservation and Society», s. 4, vol. 7, 2009, p. 235.

[31] S. Sen, ‘Kidnapping in Chotanagpur’: Recruitment for Assam Tea Plantations in a ‘Tribal’ Area, in S. Das Gupta, R. S. Basu (a cura di), Narratives from the Margins: Aspects of Adivasi History in India, New Delhi, Primus Books, 2012, p. 183; V. Damodaran, Gender Forests and Famine in 19th Century Chotanagpur, India, «Indian Journal of Gender Studies», s. 2, vol. 9, 2002, p. 155.

[32] W. W. Hunter, A statistical Account of Assam, vol. 1, Londra, 1879, pp. 388-389, citato in S. S. Sinha, Restless Mothers and Turbulent Daughters: Situating Tribes in Gender Studies, Kolkata, STREE, 2005, p. 107.

[33] S. Sen, ‘Without His Consent?’: Marriage and Women’s Migration in Colonial India, «International Labor and Working-Class History», vol. 65, 2004, p. 77.

[34] Ivi, p. 90.

[35] S. Sen, Migration and Marriage: Labouring Women in Bengal in late Nineteenth and Early Twentieth Centuries, paper presentato alla Conferenza Internazionale su «Gender, Society and Development», Delhi, 16-18 ottobre 2003, citato in S. S. Sinha, Restless Mothers and Turbulent Daughters, cit., p. 107.

[36] N. Banerjee, Modernisation and Marginalisation, «Social Scientist», s. 10/11, vol. 13, 1985, p. 66.

[37] J. Sanghera, Trafficking of Women and Children in South Asia: Taking Stock and Moving Ahead: A Broad Assessment of Anti-trafficking Initiatives in Nepal, Bangladesh and India, UNICEF e Save the Children Alliance, 1999, p. 4.

[38] Gli individui appartenenti alle comunità marginalizzate sono più esposti alla tratta di esseri umani, a causa della mancanza di protezione legale e delle maggiori probabilità di trovarsi in condizioni di estrema povertà. In M. Briain, A. van den Borne, T. Noten, Combating the Trafficking in Children for Sexual Purposes, Question and Answer, Amsterdam, ECPAT, 2006, p. 17.

[39] A. Hanieh, The Contradictions of Global Migration, «Socialist Register», vol. 55, 2019, p. 54; S. Ferguson, D. McNally, Precarious Migrants: Gender, Race and the Social Reproduction of a Global Working Class, «Socialist Register», vol. 51, 2014, pp. 1–23 citato in A. Shah, J. Lerche, Migration and the Invisible Economies of Care: Production, Social Reproduction and Seasonal Migrant Labour in India, «Trans Inst Br Geogr», vol. 45, 2020, p 720.

[40] A. Shah, J. Lerche, Migration and the Invisible Economies of Care, cit., pp. 719-734.

[41] Un aspetto delle complessità della tratta è che i confini non sono facilmente identificabili. La tratta di esseri umani differisce da ma si sovrappone a una serie di altre questioni, come ad esempio il lavoro forzato, e non tutti coloro che potrebbero rientrare nella definizione di «vittima di tratta» si auto-identificano come tali. D. L. Hume, N. M. Sidun, Introduction, in Ead. (a cura di), A Feminist Perspective on Human Trafficking of Women and Girls: Characteristics, Commonalities and Complexities, New York, Routledge, p. 3.

[42] Il Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per la prevenzione, repressione e punizione della tratta di persone, in particolare di donne e bambini, aperto alla firma di tutti gli Stati membri dell’ONU nel 2000 a Palermo, è stato il primo strumento internazionale a fornire una definizione esauriente di «tratta di esseri umani». Secondo l’articolo 3 del Protocollo, affinché si possa parlare di tratta, devono realizzarsi le seguenti caratteristiche: «il reclutamento, trasporto, tramite […] frode, abuso di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha l’autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende il lavoro forzato […] o pratiche analoghe». Il Protocollo è a disposizione al seguente indirizzo: <https://file.asgi.it/protocollo.addizionale.tratta.it.pdf> [consultato il 30 marzo 2023].

[43] Il processo migratorio include diverse fasi: innanzitutto, si svolge il reclutamento sul luogo di origine ad opera di persone, spesso conosciute dalle famiglie, che offrono un posto di lavoro alle ragazze del nucleo familiare; avviene poi il viaggio, seguito da una fase di transizione durante la quale le donne rimangono per un lasso di tempo variabile presso stanze di precise agenzie di collocamento, in attesa dello stadio conclusivo che prevede l’assegnazione presso la famiglia in cui sarà svolto il servizio domestico. In Shakti Vahini Team. Situational Report on Human Trafficking in Jharkhand, Delhi, Shakti Vahini, 2015, <https://shaktivahini.org/press/situational-report-on-human-trafficking-in-jharkhand/> [consultato il 10 marzo 2023]; S. Goswami, Human Trafficking: A Sociological Study on Tribal Women of Jharkhand, «Global Journal of Human-Social Science: Sociology and Culture», s. 4, vol. 17, 2017, p. 17.

[44] Intervista condotta in lingua inglese presso Ranchi il 22 novembre 2022.

[45] D. De, A History of Adivasi Women in Post-Independence Eastern India, cit., p. 236; N. Neetha, Urban Housekeepers from Tribal Homelands, in M. Radhakrishna (a cura di), First Citizens: Studies on Adivasis, Tribals, and Indigenous Peoples in India, New Delhi, Oxford University Press, p. 245.

[46] Per maggiori approfondimenti sul distretto di Khinti cfr. <https://khunti.nic.in/about-district/> [consultato il 15 marzo 2023].

[47] Secondo i dati del National Crime Record Bureau, nel 2020 il Jharkhand era il quinto Stato indiano con il più alto numero di casi di human trafficking. In National Crime Records Bureau (NCRB), Crime in India 2021: Statistics-Volume-III, Tabella n. 14.1, p. 1016.

[48] È bene sottolineare il ruolo di realtà locali di Delhi come l’Adivasi Vikas Sanstha, una società e agenzia di collocamento fondata nel 1997 con il supporto dell’Indian Social Institute e registrata da Sarita Baa, leader ādivāsī e attivista per i diritti umani che ha vissuto in prima persona l’esperienza di lavoro domestico a Delhi ed è stata pioniera del movimento delle lavoratrici domestiche ādivāsī. Cfr. Matters India Reporter, Pioneer of Adivasi Domestic Workers in Delhi Dies, 16 settembre 2020, <https://mattersindia.com/2020/09/pioneer-of-adivasi-domestic-workers-in-delhi-dies/> [consultato il 20 marzo 2023]; L. A. Tamayo, D. B. Mae Esteban, R. de Chavez (a cura di), Unheard and Unseen: Indigenous Women’s Path to Empowerment and Sustainable Development. Bangladesh, India and Nepal, vol. 1, Baguio City, Asian Indigenous Women’s Network (AIWN), 2021, pp. 119-120.

[49] United Nations Human Rights, Office of the High Commissioner, Alma Grace Barla: Defending the Rights of Tribal Women in India, 12 agosto 2013, <https://previous.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/AlmaGraceBarla.aspx> [consultato il 18 marzo 2023].

[50] A. Sciurba, Vulnerabilità, consenso, responsabilità: alcuni casi di grave sfruttamento lavorativo e tratta delle donne migranti in Italia, «Cosmopolis Rivista di filosofia e teoria politica», 2016, p. 2.

[51] N. Neetha, Urban Housekeepers from Tribal Homelands, cit., pp. 243-244.

[52] Nonostante l’uso frequente della hindi come lingua di contatto, le loro lingue madri sono lingue tribali: ne è un esempio la santali, che è una lingua appartenente al ramo munda della famiglia austro-asiatica ed è parlata attualmente da circa 7,5 milioni di persone in India (Census of India, 2011. In G. Milanetti, Oltre le campagne, fuori dei villaggi: storia morale dei tribali indiani, in G. Milanetti, E. Basile, M. Prayer (a cura di), Le campagne dell’India. Economia, politica e cultura nell’India rurale contemporanea, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 75. Per un prospetto dettagliato sulla lingua santali cfr. <https://www.ethnologue.com/language/ sat/> [consultato il 12 giugno 2023]. In G. Milanetti, Oltre le campagne, fuori dei villaggi: storia morale dei tribali indiani, in G. Milanetti, E. Basile, M. Prayer (a cura di), Le campagne dell’India. Economia, politica e cultura nell’India rurale contemporanea, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 75.

[53] D. De, A History of Adivasi Women in Post-Independence Eastern India, cit., pp. 236-237.

[54] Nata a Calcutta nel 1978, è la prima ādivāsī a fondare e dirigere una casa editrice in lingua inglese, Adivaani, con l’obiettivo di promuovere la letteratura ādivāsī. Adivaani nasce nel 2012 dal bisogno di sostenere le voci degli ādivāsī negli spazi contemporanei sociali, culturali e letterari. Per approfondimenti cfr. <https://adivaani.org/about/> [consultato il 19 marzo 2023].

[55] Intervista condotta in lingua inglese presso Calcutta il 17 dicembre 2018.

[56] Il 16 ottobre 2022, durante il mio incontro con la comunità migrante dei Santal di Delhi, per la maggioranza femminile, non era affatto raro che le donne si rivolgessero a me in lingua santali, tentando di insegnarmi diverse espressioni linguistiche tipiche.

[57] P. Xalxo, Migration for Livelihood: Hope amid Untold Miseries of Tribal Girls, in A. M. Brazal, M. T. Dávila (a cura di), Living with(out) Borders: Catholic Theological Ethics on the Migration of Peoples, Maryknoll (NY), Orbis Books, 2016, p. 189.

[58] Il cristianesimo occupa un ruolo centrale in materia di istruzione scolastica tra le comunità ādivāsī. Tuttavia, sembrerebbe anche essere responsabile dell’appiattimento delle culture ādivāsī in generale. Nel caso del Jharkhand, il cristianesimo ha un ruolo però leggermente diverso nel coltivare l’identità di queste comunità: è stato sottolineato ad esempio come le missioni cattoliche occupino oggi un posto di rilievo in molti nei movimenti di massa ādivāsī nel Jharkhand. Oggi la questione riguardante la conversione degli ādivāsī al cristianesimo è estremamente delicata e si inserisce nel dibattito politico contemporaneo in India. Per approfondire questo discorso cfr. F. Padel, Ecocritical Perspectives on Adivasi Destiny, «Anglistica AION», s. 1, vol. 19, 2015, p. 17; S. Aaron, Contrarian Lives: Christians and Contemporary Protest in Jharkhand, Working Paper No. 18, Londra, Asia Research Centre, London School of Economics and Political Science, 2007, pp. 15-29; N. Minz, Rise Up, My People, and Claim the Promise: The Gospel among the Tribes of India, Delhi, ISPCK, 1997, p. 53; J. Bara, Adivasis and the Conversion Conundrum: Some Lessons from History, «Economic and Political Weekly», s. 40, vol. 52, 2017, pp. 27-29.

[59] K. Wilson, E. J. Peters, ‘You Can Make a Place for It’: Remapping Urban First Nations Spaces of Identity«Environment and Planning D: Society and Space», s. 3, vol. 23, 2005, p. 405; S. Sassen, Does the City Have Speech?, «Public Culture», s. 2, vol. 25, 2013, p. 210.

[60] N. Neetha, Urban Housekeepers from Tribal Homelands, cit., p. 245.

[61] E. Horo, Patriarchies: How an Adivasi Woman Has to Fight Multiple Oppressions. Fighting Cultural Erasure and Gender-based Discrimination, Adivasi Women Lead Lives of Triple Jeopardy, 1 marzo 2023, <https://www.outlookindia.com/national/patriarchies-how-an-adivasi-woman-has-to-fight-multiple-oppressions-magazine-265354> [consultato il 22 marzo 2023].

[62] N. Neetha, Urban Housekeepers from Tribal Homelands, cit., pp. 249-250.


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