Come se io non ci fossi.
Il corpo delle donne da luogo di guerra a spazio di pace

di Margherita Bonomo

 

[1]

 

 

Chi non ha storia, non ha voce.
Non esiste.

(Adriana Assini)

 

1. Vite invisibili

Fare uscire dall’ombra figure femminili, spesso occultate da una memoria strutturata al maschile, è da diversi anni l’obiettivo verso cui si dirigono gli sforzi di molte studiose, grazie alle quali sono emersi profili di donne inaspettati e persino sorprendenti. Frequentemente, infatti, cataloghi, inventari, fondi archivistici celano la presenza di carteggi anche corposi di donne catalogati sotto il nome di un uomo ad esse legato sia esso il marito, il fratello, il padre, il maestro.[2]

Ormai più di dieci anni fa, Melania Marzucco dalle pagine de «La Repubblica», esortava le donne a raccontare di sé, pena l’oblio. Per la scrittrice «scrivere la vita di una donna […] è un esercizio di storia, memoria, letteratura e in qualche modo politica». Ha, inoltre, una sottaciuta funzione pedagogica fornire esempi e modelli alle donne del presente.[3]
Fornire modelli visibili al fine di accrescere l’autostima delle ragazze rientra negli scopi di Toponomastica femminile, un’associazione che vuole restituire visibilità alle donne che hanno contribuito a migliorare la società. Maria Pia Ercolini, fondatrice dell’associazione, sottolinea come l’esclusione delle donne dagli spazi pubblici sia evidente nella toponomastica.  Le nostre città, con le loro strade, le loro piazze, i monumenti, ci restituiscono quasi solo nomi di uomini: eroi di guerra, compositori, scienziati e poeti. Da qualche anno a questa parte lo studio dell’urbanistica si è intrecciato con quello della toponomastica di genere, la progettazione di città più inclusive implica anche la restituzione alla memoria pubblica di partigiane, scienziate, artiste, studiose.

Per Ercolini rendere noto l’operato delle donne ha anche un fondamentale valore di contrasto alla violenza di genere originata dalla considerazione della donna come un oggetto, un possesso, «le bambine scoprono ambizioni e desideri attraverso la storia e i bambini recepiscono il valore delle donne».[4] Sono, infatti, le società in cui la differenza di genere è fortemente drammatizzata e/o in cui le donne vivono in una condizione subordinata e la femminilità è poco considerata rispetto alla mascolinità ad essere propense alla violenza di genere.[5]

 

2. Se questo è un uomo

C’è un tempo in cui la violenza di genere diviene di massa, l’abietto, involuto tempo della guerra. «Non volevi più bambini, eh? E adesso farai un piccolo cetnico».[6] Questa una delle frasi con cui gli stupratori ultranazionalisti serbi schernivano donne, ragazze, bambine bosniache, in particolare musulmane, che talvolta conoscevano personalmente, mentre le violentavano dopo averle rinchiuse nei lager. Qui dopo stupri collettivi coloro le quali rimanevano incinte venivano trattenute fino ai 5-6 mesi di gravidanza per impedire loro di abortire nel folle e aberrante obiettivo della “pulizia etnica”.
Enisa Bukvic, nel riportare la sua esperienza personale di incontro con alcune vittime, ci ricorda come

Questo rozzo analfabetismo scientifico, che vede la madre come semplice contenitore del seme posto dal padre, ci riporta indietro di millenni, ai tempi di Eschilo che assolveva Oreste dal matricidio perché, come dice Apollo nel finale delle Eumenidi, non è la madre a generare il figlio, ma il seme paterno lasciato cadere nel ventre della femmina a generare.[7]

Ridurre il corpo della donna a contenitore è il modo più osceno di invisibilizzarlo.

Era l’aprile del 1992 quando le truppe serbe attaccarono la Bosnia Erzegovina. Un mese prima questa, a seguito di un referendum popolare, aveva dichiarato la sua indipendenza dalla Federazione jugoslava. Le forze che condussero l’offensiva militare erano costituite da serbi bosniaci, armati da Belgrado, in particolare dall’ex esercito jugoslavo, da volontari e truppe paramilitari ultranazionaliste serbe.  la Bosnia venne presto occupata divenendo teatro di una guerra spietata finalizzata alla “pulizia etnica”. Annegava nel sangue la secolare pacifica convivenza tra musulmani, cattolici e ortodossi, tra bosniaci, serbi e croati. Qui venne compiuto un genocidio, lo stupro di massa ne è stato un elemento centrale.[8]
Sin dall’antichità lo stupro ha fatto sempre parte della guerra ed è stato a lungo considerato come un effetto secondario dell’evento bellico, estraneo alla sua logica. È ormai assodato che gli stupri di massa sono una precisa strategia di guerra, per fermarci ad alcuni esempi del XX secolo: 1937, “lo stupro di Nanchino” almeno 20.000 donne stuprate e in molti casi uccise dai giapponesi, Italia 1943 “le marocchinate”, Germania, area della Grande Berlino, centinaia di migliaia di tedesche stuprate dall’Armata Rossa, e ancora Vietnam, Bangladesh. È stata l’enormità di quanto accaduto in Bosnia e negli stessi anni in Rwanda, però, a determinare il riconoscimento sul piano giuridico dello stupro come arma di guerra. Ed è anche merito della advocacy compiuta dalle organizzazioni delle donne dopo le atrocità commesse in Bosnia se nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, adottato nel 1998, sono stati introdotti tra i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra lo stupro, la schiavitù sessuale, la gravidanza forzata, la sterilizzazione forzata e altre forme di violenza di gravità comparabile.[9] Il 19 giugno del 2008 anche l’Onu con la risoluzione 1820, approvata all’unanimità dal consiglio di sicurezza, ha definito lo stupro come arma di guerra e crimine contro l’umanità. L’allora Segretario generale Ban Ki-moon, denunciando le “proporzioni indescrivibili” raggiunte dalla violenza contro le donne ne ribadiva il carattere di strumento “per umiliare, dominare, instillare paura, cacciare o obbligare a cambiare casa i membri di una comunità o di un gruppo etnico”.[10]

Ruth Seifert,[11] sottolineando come in molte culture al corpo femminile venga attribuito un significato simbolico che lo lega al corpo della nazione individua principalmente quattro funzioni sociali dello stupro: 1) lo stupro come bottino di guerra,  concesso ai soldati dell’esercito vincitore contro i vinti; 2) come comunicazione da uomo ad uomo; il non saper proteggere le donne del proprio gruppo compromette la virilità, umilia, demascolinizza; 3) rafforza la mascolinità e la forza fisica nella costruzione sociale del soldato (costruzione di sé e da parte degli altri); 4) violare il corpo delle donne, si traduce simbolicamente nella violazione della loro comunità di appartenenza.
La studiosa mette in luce come mentre il conflitto tra soldati maschi è concepito come conflitto da soggetto a soggetto, l’attacco alle donne è impostato come un conflitto da soggetto a oggetto. Questi elementi spiegano il diverso trattamento che nella memoria collettiva viene riservato alla violenza e alle sofferenze patite dalle donne rispetto a   quella dei soldati. Le prime sono escluse dai riti pubblici del lutto per una guerra che si è perduta, il loro strazio ricorderebbe in tempo di pace “la virilità nazionale” umiliata dal nemico. Su di loro cala il silenzio, vittime invisibili, spesso non ricevono alcun indennizzo, anche nei casi in cui, come nella guerra in Bosnia, pure questo è stato riconosciuto. Spesso sono le donne stesse a scegliere l’invisibilità, per la vergogna, per il timore delle reazioni che potrebbero avere i loro uomini o nel tentativo di proteggerne i sentimenti.[12]

Trent’anni dopo la guerra nella ex Jugoslavia, l’aggressione di Putin all’Ucraina, ha riportato l’Europa indietro nell’orrore. Ancora una volta il corpo della donna è divenuto il luogo della guerra, il luogo dove si compie la cancellazione dell’umano. Le prime allarmanti notizie degli stupri compiuti dai militari russi sono arrivate dalle regioni orientali e meridionali già ad un mese dall’invasione. Nel frattempo la prima ritirata delle truppe della Federazione russa dalla regione di Kyiv rivelava uno scenario apocalittico: tutti gli uomini di età compresa fra i 18 e i 60 anni, potenzialmente soggetti alla leva obbligatoria in base alla legge marziale ucraina, erano stati assassinati.[13]

Come in Bosnia, anche in questo caso lo scopo dell’attacco all’Ucraina è chiaramente nazionalistico. Nel discorso pronunciato il 21 febbraio 2022 alla vigilia dell’aggressione Putin nega l’esistenza di un’autentica tradizione statuale stabile in Ucraina, asserendo che dopo il 1991 questa si sarebbe conformata meccanicamente “a modelli alieni”. Un’identità ucraina separata da quella russa, dunque, non esisterebbe se non come frutto di un processo artificiale influenzato negativamente da quello che il dittatore percepisce come un occidente democratico moralmente in declino. A quest’ultimo Putin intende opporre valori alternativi centrali nel progetto identitario che attribuisce al popolo russo la missione di ricostruire un impero, definito a volte spazio euroasiatico altre russkij mir (mondo russo), di cui l’Ucraina è concepita come una delle regioni costitutive.[14]

La negazione dell’altro è la base ideologica del genocidio. E di “ipotesi di genocidio” parla la relazione con cui la Commissione internazionale indipendente sull’Ucraina ha concluso il suo primo anno di indagine, nella stessa si riferisce di «crimini di guerra che includono uccisioni volontarie, attacchi a civili, reclusione illegale, torture, stupri, trasferimenti forzati e deportazione di bambini».

Il 17 marzo 2023 la Corte Penale Internazionale dell’Aja ha emesso il mandato d’arresto per Vladimir Putin e Maria Lvova-Belova. Sono accusati di crimini di guerra, in particolare della deportazione illegale di bambini ucraini dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa a partire dal 24 febbraio 2022. Migliaia di bambini sarebbero stati rastrellati da orfanotrofi e case di accoglienza e trasferiti forzatamente in Russia su aerei militari per essere adottati nella Federazione russa. Secondo le dichiarazioni del procuratore della Cpi, Karim Khan, riportate dai diversi notiziari, l’adozione sarebbe stata facilitata dalla modifica della legge attraverso decreti presidenziali emanati da Putin per accelerare il conferimento della cittadinanza russa, facilitando l’adozione da parte di famiglie russe. I minori sarebbero sottoposti ad un processo di “russificazione”, volto a cancellare in loro ogni legame con la loro terra di origine. Oltre ai corpi delle donne, anche la mente e la psiche di questi bambini divengono il luogo della guerra.

 

3. Partire da sé

La riappropriazione del proprio corpo, la scoperta della propria sessualità, il “partire da sé” nei gruppi di autocoscienza sono fondanti del movimento femminista degli anni Settanta. Nel gruppo, discutendo delle concrete esperienze di vita, individuando e mettendo in comune desideri, paure, contraddizioni, violenze, le donne scoprivano che il malessere prima considerato individuale era comune, smascheravano l’origine sociale e politica dell’oppressione, il personale diveniva politico.
È la sfera della sessualità ad essere riconosciuta e individuata in tutti i movimenti femministi occidentali, come quella nella quale sta la “radice” della inferiorità imposta alla donna dal dominio dell’uomo, dominio chiamato pressoché da tutte le femministe «patriarcato».

Un vivace movimento femminista nasceva anche nella Jugoslavia degli anni Settanta. Le attiviste erano giovani donne della generazione del dopoguerra che tendevano ad identificarsi semplicemente come “jugoslave”. Le leggi in materia di parità dei sessi della Lega dei Comunisti avevano favorito l’accesso delle donne al mondo del lavoro retribuito prima che in molti altri paesi capitalisti. Tuttavia le femministe denunciavano la presenza di soli uomini nei posti di potere all’interno del partito, della burocrazia statale e delle imprese pubbliche e il permanere intatta dell’autorità maschile nella famiglia.[15]

La prima iniziativa del neo-femminismo non solo in Jugoslavia, ma in tutta l’Europa dell’Est, fu la conferenza internazionale femminista che si tenne a Belgrado nell’ottobre del 1978. Ad organizzarla erano state un gruppo di studiose femministe di quella città, di Zagabria e di Sarajevo con l’obiettivo di discutere dell’ineguaglianza fra tra uomini e donne nel contesto jugoslavo in contrasto con l’idea che la rivoluzione socialista avesse risolto definitivamente la questione femminile. La conferenza fu il punto di partenza per la creazione di reti fra le diverse città che sarebbero risultate fondamentali per il movimento pacifista degli anni ’90.[16]

Dieci anni dopo, la crisi del socialismo di Stato jugoslavo lasciava spazio alle ideologie nazionaliste che sollecitavano politiche pro-nataliste per fare fronte alla “minaccia demografica” musulmana. Il compito patriottico della donna non era più quello di contribuire alla costruzione del socialismo con la sua forza lavoro, bensì quello di rigenerare le varie nazioni facendo figli.[17] I diritti riproduttivi delle donne vennero attaccati e allo stesso modo il loro status pubblico. Nelle elezioni del 1990, con l’abolizione della quota rosa del 30% garantita dal regime comunista, la rappresentanza politica delle donne crollava quasi del tutto.[18]
 Le femministe di Belgrado, isolate nel cuore del nazionalismo serbo, hanno reagito alla minaccia della guerra raddoppiando il loro attivismo.

Nella capitale serba era attivo contro la mobilitazione forzata un Centro per l’azione contro la guerra che coinvolgeva uomini e donne.  Staša Zajović, femminista, vi faceva parte, tuttavia avvertì presto un disagio dovuto al riprodursi anche in tale organizzazione di modelli patriarcali. Da qui l’esigenza   di un’iniziativa di sole donne che si opponesse alla tremenda ondata di militarismo patriarcale che invadeva la politica, i media, le strade. Fondamentale fu il suo incontro con un gruppo di femministe italiane, che da anni supportavano le Donne in Nero ad Israele adottandone anch’esse il nome, arrivate a Belgrado per dare sostegno alle donne di quella città. Fu così che anche qui nacque un gruppo di donne che assunse lo stesso nome, in serbo Žene u crnom (ŽuC), adottando le stesse modalità di azione non-violenta contro il militarismo inaugurate ad Israele.[19]

 Il 9 ottobre 1991, fu la loro prima volta in piazza della Repubblica, qui vestite di nero rimasero ferme e in silenzio, reggendo striscioni e cartelli con su scritti messaggi semplici e distribuendo ai passanti volantini in cui era spiegata la causa per cui si adoperavano. L’obiettivo era dimostrare pubblicamente l’esistenza di un’opposizione civile alle politiche di odio, discriminazione e violenza di Milošević. Ci volle molto coraggio, dovettero sopportare intimidazioni e violenze, ma non si arresero riunendosi lì ogni settimana per anni, facendo dei loro corpi uno spazio di pace.

Nel frattempo affittarono un appartamento che divenne un rifugio per renitenti alla leva e disertori. Come oggi in Russia, quando scoppiò la guerra civile jugoslava circa 300.000 uomini serbi in età di leva scelsero l’esilio. Chi non fece in tempo cercò di nascondersi, altri disertarono dalle loro unità in un secondo momento. A chi trovò riparo presso di loro, le donne di ŽuC, offrirono sostegno morale, emotivo, politico. Alcuni di quei giovani divennero validi membri del gruppo ed insieme hanno costruito una Rete per l’obiezione di coscienza che al termine della guerra è divenuta un movimento diffuso attivo nella lotta per la smilitarizzazione del Paese.

 

4. Smascherare la logica violenta del patriarcato

L’analisi di quanto stava accadendo nel loro paese in un’ottica di genere e la controinformazione sono state fra le attività fondamentali di ŽuC. Oltre ai volantini distribuiti localmente, le attiviste si sono impegnate a diffondere informazioni   anche all’estero, attraverso pubblicazioni in inglese, con ampia ricaduta sull’attivismo no-war delle donne di altri paesi.

Oltra a ŽuC operavano sullo stesso fronte altre organizzazioni di donne come il Centro autonomo delle donne contro la violenza sessuale (Autonomi ženski centar protiv seksualnog nasilja, AWC), il Centro studi delle donne (Centar za ženske studije, WSC) e la casa editrice Feministička 94. Nacque un’collaborazione e dovuta al fatto che spesso le stesse donne erano membre di più di un’organizzazione e dalla comune politica femminista, antinazionalista e antimilitarista.[20]

In controtendenza con l’interpretazione dei media internazionali che coglievano nella contrapposizione etnica l’origine della guerra, le femministe di Belgrado denunciavano che il rinnovamento dell’identità etnica fosse piuttosto l’obiettivo di chi la guerra aveva scatenato. Gli ideologi nazionalisti stavano utilizzando la rielaborazione della storia, il cambiamento della lingua, dei nomi delle strade, dei villaggi, la violenza estrema, per rinfocolare le etnie, da loro considerate ormai troppo annacquate dagli anni della Federazione, e creare fra di queste una frattura insanabile. Le femministe rintracciavano nel sistema patriarcale la vera infetta origine della guerra. In particolare AWC, fondata nel 1993 da donne che già dal 1990 avevano attivato una linea telefonica di SOS per donne e bambini vittime di violenza domestica, pur con i dovuti distinguo individuava un legame fra questa e la violenza contro le donne in guerra. I Serbi stavano utilizzando come arma contro il nemico la violenza di genere che erano già soliti praticare   all’interno delle loro case.[21] Con questa consapevolezza si sono formate centinaia di donne di diverse età che hanno trovato le basi ideologiche per comprendere quanto stava accadendo e per attivarsi. L’AWC divenne un luogo di presa di coscienza femminista e di consulenza e assistenza individuale qualificata, in particolare per le donne rifugiate e i loro figli.

Di importanza nodale la rete costruita con fatica e tenacia con le donne delle ex repubbliche jugoslave, in particolare con quelle che ora erano considerate “nemiche”. Un’operazione davvero complessa data la difficoltà di mantenere i contatti con un servizio postale non funzionante e le linee telefoniche frequentemente inaccessibili. Di grande aiuto fu l’apertura del server Internet di Zamir (For Peace) e la possibilità di inviare e-mail. Attraverso la posta elettronica e le attiviste straniere che avevano maggiore possibilità di viaggiare attraverso il paese, le femministe serbe riuscirono a collaborare attivamente con i progetti delle donne in Bosnia e Croazia che condividevano chiaramente la loro politica.  Tra questi il Centro per le donne vittime di guerra di Zagabria e il Centro di terapia femminile Medica di Zenica, che rispondeva ai bisogni delle donne violentate e traumatizzate durante la guerra. La loro determinazione fu tale che alla fine un piccolo gruppo di donne riuscì ad incontrarsi sia in occasione di eventi organizzati appositamente in altri paesi europei dalla rete delle Donne in Nero e da altre organizzazioni, sia all’interno dell’ex Federazione jugoslava. Nel 1993 ŽuC organizzò a Novi Sad, nella Serbia settentrionale, quello che sarebbe stato il primo degli incontri internazionali promossi annualmente dalla rete delle Donne in Nero. Dal 1995 gli incontri fra le donne provenienti dalle diverse aree dell’ex Jugoslavia si intensificarono: Istria, Sarajevo, Tuzla, Banja Luka.
Nel 1996, nell’intervallo tra la guerra bosniaca e quella kosovara, si tenne a Zagabria un’importante conferenza sulle donne e la politica di pace. In quello stesso anno le donne dell’AWC si recarono in Bosnia per aiutare Medica a formare volontarie per una linea SOS per le donne vittime di violenza in famiglia.
Gli incontri tra donne bosniache e serbe mettevano a nudo i vissuti diversi. Non era semplice, spesso i valori condivisi non bastavano per superare le difficoltà. Le prime erano sopravvissute alle torture sessuali e alla morte dei loro uomini, le altre provenivano dagli stessi luoghi dei torturatori. Se per queste ultime era semplice rifiutare la definizione etnica e riconoscersi in un’identità femminile indifferenziata, non lo era per le altre. Le bosniache che avevano subito l’orrore della “pulizia etnica”, adesso rivendicavano, persino con orgoglio, l’appartenenza etnica.
Il modo con cui si è cercato di superare queste fratture, non sempre con successo, è stato valorizzare l’esperienza individuale e affermare un’etica della cura di sé stesse e delle altre in egual misura.

Il tema dello stupro, per esempio, divideva anche aspramente le donne in coloro che lo condannavano in qualunque caso anche se commesso dai propri uomini e coloro che condannavano solo quello commesso dal “nemico”.[22] Ad aiutarle a districare questi roventi grovigli è stata ancora una volta l’analisi femminista, la presa di coscienza che lo stupro delle donne in guerra è un modo in cui un gruppo di maschi “manda un messaggio” di disprezzo e umiliazione al gruppo di maschi nemico.[23]
 Quando la guerra si è spostata in Kosovo, Žene u Crnom, ha dedicato le azioni settimanali in Piazza della Repubblica alla denuncia delle brutali violazioni dei diritti umani individuali e collettivi che si stavano consumando in quel paese, invitando i soldati e la polizia serba a rifiutare di prestarvi servizio e sostenendo l’Albania.
Vestite di nero con un fiore bianco in mano, le Donne in Nero, sono tornate silenziose nelle piazze delle città russe, dove, però, indossare il lutto per le persone morte in Ucraina è sufficiente per essere arrestate.

 

5. Questa è la mia Patria. Cieca, folle, che urla di agonia[24]

La presenza femminile nelle manifestazioni contro la guerra che hanno gremito le piazze delle città russe, non solo è stata, rispetto al passato, di gran lunga più ampia ed evidente, ma anche maggioritaria.[25] Sono donne il 46% delle 19.586 persone tratte in arresto per la loro opposizione alla guerra dall’inizio delle ostilità al 15 febbraio 2023.[26]

 Come è noto, il fallimento di quella che si pensava dovesse essere un’operazione lampo e l’ampio dissenso interno hanno determinato l’inasprimento della repressione e l’adozione di una propaganda sempre più aggressiva.  Questo, però, non è stato sufficiente a fermare la società civile che ha escogitato variegate forme creative per manifestare la sua opposizione alla guerra. Fra queste la protesta femminista è la più fantasiosa, radicale ed organizzata.
Presenti in Russia con 45 gruppi di base, le femministe avevano alle spalle una pratica decennale di resistenza alla sempre maggiore repressione del dissenso messa in atto dalla politica governativa. Centrale nella loro azione il ruolo dell’arte, l’espressione artistica, infatti, rimaneva l’unico modo per aggirare la stringente censura. L’esperienza accumulata negli anni ha reso molto efficace l’opposizione alla guerra.

 Il 24 febbraio le attiviste Ella Rossmann, storica residente a Londra, e Daria Serenko, già imprigionata per aver diffuso simboli associati alla protesta di Naval’nyj hanno costituito il movimento FAR (Feminist Anti-War Resistance). Il 25 pubblicavano un manifesto, rapidamente tradotto in 30 lingue, in cui si appellavano a tutte le femministe di Russia e a quelle di tutto il mondo a partecipare alle campagne contro la guerra. Tuttavia l’adesione al movimento era aperta a tutti, chiunque avrebbe potuto parteciparvi e utilizzare i simboli.

Nel giro di due mesi il FAR, strutturatosi in comunità autorganizzata e decentralizzata, è riuscito ad organizzare proteste in oltre cento città contando su 26.000 follower su Telegram. Attraverso la piattaforma social le attiviste promuovono le azioni di resistenza contro la guerra, denunciano, condividendo filmati, la violenza statale; forniscono istruzioni dettagliate sulla sicurezza informatica e per evitare l’attenzione della polizia per le strade; tengono i contatti con le arrestate, procurano avvocati e forniscono sostegno psicologico a chi ha subito violenze o ha perso il lavoro a causa del proprio attivismo. Anche alcuni uomini e membri della comunità LGBT sostengono il movimento.[27]

Il ricorso alla creatività è essenziale nell’escogitare di giorno in giorno nuove modalità di protesta ancora legali al fine di eludere le norme repressive sempre più stringenti. Deporre fiori in luoghi simbolici, creare oggetti d’arte e installarli nei parchi, scrivere slogan su banconote e monete, collocare piccoli pupazzi di creta, pane, lana e altri materiali in vari luoghi delle città, sostituire i cartellini dei prezzi nei supermercati con slogan contro la guerra, indossare abiti azzurri e gialli e molte altre azioni che sono comunque sempre rischiose.

Il 3 aprile il FAR ha lanciato l’azione “Mariupol 5000”. Per ricordare i morti della città, dal 4 al 12 aprile sono state installate 500 croci in altrettanti cortili condominiali di 41 città con la scritta: “No alla guerra, sì alla pace. 5000 pacifici cittadini sono morti a Marjupol a causa dei bombardamenti russi. Sono sepolti nei cortili delle case. La guerra prosegue”. Nei giorni successivi la deposizione di croci è continuata.[28]

Sottovalutate per anni dalla polizia, le femministe sono diventate il “nemico interno” più pericoloso e la risposta è stata durissima. Arresti discrezionali, percosse, minacce di stupro e interrogatori fiume nei posti di polizia, sono stati denunciati nel corso dei mesi dalle stesse attiviste, da “Mediazona”[29] e da OVD-Info. La repressione ha colpito anche l’anziana artista Elena Osipova che, da quando è iniziata la guerra, ha subito almeno tre arresti.

Le donne e le ragazze che hanno avuto il coraggio di scendere in strada non necessariamente sono femministe. Questo è il caso delle attiviste del Comitato delle madri dei soldati russi, fra le prime ad esortare a non avere paura di manifestare le proprie convinzioni, ad appellarsi alle capacità di azione dei singoli come inviare post sui social, firmare e distribuire petizioni contro la guerra, comunicare con gli amici o parenti in Ucraina.  Fondato a Mosca nel 1989 da attiviste dei diritti umani e da madri di soldati russi, il Comitato aveva come scopo difendere i diritti dei militari di leva, fornire loro assistenza e denunciare gli abusi e le vessazioni a cui erano soggetti. Le madri si sono adoperate per una riforma democratica delle strutture militari, per la smilitarizzazione del sistema giudiziario, l’istituzione di un effettivo controllo civile sulle forze armate e una legislazione che prevedesse un servizio civile alternativo. Presto diffusosi in tutta la Russia, il Comitato ha acquisito ulteriore influenza in seguito alla “marcia della compassione delle madri” da Mosca a Grozny, nel marzo 1995 quando centinaia di madri russe cercarono l’appoggio delle madri cecene nell’azione contro la guerra e negoziarono con l’esercito ceceno la liberazione dei prigionieri. Negli anni Novanta la loro attività ottenne importanti riconoscimenti a livello internazionale. Con l’inizio della guerra in Ucraina è divenuto il punto di riferimento di genitori alla ricerca di notizie dei propri figli mandati al fronte e un centro di mobilitazione contro la guerra. Le madri hanno messo in campo l’esperienza acquisita durante la guerra in Cecenia, attivato i contatti con ufficiali e reparti dell’esercito consolidati del tempo, facilitato scambi di prigionieri tramite la Croce Rossa Internazionale, cercato di ottenere notizie dei soldati russi per le famiglie e di impedire il rinvio al fronte dei soldati ammalati, specialmente quelli, traumatizzati, interpellando i servizi sanitari del Ministero della Difesa. E naturalmente anche loro sono scese in piazza.[30]

 

6. Voci di donne

Il discorso “maternalista” che vede la donna-madre, in quanto generatrice di nuove vite, naturalmente incline verso la pace, già presente nel movimento pacifista femminile a cavallo tra Otto e Novecento si è rafforzato dopo la seconda guerra mondiale.[31] La “Women’s International Democratic Federation” (Widf) di orientamento progressista e antifascista, nello statuto fondativo del 1945 si faceva portatrice del nesso tra pace, identità di madri in difesa dei propri figli e delle generazioni future.[32] Sono state le femministe pacifiste a rifiutare l’essenzialismo e ad attribuire il forte legame tra donne e pace all’opera della cultura - arte, letteratura, pensiero filosofico - nel corso dei secoli. 

L’estraneità delle donne alla guerra a partire dalla specificità del loro corpo che le lega alla vita e alla possibilità di generarla è stato al centro delle riflessioni anche delle femministe disarmiste che nei primi anni ‘80 del Novecento si opposero all’installazione dei missili nucleari in Europa. Per loro creare la vita e prendersene cura, non costituiva solo un fatto biologico, ma anche una pratica quotidiana delle donne da secoli, divenuta un   patrimonio della condizione femminile. Non era questo patrimonio che andava rifiutato bensì la maternità e il ruolo di madre imposti dal sistema patriarcale.[33] Come non pensare, oggi, al divieto di aborto imposto dalle politiche governative polacche che va ad intersecare il dramma delle rifugiate ucraine vittime di stupro.
Al di là dei diversi posizionamenti, quello che accomuna comunque i gruppi di donne che nel corso dei secoli si sono adoperate per la pace è il rifiuto del ricorso alla violenza, il mettere in discussione il potere, l’antimilitarismo, l’etica della cura, l’empatia, l’affermazione della vita, e la capacità di intessere reti translocali e transnazionali.

Tutte loro hanno lasciato una ricca eredità di pensiero e di pratiche da cui è possibile imparare.

Ancora una volta bisogna constatare, però, che anche in questo caso l’azione e l’esperienza delle donne   è poco nota, e dunque invisibile, il che impedisce alle nuove generazioni di identificarsi con la loro opera civilizzatrice contro la guerra.[34] A noi studiose il compito rinnovato di dare loro voce e disseminare il loro operato.

 

[1] S. Drakulic, Come se io non ci fossi, Milano, Rizzoli, 2000. Narra gli orrori dei campi di prigionia, durante la guerra di pulizia etnica in Bosnia, campi nei quali, nell’indifferenza del mondo, venivano istituite le cosiddette “stanze delle donne”.

[2] L. Guidi (a cura di), Scritture femminili e Storia, Napoli, ClioPress, 2004.

[3] M. Mazzucco, Raccontate, donne, la vostra vita o la storia vi dimenticherà, «La Repubblica», 30 aprile 2011.

[4] E. Nicolosi, I nomi delle strade sono lo specchio del sessismo delle città, «L’Internazionale», 9 marzo 2023.

[5] P.  Reeves Sunday, Rape and the Silencing of the Feminine, in S. Tomaselli, S. Porter (eds.), Rape, Hoboken (New Jersey), Blackwell, 1986, pp. 84-101.

[6] I cetnici sono gli ultranazionalisti serbi.

[7] E. Bukvic, Una guerra contro le donne e le future generazioni. Stupro etnico nella Bosnia Erzegovina, «“Difesa Sociale”. Rivista trimestrale dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale sui rapporti tra cultura, salute e società», LXXXVI, 2/07, p. 22.

[8] R. Gutman, A witness to genocide: the 1993 Pulitzer Prize-winning dispatches on the “ethnic cleansing” of Bosnia, New York, Macmillan Pub. Co.; Toronto, Maxwell Macmillan Canada; New York, Maxwell Macmillan International, 1993.

[9] M.G. Giammarinaro, Violenza sessuale e tratta in relazione all’invasione dell’Ucraina, «Questione Giustizia» 1/2, p. 84,  <https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/violenza-sessuale-e> (consultato il 16/03/23).

[10] <https://www.unimondo.org/Notizie/Onu-lo-stupro-e-crimine-di-guerra> (consultato il 17/03/23).

[11] R. Seifert, Il corpo femminile come corpo politico: lo stupro, la guerra e la nazione, «“Difesa Sociale”. Rivista trimestrale dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale sui rapporti tra cultura, salute e società», LXXXVI, 2/07, pp. 55-70.

[12] Ivi, p. 64.

[13] S.A. Bellezza, La guerra della Russia contro l’Ucraina come progetto genocidario, «Critica sociologica», 222, 2, 2022, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, p. 33.

[14] Ivi, pp. 35-36.

[15] C. Cockburn, From where we stand. War, Women’s Activism & Feminist Analysis, London-New York, Zed Books, 2007, p. 83.

[16] C. Boniglioli, Compagna donna/Drugarica Žena: incontri e scontri tra femministe italiane e femministe jugoslave alla conferenza internazionale di Belgrado (27-29 ottobre 1978), «Genesis», X/2, 2011, p. 77.

[17] W. Bracewell, Women, Motherhood and Contemporary Serbian Nationalism, «Women’s Studies International Forum», 19, 1/2, 1996, pp. 25-33.

[18] S. Drakulic, Women and the New Democracy in the Former Yugoslavia, in N. Funk, M. Mueller (eds.), Gender Politics and Post Communism, New York and London, Routledge, 1993, pp. 123-30.

[19] C. Cockburn, From where we stand, cit., p. 85.

[20] Ivi, pp. 86-89.

[21] L. Mladjenovic, Universal Soldier: Rape in War, «Peace News», n. 2364, March 1993, p. 6.

[22] C. Cockburn, From where we stand, cit., pp. 91- 92.

[23] R. Seifert, War and Rape: A Preliminary Analysis, in A. Stiglmayer (ed.), Mass Rape: The War against Women in Bosnia-Herzegovina, Lincoln and London, University of Nebraska Press, 1994, pp. 54-72.

[24] A. Dolgov, Activist Stages Dramatic Protest Against Russia’s Policies on Ukraine, «The Moscow Times», 8, 9, 2014.

[25] <https://www.themoscowtimes.com/2022/03/29/the-feminist-face-of-russian>.

[26] OVD-info. È un progetto mediatico indipendente per i diritti umani in Russia che mira a combattere la persecuzione politica. fondato nel dicembre 2011 dal giornalista moscovita Grigory Okhotin e dal programmatore Daniil Beilinson. Durante l’invasione russa dell’Ucraina del 2022, OVD-Info ha tenuto traccia dei russi imprigionati per aver protestato contro la guerra e la mobilitazione.

[27] B. Bianchi, “La coscienza è più forte della paura”. La protesta femminile e femminista in Russia, «DEP. Deportate, Esuli, Profughe», 49, 2022, pp. 72-73.

[28] Ivi, p. 77.

[29] È un media indipendente russo incentrato sull’opposizione antiputiniana, si occupa del sistema giudiziario, delle forze dell’ordine e del sistema penale in Russia. Lavora in collaborazione con Zona Prava, il gruppo di difesa di Alyokhina e Tolokonnikova, fondatrici del media, attivo nella protezione dei detenuti.

[30] B. Bianchi, “La coscienza è più forte della paura”, cit., pp. 70-72.

[31] L.K. Schott, Recostructing Women’sToughts. The International League for Peace and Freedom before World War I, Stanford, Stanford University Press, 1997, p. 19; M.S. Garroni, Tra movimento e potere. Donne e pacifismo nel mondo anglosassone, «Contemporanea», 8, 2, 2005, pp. 385-395.

[32] F. De Haan, Continuing Cold War Paradigms in the Western Historiography of Transnational Women’s Organisations: The Case of the Women’s International Democratic Federation (WIDF), «Women’s History Review», 19, 4, 2010, pp. 547-573, in particolare pp. 555. 557; Id., Hoffnungen auf eine bessere Welt: Die frühen Jahre der Internationalen Demokratischen Frauenföderation (IDFF/WIDF) (1945-1950), «Feministische Studien», 27, 2, 2009, pp. 241-257.

[33] M. Bonomo, Fili di lana colorata ad imbrigliare missili. Comiso-Greenham Common: le donne per il disarmo, «DEP. Deportate, Esuli, Profughe», 46, 2021, pp. 47-48.

[34] C. Magallon, ¡Desertad! Reflexiones fragmentarias sobre la guerra, la patria y la igualdad, «DEP. Deportate, Esuli, Profughe», 49, 2022, pp. 30-42.

 


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DONNE , GUERRA , CORPI , NARRAZIONI , MEMORIA


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Storia

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