La “materializzazione” del revenant: distruzioni e ritorni

di Carminella Sipala

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Prologo

 

Il 2 agosto 1774, alla prima parigina del Palais Royal, l’Euridyce di Gluck,[1] amata e invocata da Orphée, torna dalla morte fra le braccia dello sposo. Sulla traccia di Ranieri de’ Calzabigi, il compositore tedesco rifiuta di mettere in scena il fallimento dell’impresa salvifica tentata da Orfeo, così come era stata imposta da Virgilio[2] e poi fatta propria da tutta una solida lignée alla quale si uniformeranno, fra gli altri, Ovidio, Boezio e Poliziano. La scelta di riannodare con la tradizione pre-virgiliana e celebrare il clamoroso successo di Orfeo sugli Inferi, successo senza pari che glorifica la potenza dell’amore tanto quanto il primato di quella poesia che era attributo distintivo del poeta-eroe,[3] introduce precocemente nella cultura francese il mito del ritorno e, grazie anche all’ininterrotta serie di rappresentazioni cui si promette la sfarzosa e affascinante opera – fin dal debutto ammiratissima –,[4] apre la porta ad ogni sorta di revenant.[5]

 

Vedere, far vedere, mostrare, esibire

Il XIX secolo sviluppa una forma di bulimia dello sguardo in ogni campo dello spazio sociale.[6] Il secolo che ha inventato la fotografia e il cinema, che ha sperimentato tutte le strade e tutti i gradi del realismo, da quello romantico a quello scientifico, che ha inventato l’impressionismo e il pointillisme e applicato alla pittura le leggi ottiche di recente scoperta, che ha invaso le città di immagini (dalle insegne dei negozi ai manifesti) e ha imposto le expositions internationales come vetrina per ogni produzione umana (ideologica, merceologica, artistica), che ha confiscato nei libri amplissimi spazi per le illustrazioni, inventato la stampa periodica illustrata e sviluppato come non mai la vecchia e dimenticata pratica retorica dell’ekphrasis: il XIX secolo lancia la sua sfida ai mondi invisibili decretandone l’invasione e la conquista.

Se già il flâneur di baudelairiana memoria amava vagabondare senza meta per le strade parigine lasciando vagare su uomini e cose uno sguardo libero e curioso,[7] se dell’osservatore ozioso la narrativa zoliana ha finanche fatto un dispositivo narrativo utile ad incardinare accurate descrizioni nella struttura diegetica dei suoi romanzi,[8] nel corso del secolo la voracità visiva si è allargata e democratizzata,[9] contagiando abitanti e visitatori di Parigi e facendone una città destinata al consumo visivo.

Ma in una città che – dai boulevards chiassosi agli affollati parcs des expositions, passando per la serie infinita di sale teatrali e circensi pensate per ogni tipo di intrattenimento – mette se stessa in scena in modo sempre rinnovato e sempre sorprendente,[10] la frontiera estrema della spettacolarizzazione è la sala della Morgue.

Il burocrate che per primo pensò di consentire al passante e al curioso l’ingresso – non filtrato, non mediato, non a pagamento – nella sala predisposta per l’esposizione dei cadaveri che, numerosi, venivano raccolti sui marciapiedi e nei tuguri della città o ripescati dalla Senna, era sicuramente mosso da ottime intenzioni, se non umanitarie sicuramente compassionevoli per il peso finanziario che gravava su una amministrazione costretta ogni giorno a fare i conti con decine di nuovi cadaveri senza nome da indagare e da inumare a proprie spese.[11] Ma sicuramente tale benemerito non aveva immaginato che sul desiderio di contribuire all’identificazione dell’anonima salma avrebbe prevalso il piacere dello spettacolo macabro:

la Morgue est l’un des établissements de Paris qui ont le privilège d’exciter le plus vivement la curiosité du public. À l’attraction qu’exerce le spectacle de la mort se mêle l’intérêt du drame: qu’il s’agisse d’un suicidé, d’un individu mort subitement dans la rue ou d’un assassiné, tous ces cadavres exposés ont une histoire presque toujours dramatique, souvent bruyante et dont le dernier mot a bien de chances de rester mystérieux. La foule, qui s’écrase à certains jours devant les vitrines de la salle d’exposition, n’y vient chercher que des émotions violentes; ce n’est pour elle qu’un spectacle à sensation, permanent et gratuit, dont l’affiche change tous les jours.[12]

Émile Zola, che pure apprezzava le folle annoiate e incompetentides bourgeois, des ouvriers, des paysans, les ignorants, les badauds, les promeneurs de la rue, venus là une heure ou deux pour tuer le temps»)[13] quando in maniera incongrua si affollavano a visitare gli annuali Salon di pittura sfilando davanti ad opere in gran parte incomprensibili ai loro occhi,[14] censura con sdegno le stesse folle che si dilettano davanti ai poveri corpi esposti alla Morgue ed anche lui non esita ad accostare questo «étalage de chair humaine» ad uno spettacolo teatrale.

La Morgue est un spectacle à la portée de toutes les bourses, que se payent gratuitement les passants pauvres ou riches. La porte est ouverte, entre qui veut. Il y a des amateurs qui font un détour pour ne pas manquer une de ces représentations de la mort. Lorsque les dalles sont nues, les gens sortent désappointés, volés, murmurant entre leurs dents. Lorsque les dalles sont bien garnies, lorsqu’il y a un bel étalage de chair humaine, les visiteurs se pressent, se donnent des émotions à bon marché, s’épouvantent, plaisantent, applaudissent ou sifflent, comme au théâtre, et se retirent satisfaits, en déclarant que la Morgue est réussie, ce jour-là.[15]

L’associazione fra Morgue e sala teatrale è familiare anche ai cronisti che persino sulla stampa più popolare non mancheranno di sottolineare come la realtà sappia nutrire gli appetiti del pubblico meglio del palcoscenico:

le public parisien a besoin de loin en loin de ces émotions tragiques. La plupart des théâtres étant fermés et le drame ayant, d’ailleurs, dès longtemps, à peu près disparu de la scène, c’est dans la vie réelle que se retrouvent les incidents à sensation qui passionnent les foules et grossissent le tirage des journaux. La petite morte trouvée rue du Vertbois sur les marches d’un escalier et qui vit défiler devant elle à la Morgue une centaine de mille de curieux sans avoir été reconnue, a durant plusieurs jours intrigué tout Paris et ce n’est pas sans une sorte de désappointement que l’on a appris un beau matin par le rapport des médecins chargés de l’autopsie que l’enfant avait tout simplement succombé à un accident naturel, et que toute hypothèse de crime devait être absolument écartée. Mais pourquoi s’est-on débarrassé du cadavre par ce procédé mystérieux? On se le demanderait sans doute encore, si, d’aventure, une seconde affaire autrement saisissante ne fut venue faire oublier la sinistre trouvaille de la rue du Vertbois. On a découvert éparpillés çà et là sur la voie publique, dans le quartier Montrouge, les morceaux incomplets d’un cadavre charcuté d’une main sûre, mais visiblement peu exercée. Par malheur, la tête est absente, ainsi qu’une cuisse, un sein, ce qui rend la reconnaissance et les recherches assez difficiles.[16]

Per un attimo in questo cinico resoconto emoziona il rovesciamento di prospettiva che permette alla bambina morta ed esposta alla Morgue di veder sfilare sotto i suoi occhi circa centomila persone incapaci di riconoscerla e che dunque la guardano senza vederla. Ma subito nella curiosità pubblica il caso misterioso della bambina è archiviato dal sopraggiungere di un nuovo e più intrigante mistero: un cadavere fatto a pezzi e irriconoscibile per l’assenza della testa, di un seno e di una coscia. Un puzzle incompleto che forse resterà irrisolvibile ma che ha il merito di rivelarci il segreto di tanta pubblica insensibilità: i corpi senza nome e dunque senza identità né storia non sono persone ma oggetti che possono essere esposti in vetrina, come in un negozio di curiosità si accatastano alla rinfusa merci bizzarre e reperti stravaganti («la sinistre trouvaille!»). La reificazione apre la strada alla consumazione oculare, all’insaziabile divoramento della carne morta senza nome.

 

Un vincolo inestinguibile

La morte è solo una delle possibili sfide alla volontà di rappresentazione dell’invisibile: eppure su questo tema il XIX secolo si accanirà con particolare ostinazione e pervicacia. A motivare l’uomo dell’Ottocento non è certo un generico presentimento del rovinoso approssimarsi della Catastrofe che arriverà solo con le Guerre mondiali del XX secolo né quel morboso e depravato gusto per ogni mortifero olezzo che già Mario Praz evidenziò nel suo indimenticabile volume su La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica[17] e che ha nutrito tutti i successivi studi sulle perversioni del Romanticismo e del Decadentismo. Tale gusto macabro può semmai essere riconosciuto come effetto di una risemantizzazione della morte e di una sua ricollocazione nell’immaginario collettivo che ha interessato tutto il XIX secolo.

Fino alla Rivoluzione Francese, la Chiesa aveva mantenuto in Francia una sorta di monopolio del mondo spirituale e aveva agito come indiscussa mediatrice fra il Tempo e l’Eterno e dunque anche fra la Vita e la Morte. Ma dal momento dell’approvazione, il 12 luglio 1790, della Costituzione civile del Clero, fino all’adozione, il 9 dicembre 1905, della legge sulla separazione tra Chiesa e Stato, il Secolo Lungo ha voluto “laicizzare” lo Stato, ora ghigliottinando suore e preti “refrattari” e massacrando i Vandeani cattolici, ora inventariando e confiscando monasteri ed edifici di culto da riassegnare alla proprietà pubblica. Laddove il percorso giuridico di espropriazione era stato temporaneamente sospeso dal Concordato Napoleonico del 1801, l’espulsione della religione cristiana dal vissuto e dall’immaginario, dalla pratica e dall’orizzonte della vita quotidiana proseguì gradualmente e senza interruzioni, ancorché in modo lento e fortemente diversificato su scala diatopica e diastratica. La temporanea eclissi di un’istituzione, che per un paio di millenni si era assunta il compito di rispondere alle grandi domande dell’essere umano, non può certo far tacere quelle domande, che verranno comunque poste e cercheranno altrove una risposta. Il secolo scivola così dalla “religione” alla “religiosità”, un sentimento più che un concetto: toccherà all’arte ricreare quelle sensazioni estetiche, proprie alla liturgia cristiana, e rianimare quegli stati d’animo, una volta nutriti di catechismo e tradizioni familiari e locali, laddove filosofia e scienza (più spesso para-scienza) proveranno confusamente e disordinatamente a rimettere in piedi un vago e incerto scenario che restituisca senso alle vite umane.

Abbandonato a se stesso, il singolo, non più parte di un corpo collettivo, cerca scorciatoie individuali: il dialogo con i morti – con i propri morti, evocati con il loro nome e riconoscibili dall’accurata conservazione in imago delle forme tanto amate e accarezzate – è la prima strategia cui rivolgersi per privare la morte della sua inconoscibilità e della paura che da tale ignoranza deriva. I cimiteri – spostati, per l’appunto, fuori dalle cinta urbane e lontano dalle chiese, parcellizzati dalla pratica della concessione che consente alle famiglie di condividere spazi privatizzati e di riprodurre in scala i raggruppamenti e le distanziazioni sociali propri della città dei vivi – si riempiono di addolorati angeli a fungere da messaggeri o più direttamente di statue e rilievi che eternano il volto del bambino perduto, del severo padre perno della famiglia, o della sposa amata con cui chiacchierare, mantenendo una frequentazione costante, fitta ed intima.[18] Contemporaneamente il Purgatorio si amplia e fagocita ogni altro spazio dell’Oltretomba e la conversazione, ora in sogno, ora in preghiera, con le anime dei Defunti in transito rassicura gli uni della costante attenzione degli altri.[19] I tavolini rotanti e le tavole ouija garantiscono per parte loro risposte accurate e pertinenti ai parenti in lutto, entusiasti alla prospettiva di interrogare il defunto in emozionanti sedute spiritiche.[20]
Gli accorgimenti sono diversi ma in tutti a prevalere è la privatizzazione del vincolo fra sopravvivente e defunto e il desiderio del sopravvivente di non lasciar andar via il defunto, di trattenerlo presso di sé, per parlargli e rivederlo. Perché indugi nel nostro mondo o torni indietro. Riparando all’irrimediabilità del distacco. Anche il revenant obbedisce a questa logica.

 

La “materializzazione” della morte: una proposta di lettura

Il XIX secolo gioca volentieri con i revenants, in una prospettiva che oscilla fra la ricerca di un facile effetto horror di cui nutrire la letteratura fantastica di matrice romantica e un affinamento “parnassiano” di bellezza ed erotismo così estremo da risultare insofferente ai confini terrestri. Che sia la magnifica e dolcissima Spirite di Gautier, ansiosa di portare con sé l’amato Malivert «dans une joie céleste et radieuse»[21] o la sensuale danzatrice Inès de Las Sierras di Nodier che (forse) torna dagli Inferi per consumare la sua crudele vendetta, il revenant si manifesta come una meravigliosa creatura libera dalla tirannia della materia e indifferente alle costrizioni della fisicità.

Spirite appare trasparente, impalpabile, «aérienne»:

Guy regarda vers le piano, et peu à peu s’ébaucha dans une vapeur lumineuse l’ombre charmante d’une jeune fille. L’image était d’abord si transparente, que les objets placés derrière elle se dessinaient à travers les contours, comme on voit le fond d’un lac à travers une eau limpide. Sans prendre aucune matérialité, elle se condensa ensuite suffisamment pour avoir l’apparence d’une figure vivante, mais d’une vie si légère, si impalpable, si aérienne, qu’elle ressemblait plutôt au reflet d’un corps dans une glace qu’à ce corps lui- même.

Quanto ad Inès, essa sembra del tutto indifferente alla forza di gravità:

elle revenait, elle tournait sur elle-même, comme une fleur que le vent a détachée de son rameau, elle s’élançait, de la terre, comme s’il avait dépendu d’elle de la quitter pour toujours, elle y redescendait comme s’il avait dépendu d’elle de n’y pas toucher; elle ne bondissait pas sur le sol; vous auriez cru qu’elle ne faisait qu’en jaillir, et qu’un arrêt mystérieux de sa destinée lui avait défendu d’y toucher autrement que pour le fuir.[22]

Eppure, le tracce di materialità nel vestito logoro (Rimbaud avrebbe detto che «devenait idéal»)[23] e nell’appetito indefettibile dimostrato a tavola dalla bella Inès avrebbero dovuto avvertire i terrorizzati testimoni dell’apparizione che non già di uno spettro si trattava ma di una persona in carne ed ossa, seppur folle e in fuga dalle frustrazioni di una relazione tossica.

La dimensione spettrale ha peraltro conosciuto infinite declinazioni nella letteratura prodotta dai più grandi narratori francesi del secolo e tutte – da Nerval a Mérimée, da Dumas a Balzac, da Champfleury a Bourget – sono state raccolte ed esaminate da Daniel Sangsue nella impareggiabile «collection de fantômes» che lo studioso coltiva almeno dal 1989.[24] Ma il nostro studio non vuole essere un inventario di “têtes coupées” e di “mortes amoureuses”, di “morts-vivants” e di vampiri: piuttosto esso aspira a percorrere il cammino indicato da Philippe Ariès con i suoi Essais sur l’histoire de la mort en occident: du Moyen Age à nos jours,[25] e ripreso, fra gli altri, da Michel Vovelle[26] e, in tempi più recenti, da Bruno Berthérat,[27] e pertanto si propone di indagare la natura del rapporto dell’uomo occidentale con la morte e di esaminare le forme e le dinamiche che questo rapporto ha assunto nell’universo culturale del XIX secolo.

In quell’instancabile dinamismo di pratiche e di processi che nel loro mutare e interagire costituiscono la cultura di un tempo, il nostro lavoro vuole cogliere il momento in cui le emozioni (ma anche le opinioni, le idee, le azioni) diventano discorso nella scrittura letteraria come negli spectacles vivants, nelle manifestazioni più elitarie come in quelle più popolari.[28]
In questa prospettiva il fantasma cessa di essere mera tipologia di personaggio o mitema in strutture combinatorie stereotipe o magari stilema condiviso da una scuola o corrente che dir si voglia – comunque denotatore di un codice letterario ampiamente frequentato o di una pratica individuale di scrittura – e invece si palesa come desiderio e terrore: abitante clandestino del nostro immaginario, presenza da addomesticare o rifuggire, salvagente cui aggrapparsi in estrema difesa di un sogno di immortalità, che sentiamo ormai sfuggirci dalle dita, o indesiderato rimorso di colpe che volentieri avremmo rimosso ma che affonda i denti nella nostra carne e non ci lascia andare.
Per questa ragione, in questa sede, più che allo smaterializzarsi del corpo nella letteratura fantastica, guarderemo alla “materializzazione” dello spettro nella scrittura di matrice scientista, di impronta naturalistica e di ambizione politica.

 

«Un douloureux tableau» e «une boucherie dégoûtante»[29]

La Morgue si rivela un potente dispositivo capace di catalizzare l’attenzione del pubblico e nutrire le più varie forme artistiche e manifestazioni culturali. Lo sapeva bene Edgar Allan Poe che per ambientare il suo racconto, noto come The Murders in the Rue Morgue[30] – solitamente ricordato come quello che aprirà la strada alla letteratura poliziesca mondiale – esiterà a lungo: ansioso di trovare un toponimo che agisca da “effet de réel” per il pubblico americano, evocando immediatamente qualcosa di francese (non diversamente sceglie per il personaggio del medico il nome di “Dumas”), immagina prima una inesistente rue Trianon-bas (ispirata verosimilmente al Grand e al Petit Trianon di Versailles) per inserire poi sul manoscritto la egualmente inesistente rue Morgue nel quartiere (esistente) di Saint-Roch:[31] il nome dell’obitorio venne da Poe evidentemente ritenuto perfetto per un’orribile scena del delitto, considerato che

upon English speaking readers the French phrase has the primary effect of a macabre figure of speech and profoundly deepens the emotional suggestiveness of the original title with a chill of horrible anticipation.[32]

 In piena Belle Époque il brivido d’orrore evolverà in sarcasmo nelle canzoni degli anni 1890 di Mévisto: sulla linea dei Pendus di François Villon, egli ama talvolta far parlare il cadavere in prima persona,[33] ma per i cadaveri, e per quelli della Morgue in particolare,[34] rivendica una pietà che non tollera il facile scherno degli spettatori, ragazzini di strada o bravi borghesi. La “chanson naturaliste”[35] de Mévisto insisterà dunque da una parte sulla crudezza dei colori e la poltiglia dei corpi purtuttavia ordinatamente e ossimoricamente allineati in esposizione, spettacolarizzando la morte a uso e consumo dei cafés chantants che queste canzoni riprenderanno e porteranno al successo; dall’altra farà proprio lo sguardo compassionevole[36] che il romanzo popolare di Eugène Sue ha insegnato a rivolgere sulle sofferenze dei diseredati e sulla mancanza di equità nei rapporti sociali:

[37]Fra i due estremi del facile orrore e della cruda causticità, lungi dall’ipocrita rivendicazione di improbabili valenze educative esibite da guide turistiche,[38] la linea dominante scelta dal Mondo delle Lettere per riprodurre la messa in scena di cadaveri, alla quale un’opinione pubblica eccitata dalla vista del sangue e della vera carne inesorabilmente si volge,[39] sembra essere il “socialismo” da romanzo popolare di Eugène Sue:[40] una denuncia dolente priva di velleità eversive, la richiesta di diritti ma soprattutto di riequilibrio del divario sociale e di più ampia condivisione collettiva del benessere. In breve: il riconoscimento della dignità di ogni essere umano, al di là delle condizioni di nascita e della personale abilità di acquisire ricchezza, di controllare strategie e strumenti di affermazione, e di conquistare potere.[41] Quella dignità che l’esposizione di carne umana della Morgue umilia e offende.
Nel 1846, proprio negli anni in cui imperversa quella «espèce de fièvre universelle causée par la publication des Mystères de Paris»,[42] appaiono i due tomi di Histoires à faire peur firmati dal commandeur Léo Lespès.[43] L’ispirazione viene da Sue, come dimostrano dettagli quali il rifiuto di consegnare alla giustizia il malvagio, “punendolo” invece con il perdono e con quella consapevolezza del male commesso che lo condurrà a rapida morte.[44] La scrittura – frettolosa e maldestra – è di un giornalista (Antoine Joseph Napoléon Lespès, 1815-1875) che si avvia a diventare, con lo pseudonimo di Timothée Trimm, uno dei personaggi più alla moda del Secondo Impero e peraltro destinato allo stesso rapido tramonto di Napoléon III.[45]

Il lungo racconto Les Yeux verts de la Morgue [46] fa dell’obitorio parigino, dei suoi uffici e delle sue lugubri sale che su tavole di marmo nero allineano «des cadavres affreux, bleus, noirs, verts, défigurés, hideux à contempler»,[47] il centro nevralgico di una furibonda macchina narrativa nella quale i cadaveri si risvegliano e tornano a morire, entrano ed escono dalla Salle des Morts, ritrovano la parola o crollano in prolungati svenimenti, sono dichiarati morti senza esserlo e risvegliati quando tutto sembra perduto e subiscono o disvelano complotti resi possibili dalla complicità venale di dirigenti e assistenti della Morgue stessa. L’intrigo – inverosimile come prassi del feuilleton – ma singolarmente mal costruito, sì da richiedere frequenti interventi ex post del narratore a spiegare e ricucire, prevede inevitabilmente la presenza di un vilain, criminale spietato e diabolico ma incongruamente sentimentale, di una vergine ingenua e inconsapevole, bisognevole di continui salvataggi, di un generoso ed eroico fidanzato della fanciulla, purtroppo destinato a morte precoce dopo aver però consentito da deus ex machina lo svelamento della terribile macchinazione, di una madre della sventurata fanciulla e di un suo fedele servitore, monco della mano destra ma incredibilmente abile a comparire sempre nel posto giusto al momento giusto. A rendere particolare tale coacervo di banalità è che ciascuno di questi personaggi, a turno, al suo primo apparire è percepito dagli astanti come uno spettro spaventoso, per poi rientrare presto nel novero dei viventi. La narrazione procede dunque sistematicamente nell’alternarsi di improvvise fibrillazioni che alzano la tensione e gelano il sangue del lettore e rassicuranti rivelazioni che abbassano il ritmo ed escludono il soprannaturale, salvo rievocarlo dopo solo poche pagine per il sopraggiungere di una nuova inquietante apparizione: che siano verdi occhi che baluginano dietro il lucernaio della Salle des morts o una voce d’oltretomba che riecheggia in oscuri sotterranei o un braccio monco che sfiora il petto di un dormiente o ancora una vecchia scheletrica che sfonda le pareti fradice di un appartamento in rovina... Incessantemente replicata e sistematicamente smentita, l’irruzione del revenant in una storia di cadaveri veri falsi e presunti si rivela un procedimento stilistico utile alla costruzione della tensione sul breve periodo ma meccanico nell’applicazione. Alla fine nulla di extraumano rimarrà in una vicenda di ordinaria avidità e in una scrittura cinica che crea i revenants solo per distruggerli, minacciandone l’estinzione.

È in questo spazio letterario che Émile Zola propone il proprio sguardo sulla Morgue.

 

Per odio e per paura...

Parlare di regard a proposito di Zola richiama immediatamente le tante splendide pagine dedicate da diversi studiosi,[48] e da Henri Mitterand in particolare,[49] a questo tema. Nuovi approcci metodologici oggi hanno modificato l’idea di percezione e di rappresentazione, cancellando ogni passività nei confronti del reale, e hanno diversamente riflettuto sui modi in cui il soggetto umano rende visibili gli oggetti, fisici o mentali, ristrutturando al contempo la propria esperienza dell’esistenza e del mondo.[50] Che sia iconica o verbale, la figurazione esaurisce il proprio compito nella costruzione di una relazione e nella proiezione di un’istanza soggettiva, e nessuna immagine prodotta può rendere la natura di questa dimensione fantasmatica, incerta fra thanatos ed eros, fra paura e desiderio, meglio di quella di un revenant. Nella parte finale di questo studio ci accosteremo dunque a due opere, un romanzo ed un racconto, di Zola, limitando il nostro esame alla sola mise en scène del revenant.
Nel romanzo Thérèse Raquin (1867) Zola narratore affida il suo sguardo al personaggio di Laurent che per una settimana si reca ogni giorno alla Morgue frugando con gli occhi la grande vetrata in attesa di veder comparire il cadavere dell’uomo che ha assassinato[51], affogandolo durante una gita in barca. I suoi occhi si poseranno su ogni sorta di putrefazione, prima che il cadavere di Camille approdi a sua volta sulle lastre di pietra dell’esposizione e superi in orrore e miseria ogni altro cadavere.

Camille était ignoble. Il avait séjourné quinze jours dans l’eau [...], sa face paraissait encore ferme et rigide; les traits s’étaient conservés, la peau avait seulement pris une teinte jaunâtre et boueuse. La tête, maigre, osseuse, légèrement tuméfiée, grimaçait; elle se penchait un peu, les cheveux collés aux tempes, les paupières levées, montrant le globe blafard des yeux; les lèvres tordues, tirées vers un des coins de la bouche, avaient un ricanement atroce; un bout de langue noirâtre apparaissait dans la blancheur des dents. Cette tête, comme tannée et étirée, en gardant une apparence humaine, était restée plus effrayante de douleur et d’épouvante. Le corps semblait un tas de chairs dissoutes; il avait souffert horriblement. On sentait que les bras ne tenaient plus; les clavicules perçaient la peau des épaules. Sur la poitrine verdâtre, les côtes faisaient des bandes noires; le flanc gauche, crevé, ouvert, se creusait au milieu de lambeaux d’un rouge sombre. Tout le torse pourrissait. Les jambes, plus fermes, s’allongeaient, plaquées de taches immondes. Les pieds tombaient.

Laurent regardait Camille. Il n’avait pas encore vu un noyé si épouvantable.[52] 

Minuziosa e dettagliatissima, la descrizione – che sfida il lettore a superare il disgusto e a saziare la propria curiosità in modo distanziato, ma con motivazioni non differenti dal visitatore che si aggira fisicamente nel salone della Morgue – oscilla fra il ricordo della forma preesistente (più che altro il volto – faccia, tratti, testa – che conserva ancora tratti umani e personali riconoscibili) e un movimento che imprime invece un inarrestabile dinamismo alle singole parti (braccia che non tengono più, costole che vengono fuori, scapole che forano la pelle e, scendendo sempre più verso il basso, tronco che imputridisce, gambe che si allungano e piedi che si staccano).[53] Come già nella insuperata descrizione della baudelairiana Charogne,[54] la morte sembra agire da motore, accelerando paradossalmente la vitalità delle parti – membra, organi e singole molecole – che ieri si stringevano solidalmente a costituire l’unità del soggetto e che una improvvisa libertà restituisce all’autonomia di un divenire velocizzato fino alla frenesia. E, come in Baudelaire, la descrizione non investe solo la vista ma si allarga anche all’odorato («Il lui semblait qu’une odeur âcre le suivait, l’odeur que devait exhaler ce corps en putréfaction»).[55]

La stessa crudezza accompagnerà puntualmente la ricomparsa del cadavere ogni volta che in forma allucinatoria esso si ripresenterà ai suoi assassini. Sebbene il corpo di Camille venga ufficialmente identificato, registrato e seppellito, il suo fantasma non scomparirà, ma resterà inseparabile dalla coppia adultera e omicida. Inutilmente Laurent, l’amico d’infanzia di Camille, e Thérèse, che di Camille era la moglie, cercheranno una difesa unendosi in quel matrimonio il cui progetto aveva reso necessario il tradimento e l’omicidio: il cadavere dell’annegato si installerà nel letto nuziale mantenendo tremebondi e separati i novelli sposi e spegnendo definitivamente ogni residuo della loro antica passione.

Thérèse montait la première et allait se mettre au fond, contre le mur; Laurent attendait qu’elle se fût bien étendue, et alors il se risquait à s’étendre lui-même sur le devant du lit, tout au bord. Il y avait entre eux une large place. Là couchait le cadavre de Camille.

Lorsque les deux meurtriers étaient allongés sous le même drap, et qu’ils fermaient les yeux, ils croyaient sentir le corps humide de leur victime, couché au milieu qui leur glaçait la chair. C’était comme un obstacle ignoble qui les séparait. La fièvre, le délire les prenait, et cet obstacle devenait matériel pour eux; ils touchaient le corps, ils le voyaient étalé, comme à un lambeau verdâtre et dissous, ils respiraient l’odeur infecte de ce tas de pourriture humaine; tous leurs sens s’hallucinaient et donnaient une acuité intolérable à leurs sensations. La présence de cet immonde compagnon de lit les tenait immobiles et silencieux, éperdus d’angoisse. Laurent songeait parfois à prendre violemment Thérèse dans ses bras; mais il n’osait bouger, il se disait qu’il ne pouvait allonger la main sans saisir une poignée de la chair molle de Camille. Et c’est ainsi que le noyé venait se coucher entre eux, pour les empêcher de s’étreindre. Laurent finit par comprendre que le noyé était jaloux.[56]

Fluida perché semi-liquefatta, «la chair molle» di Camille perde consistenza ma acquista pervasività[57] e raggela «la chair» dei viventi intossicandoli e contaminandoli con l’odore infetto della sua putrefazione «verdâtre». Della circolazione di questa infezione, della contagiosità di una putrefazione trasmissibile, la prova più atroce sarà la gravidanza di Thérèse:

La pensée d’avoir un enfant de Laurent lui paraissait monstrueuse, sans qu’elle s’expliquât pourquoi. Elle avait vaguement peur d’accoucher d’un noyé. Il lui sembla sentir dans ses entrailles le froid d’un cadavre dissous et amolli. À tout prix, elle voulut débarrasser son sein de cet enfant qui la glaçait et qu’elle ne pouvait porter davantage.[58] 

Come aveva fatto per liberarsi dell’inerme e innocente Camille, anche questa volta Thérèse confiderà nella violenza bruta e animalesca di Laurent, provocandolo crudelmente e poi esponendo ai suoi colpi il ventre indifeso in modo da procurarsi un aborto. Come i gesti vengono duplicati, così le immagini del cadavere dell’annegato si riproducono e moltiplicano.

 Se la camera nuziale e il letto, che avrebbero dovuto essere il cuore di una nuova vita matrimoniale, sono implacabilmente occupati dall’annegato, in realtà non ci sarà luogo in cui la sua immagine non compaia, perseguitando i suoi carnefici nel sonno e nella veglia, e, soprattutto, replicandosi all’infinito nelle tele sulle quali Laurent cerca di dipingere volti diversi ma alla fine tutti identici:

La figure ressemblait à Camille. Laurent effaça brusquement cette esquisse et en tenta une autre. Pendant une heure, il se débattit contre la fatalité qui poussait ses doigts. À chaque nouvel essai, il revenait à la tête du noyé. Il avait beau tendre sa volonté, éviter les lignes qu’il connaissait si bien; malgré lui, il traçait ces lignes, il obéissait à ses muscles, à ses nerfs révoltés. Il avait d’abord jeté les croquis rapidement; il s’appliqua ensuite à conduire le fusain avec lenteur. Le résultat fut le même: Camille, grimaçant et douloureux, apparaissait sans cesse sur la toile. L’artiste indiqua successivement les têtes les plus diverses, des têtes d’anges, de vierges avec des auréoles, de guerriers romains coiffés de leur casque, d’enfants blonds et roses, de vieux bandits couturés de cicatrices; toujours, toujours le noyé renaissait, il était tour à tour ange, vierge, guerrier, enfant et bandit. Alors Laurent se jeta dans la caricature, il exagéra les traits, il fit des profils monstrueux, il inventa des têtes grotesques, et il ne réussit qu’à rendre plus horribles les portraits frappants de sa victime. Il finit par dessiner des animaux, des chiens et des chats; les chiens et les chats ressemblaient vaguement à Camille.[59]

Di questa inesauribile proliferazione di immagini Laurent cerca di darsi una spiegazione oggettiva, impregnata di buon senso, che ponga in relazione la durata della contemplazione con la profondità del ricordo che, una volta penetrato nella memoria, vi si installa e prenderebbe il controllo delle azioni, sottraendolo alla coscienza:

Laurent comprit qu’il avait trop regardé Camille à la Morgue. L’image du cadavre s’était gravée profondément en lui, et, maintenant, sa main, sans qu’il en eût conscience, traçait toujours les lignes de ce visage atroce dont le souvenir le suivait partout.[60]

Per quanto il gesto sia compiuto senza che il soggetto ne abbia coscienza, siamo ancora lontani dalla teoria freudiana dell’inconscio, e brutale appare la ricostruzione che Zola propone di come lo choc possa curiosamente ingentilire l’uomo più animalesco, trasformandone l’ottusità della mente e la sanità del corpo in malattia morale e genialità artistica:

Auparavant, il étouffait sous le poids lourd de son sang, il restait aveuglé par l’épaisse vapeur de santé qui l’entourait; maintenant, maigri, frissonnant, il avait la verve inquiète, les sensations délicates et poignantes des tempéraments nerveux. Dans la vie de terreur qu’il menait, sa pensée délirait et montait jusqu’à l’extase du génie; la maladie en quelque sorte morale, la névrose dont tout son être était secoué, développait en lui un sens artistique d’une lucidité étrange; depuis qu’il avait tué, sa chair s’était comme allégée, son cerveau éperdu lui semblait immense, et, dans ce brusque agrandissement de sa pensée, il voyait passer des créations exquises, des rêveries de poëte.[61]

Eppure si affaccia il sospetto di un rimosso mai veramente rimosso che ritorna e che trova nel gesto artistico le parole per esprimersi e per rivelare senza davvero dire. Nella sua inettitudine di imbrattatele negato ad ogni intelligenza artistica, ecco che Laurent all’improvviso trova la pulizia del tratto che gli permette di riprodurre con esattezza quel «léger pli à gauche de la bouche, qui tirait les lèvres et les faisait grimacer»,[62] piega minuta che ricorda di aver visto sulla faccia stravolta della sua vittima, un attimo prima che questa precipitasse in acqua, e che ora marchia tutti i suoi ritratti «d’un signe d’ignoble parenté».[63] Laddove gli ultimi capitoli del romanzo racconteranno il terrore di ciascuno degli assassini per una confessione e una denuncia che il complice stremato potrebbe rilasciare alla polizia, in realtà la costruzione incessante di repliche del cadavere – sulla tela bianca o in utero – grida la verità ad un mondo che non sa riconoscerla.

La vertigine del ritorno sembra “hanter” soprattutto lo scrittore. Tutto il romanzo appare accuratamente costruito su inesauribili catene isotopiche che assicurano una coerenza fortissima intorno al nodo del revenant: fin dal racconto dell’infanzia di Camille, bimbo macilento e malaticcio che la madre, «chass[ant] la mort penchées sur lui [,] avait mis au monde plus de dix fois»,[64] e della sua adolescenza, trascorsa nella condivisione della cameretta e del letto con la cugina povera e futura moglie Thérèse, sepolta con lui nei silenzi e nel fetore soffocante dei medicinali e degli odori corporei di un’infinita convalescenza. La stessa Thérèse, che confiderà di essere stata «enterrée toute vive dans [l’] ignoble boutique»[65] di famiglia, alla sua prima apparizione sembra un fantasma appena percepibile fra le confuse forme biancastre esposte nella squallida merceria, che si affaccia su un passage coperto, triste e umido come una tomba («on dirait une galerie souterraine vaguement éclairée par trois lampes funéraires»):[66]

La vitrine, de haut en bas, se trouvait ainsi emplie de loques blanchâtres qui prenaient un aspect lugubre dans l’obscurité transparente. [...] on distinguait, derrière les bonnets de l’autre vitrine, un profil pâle et grave de jeune femme. Ce profil sortait vaguement des ténèbres qui régnaient dans la boutique. [...] On ne voyait pas le corps, qui se perdait dans l’ombre; le profil seul apparaissait, d’une blancheur mate, troué d’un œil noir largement ouvert, et comme écrasé sous une épaisse chevelure sombre. Il était là, pendant des heures, immobile et paisible [...].[67]

Al regno dei morti appartiene anche la vecchia madre di Camille che, paralizzata da un ictus, rimane rinchiusa nella «tombe de chair froide au fond de laquelle son esprit était enseveli»[68] e in questo stato riceve la rivelazione dell’adulterio e dell’omicidio:

Cette espèce de choc fut d’autant plus épouvantable qu’il sembla galvaniser un cadavre.  [...] Une impuissance de cadavre la tenait rigide. Ses sensations ressemblaient à celles d’un homme tombé en léthargie qu’on enterrerait et qui, bâillonné par les liens de sa chair, entendrait sur sa tête le bruit sourd des pelletées de sable.[69]

Sarà lei il terribile giudice infernale che, immobile e silente, dal guscio di carne atrofizzata che la rinchiude, assisterà al compimento della sua vendetta, quando i due complici, esasperati e sfiniti dall’angoscia e ormai pronti ad uccidersi vicendevolmente, si toglieranno simultaneamente la vita e cadranno cadaveri ai suoi piedi. E per tutta un’intera notte essa potrà pascersi di tale vista.

 

... o per amore

Fedele all’assunto positivista della sua scrittura, Zola ha cura di ricondurre questo romanzo di revenants lontano da quei facili effetti orrorifici che abbiamo riconosciuto nei feuilletons contemporanei e che, con l’irruzione sulla scena di vampiri e spettri, miravano a strappare un grido di paura al lettore. Poco incline oltretutto a compiacere le tradizioni e i topoi della cultura popolare che nell’enorme serbatoio di croyences e superstizioni di ogni sorta lasciavano ampio spazio alle apparizioni di fantasmi,[70] lo scrittore naturalista sceglie piuttosto di agganciare le allucinazioni a rigorose diagnosi psichiatriche (rigorose secondo le conoscenze mediche del tempo), presentandole come disturbi della percezione inseparabili da stati morbosi e da specifici “tempéraments” come quelli da lui attribuiti ai due assassini: «la nature sèche et nerveuse de Thérèse» e «la nature épaisse et sanguine de Laurent».[71] Se nel comportamento di Thérèse lo scrittore può ancora riconoscere «de vagues remords, des regrets inavoués»,[72] per Laurent

[les] remords étaient purement physiques. Son corps, ses nerfs irrités et sa chair tremblante avaient seuls [sic] peur du noyé. Sa conscience n’entrait pour rien dans ses terreurs. Il n’avait pas le moindre regret d’avoir tué Camille [...] On eût dit les accès d’une effrayante maladie, d’une sorte d’hystérie du meurtre. Le nom de maladie, d’affection nerveuse était réellement le seul qui convînt aux épouvantes de Laurent.[73]

Può dunque stupire che l’intellectuel Zola, alla fine di una lunga carriera che ha annoverato Thérèse Raquin fra i primissimi romanzi pubblicati, si dedichi ad una vera e propria storia di fantasmi, quale sembra essere il racconto Angeline, composto in Inghilterra nel 1898,[74] durante l’esilio seguito alla condanna per le posizioni espresse nell’affaire Dreyfus. E proprio l’affaire ha offerto una sicura chiave di interpretazione a chi ha voluto leggere il racconto accostandolo alle coeve produzioni zoliane e innanzitutto al romanzo la Vérité, che dell’affaire sembra voler essere una riscrittura.[75] Come questo romanzo narra di un orribile crimine e di come l’Istituzione (in questo caso la Chiesa, non l’Esercito) abbia ostacolato il riconoscimento della verità, trovando facile sponda nella credulità ed emotività di un’opinione pubblica ignorante e preda di istinti primitivi, così anche il racconto Angéline metterebbe brevemente in scena il conflitto fra superstiziosa ignoranza e verità trionfante[76] attraverso l’avventura di un narratore che, imbattutosi durante una gita in bicicletta in una casa abbandonata che i locali considerano hantée da fantasmi, non avrà pace finché non avrà scoperto cosa davvero è accaduto in quella casa e quale sia stata la sorte della bambina fantasma il cui nome è incessantemente chiamato da una voce d’oltretomba.
Senza escludere un processo di «métaphorisation de l’Affaire»,[77] un salto troppo veloce alle conclusioni impedisce di cogliere significativi segnali che ci avvicinano al riconoscimento del revenant.

Tre in particolare le voci di testimoni che il narratore-personaggio raccoglie nella sua indagine. Le prime due si collocano agli estremi di una ripida scala intellettuale. La tenutaria dell’auberge vicina alla villa abbandonata, popolana diffidente e rozzamente furba, propone l’ipotesi di un brutale crimine d’impeto commesso dalla matrigna della bambina, che ne ha sposato il padre vedovo, e che, due volte gelosa e della bambina e della bellezza che questa avrebbe ereditato dalla madre, l’avrebbe colpita con forbici da cucito. Un amico di famiglia e raffinato poeta dalla squisita fantasia, riferisce invece di un suicidio della bambina che, orfana di madre, si sarebbe sentita abbandonata dal padre troppo veloce nel convolare a nuove nozze e si sarebbe trafitta il petto con un coltello nel suo stesso lettino. In entrambi i casi, l’amore malato, geloso e dunque violento, sarebbe la causa della distruzione del corpicino e una malintesa riservatezza, unita al desiderio di proteggere i familiari dal sospetto, avrebbe consigliato una frettolosa inumazione domestica.

Ma entrambe le ipotesi verranno sorpassate da una terza versione, riferita da un parente e novello proprietario della casa, da lui accuratamente restaurata, che parlerà di una bambina amatissima, morta di improvvisa e rapida malattia che a tal punto aveva addolorato i genitori da allontanarli per sempre dalla casa. Questa terza rivelazione arriva proprio quando il protagonista inorridito crede di aver appena sperimentato personalmente il fenomeno paranormale, ascoltando nell’oscurità il grido lontano che chiama Angeline e scorgendo la bionda piccina attraversare di corsa le stanze. Solo che la “revenante” si rivela essere non uno spettro ma una bella bambina in carne ed ossa, che della scomparsa porta il nome e che nella sua corsa risponde obbediente e festosa alla madre. Come il vecchio poeta aveva ammonito:

Revenir, mon ami, eh! tout le monde revient [...] et elle recommencera, soyez-en sûr, car tout recommence, rien

ne se perd, pas plus l’amour que la beauté... Angeline! Angeline! Angeline! et elle renaîtra dans le soleil et dans les fleurs.[78]

Il racconto – che sembrava sollevare la bandiera del razionalismo sperimentale contro l’orrore di una irrazionalità così invasiva da contagiare perfino il narratore-indagatore e indurlo anche solo per un attimo a condividerne gli assurdi terrori – nella conclusione slitta verso idealismi filosofici, sfiorando il “mito dell’eterno ritorno” proposto da Nietzsche nella sua Gaia scienza del 1882[79] ma esitando ad abbandonare gli schemi, familiari a Zola, dello scientismo positivista, e pertanto si risolve nella celebrazione del trionfo della capacità generativa e rigenerativa della natura.

Il lascito dell’affaire si manifesta dunque non tanto nell’indignazione verso ogni ignoranza che si faccia costruttrice di realtà fantasmatiche, quanto nella scelta di far propri gli accenti profetici del vecchio Hugo, che con un paio di decenni di anticipo aveva annunciato la caduta del petit Napoléon,[80] e di tracciare una illuminante prospettiva palingenetica: «c’était de ce réveil de l’enfant que la maison se trouvait hantée, la maison aujourd’hui redevenue jeune et heureuse, dans la joie enfin retrouvée de l’éternelle vie».[81] Ma non è solo la Francia, casa comune, a dover cambiare, liberandosi dall’oscurantismo e dalla paura e affacciandosi ad una nuova e solare giovinezza: anche lo scrittore deve evolvere e trasformarsi, superando un modello già inadeguato di intellettuale sospeso fra laboratorio scientifico e giornalismo sociologico, per scoprirsi interamente politico e insieme fecondamente profeta.[82]

*  *  *

Il viaggio verso la morte, lungi dal segnare la fine della storia, produce nuove storie di ritorno dalla morte. I morti non trovano riposo. Forse per questo l’Europa del XIX e del XX secolo sembra così affollata. Riconvocati continuamente – per odio, per paura, per amore – i morti si stringono ai vivi in quella oscena e tossica convivenza che Sartre metterà in scena nella sua Argos, la città soffocata dal senso di colpa e dalla paura dei morti e infestata da neri sciami di mosche.[83] Fare i conti con il passato e, con ferma giustizia, distribuite, una volta per tutte, le colpe o riconosciuti i meriti, andare avanti; spegnere la luce e lasciare che i morti si dissolvano nell’oscurità e nel silenzio, sembrano imprese impossibili. Per odio, per paura, per amore.

 

 

[1]* Il presente studio, per temi trattati e metodologia utilizzata, rientra in una linea di ricerca già avviata all’interno del progetto Medioevo romanzo e orientale. Manifestazioni, forme e lessico dell’eros dal Medioevo al Moderno (EROS2020), Piano di Incentivo per la Ricerca di Ateneo (PIACERI) 2020, coordinato dal Prof. Gaetano Lalomia, del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania (DISUM).

 C. W. Gluck, Orphée et Euridyce, opera lirica su libretto di R. de’ Calzabigi, tradotto in francese ed adattato da P. L. Moline, 1774. La prima versione, in italiano, con il titolo di Orfeo ed Euridice, tratta dal libretto del Calzabigi e universalmente considerata la prima manifestazione della riforma di Gluck, era stata presentata a Vienna il 5 ottobre 1762.

[2] Virgilio, Georgiche, libro IV, vv. 485-503.

[3] G. Paduano, La «costanza» di Orfeo: sul lieto fine dell’Orfeo di Gluck, «Rivista Italiana di Musicologia», XIV, 2, 1979, pp. 349-377.

[4] F. Degrada, «Danze di eroi» e «saltarelli di burattini»: vicende dell’Orfeo di Gluck, in Id., Il palazzo incantato. Studi sulla tradizione del melodramma dal Barocco al Romanticismo, Fiesole, Discanto Edizioni, 1979, I, pp. 115-131.

[5] Nel corso del nostro studio useremo questa denominazione per definire qualunque essere ritorni dalla morte, senza distinguere più sottilmente fra spettri, fantasmi, ombre ed ectoplasmi di ogni aspetto e consistenza (cfr. D. Sangsue, Nomenclature des revenants, in Id., Fantômes, esprits et autres morts-vivants, Paris, Éditions Corti, 2011 [«les essais»], pp. 17-21).

[6] Cfr. Ph. Hamon, Imageries. Littérature et images au XIXe siècle, José Corti, 2001 («les essais»).

[7] Per una messa a punto della nozione di flâneur, cfr. W. Benjamin, Paris, capitale du XIXe siècle. Le livre des passages [1924-1939], traduction de l’allemand par J. Lacoste, Paris, Les Éditions du Cerf, 1997.

[8] Sul “personnage porte-regard”, cfr. Ph. Hamon, Le personnel du roman, Genève, Droz, 1998.

[9] Balzac ancora ne faceva una questione di classe: «le rentier existe par les yeux. La girafe, les nouveautés du Muséum, l’exposition des tableaux ou des produits de l’industrie, tout est fête, étonnement, matière à examen pour lui» (Monographie du Rentier, in Les Français peints par eux-mêmes, tome troisième, Paris, Curmer éditeur, 1841, pp. 8-9).

[10] Cfr. V. R.  Schwartz, Spectacular Realities: Early Mass Culture in Fin‐de‐Siècle Paris, Berkeley, University of California Press, 1998.

[11] Per la ricostruzione della storia, del funzionamento e dell’aspetto della Morgue, colta nel pieno della sua fortunata esistenza, cfr. E. Cherbuliez, La Morgue de Paris, «La Revue des Deux Mondes. Recueil de la politique, de l’administration et des mœurs», 1er janvier 1891, pp. 344-381.

[12] Ivi, p. 344.

[13] É. Zola, Après une promenade au Salon [le 23 mai 1881], in Id., Écrits sur lart, J.-P. Leduc-Adine éd., Paris, Gallimard, 1991, p. 441

[14] «Certes, je ne prétends pas que cette cohue apporte là un sentiment artistique quelconque, un jugement sérieux des œuvres exposées. [...] Mais il n’y en a pas moins là une lente éducation de la foule. On ne se promène pas au milieu d’œuvres d’art, sans emporter un peu d’art en soi. L’œil se fait, l’esprit apprend à juger» (ivi, pp. 441-442).

[15] É. Zola, Thérèse Raquin, Paris, Librairie Internationale A. Lacroix, Verboeckhoven & Ce éditeurs 1868 [1867], pp. 107-108.

[16] Par-ci par-là, «Le Voleur illustré. Cabinet de lecture universel», n. 1520, 19 Août 1886, p. 523.

[17] Milano-Roma, Soc. editrice La Cultura, 1930.

[18] Cfr. Ph. Ariès, La mort de l’autre, in Id., Images de l’homme devant la mort, Paris, Seuil, 1983, pp. 247-271.

[19] Cfr. Id., Les âmes du Purgatoire, in Id., L’homme devant la mort, Paris, Seuil, 1977, pp. 455-460.

[20] «L’absence du Purgatoire et l’impossibilité d’intercéder en faveur des défunts [...] qui devinrent des pseudo-vivantes, des désincarnés, [est] une des raisons, sans doute, qui expliquent pourquoi les pays protestants ont fourni un terrain plus favorable que les catholiques au développement du spiritisme et des communications entre les vivants et les morts», ivi, pp. 455-456. Sul superamento del dualismo materialismo-spiritualismo e sulla «porosité entre matière et pensée» nell’appassionata difesa del mesmerismo rintracciabile nella Comédie humaine di Balzac, cfr. C. Barel-Moisan, Une science aux frontières de la matière et de l’esprit. Enjeux épistémiques et romanesques de l’inscription dans la fiction, «L’Année balzacienne», XIV, 1, Presses Universitaires de France, 2013, pp. 55-73.

[21] Th. Gautier, Spirite: nouvelle fantastique, Paris, Charpentier, 1866, p. 180.

[22] Ch. Nodier, Inès de Las Sierras, Paris, Librairie de Dumont, 1837, pp. 167-168.

[23] A. Rimbaud, Ma Bohème (Fantaisie) [Cahiers de Douai, 1870], Poésies. Reliquaire, Paris, Léon Genonceaux éditeur, 1891, p. 61.

[24] D. Sangsue, Fantômes, esprits et autres morts-vivants, cit. p. 14.

[25] [Western attitudes toward death: from the Middle Ages to the present, Baltimora, Johns Hopkins University Press, 1974], Paris, Seuil, 1975.

[26] La mort et l’Occident de 1300 à nos jours, Paris, Gallimard, 1983 («Bibliothèque des Histoires»).

[27] B. Bertherat (dir.), Les sources du funéraire en France à l’époque contemporaine, Avignon, Éditions Universitaires d’Avignon, 2015.

[28] Un testa-coda fra letteratura “alta” e “bassa” al quale lo stesso Sangsue ci autorizza con il suo prezioso volume Rencontre d’un excentrique et d’une parodie sur une table de dissection (Genève, La Baconnière, 2021).

[29] Le petit Diable boiteux, ou Le guide anecdotique des étrangers à Paris, par M.***, Paris, C. Painparré libraire, 1823, p. 170.

[30] E. A. Poe, The Murders in the Rue Morgue, «Graham’s Lady’s and Gentleman’s Magazine», XVIII, 4, April 1841, pp. 166-179.

[31] Insieme a Baudelaire traduttore di Poe possiamo chiederci: « Ai-je besoin d’avertir à propos de la rue Morgue, du passage Lamartine, etc., qu’Edgar Poe n’est jamais venu à Paris? – C. B.» (E. A. Poe, Les plus beaux Contes, traduction de Ch. Baudelaire, Paris, Les éditions G. Crès et Cie, 1925, nota 1, p. 36).

[32] E. Boll, The Manuscript of  The Murders in the Rue Morgue, and Poe’s Revisions, «Modern Philology», XL, 4, The University of Chicago Press, May 1943, p. 306.

[33] Cfr. La Chanson du Macchabée, créée par J. Mévisto au Concert de l’Horloge, paroles de Montoja, musique de G. Maquis, couv. de H. G. Ibels, Paris, À la Chanson moderne, [s.d.].

[34] La Morgue, créée par J. Mévisto au Concert de l’Horloge, paroles de Montoja, musique de G. Maquis, couv. de H. G. Ibels, Paris, À la Chanson moderne, [1892].

[35] Aristide Bruant, «chansonnier populaire», ne è il più noto rappresentante: cfr. L. R. Schub, La chanson naturaliste: Aristide Bruant, ou le revers de la Belle Époque, «Cahiers de l’Association internationale des études françaises», 28, 1976, pp. 195-212; C. Dutheil Pessin, La Chanson réaliste, sociologie d’un genre, Paris, L’Harmattan, 2004.

[36] Per una riflessione che vada da Rousseau à Arendt, passando per Toqueville, sull’effetto della “compassion” nelle moderne democrazie, soprattutto attraverso la spettacolarizzazione di terrore e pietà, cfr. M. Revault d’Allonn, L’Homme compassionnel, Paris, Seuil, 2008; per il ruolo della musica nella costruzione del cittadino della Terza Repubblica, cfr. J. Pasler, La République, la musique et le citoyen. 1871-1914 [Composing the citizen. Music as Public Utility in Third Republic France, 2009], Paris, Gallimard, 2015 («Bibliothèque des histoires»).

[37] La Morgue, créée par J. Mévisto, cit. p. 2.

[38] «Étrangers, Provinciaux, Parisiens mêmes, allez voir la Morgue: il faut se pénétrer de fortes images, pour prendre de fortes résolutions dêtre sages» (Le petit Diable boiteux, cit., pp. 170-171).

[39] Sulla relazione fra modernità, consumo oculare e gusto per il realismo estremo, cfr. V. R. Schwartz, The Morgue and the Musée Grévin: Understanding the Public Taste for Reality in Fin-de-Siècle Paris, in M. Cohen, Ch. Prendergast (eds.), Spectacles of Realism: Gender, Body, Genre, Minneapolis, MN, University of Minnesota Press, 1995, pp. 268-293.

[40] Cfr. U. Eco, Eugène Sue, il socialismo e la consolazione, introduzione a E. Sue, I misteri di Parigi, Milano, Sugar, 1965, pp. I-XXXI (poi in U. Eco, Il superuomo di massa, Milano, Cooperativa Scrittori, 1976, pp. 37-41).

[41] Sull’idea di una funzione “promozionale” del diritto che educhi il cittadino a percepire la legge come amica e come necessaria al miglioramento della società e dunque all’interesse individuale, cfr. P. Barcellona (a cura di), L’uso alternativo del diritto. I: Scienza giuridica e analisi marxista, Roma-Bari, Laterza, 1973; e il recente: M. Cossutta, Les Mystères de Paris: ovvero il “lancio” del diritto promozionale, «Etica & Politica / Ethics & Politics», XXIV, 3, 2022, pp. 483-497.

[42] J. Cherbuliez, [Préface], Revue critique des livres nouveaux publiés pendant l’année 1848, XVIe année, Paris-Genève, Joël Cherbuliez libraire, 1848, p. XIV. Le «Journal des Débats» pubblicò en feuilleton il capolavoro di Eugène Sue fra il 19 giugno 1842 e il 15 ottobre 1843.

[43] Paris, Au Comptoir des Imprimeurs Unis, 1846.

[44] Per l’idea di punizione secondo Eugéne Sue, cfr. M. Cossutta, Les Mystères de Paris: ovvero il “lancio” del diritto promozionale, cit., pp. 489-492.

[45] «Il a tenu dans sa main, et pendant de longues années, le million de lecteurs du Petit Journal. Tout Paris connaît son chapeau rond, ses longs cheveux, sa moustache fournie, son costume de velours que rehausse une cravate flottante blanche ou rouge passée sous un col rabattu et sa chaîne d’or à laquelle on attacherait deux forts percherons. Il n’a aucune instruction, compose des articles à coups de ciseaux dans des volumes, mais possède un tel talent de vulgarisateur qu’il peut se vanter d’avoir, en l’amusant, plus éduqué le peuple que tous les instituteurs du second Empire. [...] Jamais on ne vit exemple plus frappant de la fragilité des réputations. Ajoutons pour ne décourager personne que la sienne reposait sur des bases chancelantes» (G. Duval, Mémoires d’un Parisien [première période], Paris, Flammarion, [1913?], p. 200).

[46] Il racconto si articola in 15 capitoli e un épilogue ed occupa le pagine 197-334 del primo tomo delle Histoires à faire peur.

[47] Ivi, p. 204.

[48] Cfr. R. Ripoll, Fascination et fatalité: le regard dans l’œuvre de Zola, «Les Cahiers naturalistes», XII, 32, 1966, pp. 104-116.

[49] H. Mitterand, Le regard d’Émile Zola, «Europe», 468-469, avril-mai 1968, pp. 182-199; Id., Le Regard et le Signe: Poétique du roman réaliste et naturaliste, Paris, PUF, 1992; Id., Zola, t. I: Sous le regard d’Olympia (1840-1871), Paris, Fayard, 1999.

[50] Cfr., come esempio di questi nuovi approcci, Ph. Descola, Les formes du visible. Une anthropologie de la figuration, Paris, Seuil, 2021.

[51] La situazione verrà ripresa – che sia omaggio al romanzo zoliano o pratica consueta nella criminalità parigina, nella chanson di Mévisto dedicata a La Morgue: «Parfois aussi des assassins / Poussés par les désirs malsains / De reconnaître leur victime, / Viennent les reluquer encor / Et dans cet ignoble décor / Jouir du crime» (cit. p. 3).

[52] É. Zola, Thérèse Raquin, cit., pp. 110-111.

[53] Accanto ai verbi di percezione che fissano la prospettiva dell’esibizione e ai verbi di movimento che indicano la direzione del processo di degrado, dominano soprattutto i participi passati che di tale degrado costituiscono l’atroce esito: conservés, pris, tuméfiée, collés, levées, tordues, tirées, tannée, étirée, restée, dissoutes, souffert, crevé, ouvert, plaquées...

[54] Cfr. Ch. Baudelaire, Une Charogne, nella sezione “Spleen et Idéal” de Les Fleurs du mal, Paris, Poulet-Malassis et De Broise libraires-éditeurs, 1857, pp. 66-68.

[55] É. Zola, Thérèse Raquin cit., p. 111.

[56] Ivi, pp. 194-195.

[57] Se lo spazio fra i corpi dei viventi si restringe, il cadavere riesce comunque a scivolare nel mezzo: «ils poussèrent un cri et se pressèrent davantage, afin de ne pas laisser entre leur chair de place pour le noyé. Et ils sentaient toujours des lambeaux de Camille, qui s’écrasait ignoblement entre eux, glaçant leur peau par endroits, tandis que le reste de leur corps brûlait» (ivi, pp. 199-200).

[58] Ivi, p. 278. Il lessico usato per descrivere il feto che ha in grembo è puntualmente lo stesso che ricorre nella rappresentazione dell’annegato: noyé, cadavre, dissous, amolli, glaçait.

[59] Ivi, p. 225. Per una riflessione sul ruolo dell’atto di pittura nell’espressione del senso di colpa e nella punizione del colpevole, cfr. M. E. Bloom, The Æsthetics of Guilt: Crime Scenes and Punitive Portraits in Zola’s Thérèse Raquin, «Dalhousie French Studies», LVIII, Dalhousie University, Spring, 2002, pp. 26-38.

[60] Ivi, p. 224.

[61] Ivi, p. 222.

[62] Ivi, p. 224.

[63] Ibidem.

[64] Ivi, p. 97.

[65] Ivi, p. 48.

[66] Ivi, p. 3.

[67] Ivi, pp. 4-5.

[68] Ivi, p. 239.

[69] Ivi, pp. 235-236.

[70] Per una lettura in chiave ethnocritique di alcuni romanzi di Zola, cfr. S. Ménard, Les fantômes nuptiaux chez Zola, «Romantisme», CIL, 3, 2019, pp. 97-110.

[71] É. Zola, Thérèse Raquin, cit., p. 187; per una diagnosi del temperamento dei due assassini e delle patologie nervose che dal momento del delitto si sviluppano in loro, cfr. ivi, pp. 187-191. La preoccupazione di resa scientifica di due «personnages souverainement dominés par leurs nerfs et leur sang, dépourvus de libre arbitre, entraînés à chaque acte de leur vie par les fatalités de leur chair» viene ampiamente illustrata dallo stesso Zola nella «Préface à la deuxième édition» (Thérèse Raquin, 1868, pp. i-ix).

[72] É. Zola, Thérèse Raquin, cit., p. 191.

[73] Ivi, pp. 189-190. Per un’analisi del tema del rimorso, cfr. R. Garguilo, L’obsession de la faute dans Thérèse Raquin: la laïcisation du remords, «La Licorne», 20, Faculté des Lettres et Langues de l’Université de Poitiers, 1991, pp. 113-122

[74] Pubblicata nel 1899 sulla rivista inglese «London Star» e poi ripresa in Francia lo stesso anno dal journal illustré «Le Petit Bleu de Paris» – che il 4 febbraio 1899 presenta il testo come «aventure personnelle dans une maison hantée» e la «première œuvre littéraire [de Zola] depuis qu’il est devenu le champion du journalisme dans l’affaire Dreyfus» (corsivo dell’A.) – la novella verrà proposta come inedita ai lettori del supplemento domenicale de «Le Figaro» il 30 luglio 1927.

[75] Cfr. A. Silvestri, Le savoir historique, l’opinion commune et la création littéraire: Vérité d’Émile Zola, «Testi e linguaggi. Rivista del Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università di Salerno», 3, 2009, pp. 65-87.

[76] Cfr. N. Agresta, Angeline, une première transposition fictionnelle de l’Affaire Dreyfus, «Revue italienne d’études françaises. Littérature, langue, culture», 12, 2022, <http://journals.openedition.org/rief/9524> [ultimo accesso 31.03.2023].

[77] Ibidem.

[78] É. Zola, Angeline, «Le Figaro. Supplément littéraire», 30 juillet 1927, p. 1.

[79] Cfr. F. Nietzsche, La Gaia scienza e Idilli di Messina (Die fröhliche Wissenschaft, 1882; Idyllen aus Messina, 1882), traduzione di F. Masini, Milano, Adelphi, 1977.

[80] Cfr. B. C. Lintz, L’Empereur fardé: Napoléon III des “Châtiments” à “La Débâcle”, «Nineteenth-Century French Studies», XXXV, 3-4, Spring-Summer 2007, pp. 610-627.

[81] É. Zola, Angeline, cit..

[82] Cfr. Chr. Charle, De la science à la prophétie: situation de Zola, in Penser l’art et la culture avec les sciences sociales. En l’honneur de Pierre Bourdieu, Paris, Éditions de la Sorbonne, 2002, pp. 177-189.

[83] J.-P. Sartre, Les Mouches, 1943.


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REVENANT , CORPI , MORTE , ZOLA


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Letteratura

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