Il ciclo Descrizione del corpo di Domenico Guaccero: una composizione multipla tra immateriale e culturalmente trasversale

di Alessandro Mastropietro

 

 

Tra il 1972 e il ’77, Domenico Guaccero (1927-1984)[1] compone cinque pezzi (su nove progettati, divisi in tre terne) di un ciclo denominato Descrizione del corpo. Nella fase centrale degli anni Settanta, Guaccero – allievo di Petrassi a Roma e lì co-fondatore di Nuova Consonanza[2] – sembra allentare il suo impegno nella musica gestuale e nel teatro musicale, ambiti che lo avevano visto assai attivo nei dieci anni precedenti riservandogli, però, anche vicissitudini e cocenti disillusioni.[3] Il ciclo, pur inquadrabile nella produzione da concerto, non rimane tuttavia estraneo al campo di ricerca musicoteatrale, segnato in Guaccero – come in molti altri autori coevi – dalla rinnovata interazione tra differenti discipline artistico-performative, da una radicale critica storico-sistematica della drammaturgia operistica, e quindi dal superamento delle tradizionali partizioni di genere;[4] ma soprattutto, non deflette dalle coordinate più personali del linguaggio e dell’estetica di Guaccero nell’orizzonte della neoavanguardia musicale italiana: l’instancabile sperimentazione timbrico-sonora, e l’assorbimento di strutture simboliche esoteriche in quanto espressioni di un umanesimo integrale, rivolto cioè alla dimensione immateriale della psiche, senza per questo essere conflittuale con un umanesimo dialettico-materialista orientato alla dimensione sociopolitica.
All’altezza di una riesecuzione a Ortona (5.9.1981) di Luz, il compositore conta ancora di portare a termine il ciclo, così presentandolo:[5]

Luz fa parte di un ciclo di nove pezzi, raccolti sotto il titolo globale di “Descrizione del corpo”, dei quali i primi tre hanno il titolo di AJNA – per voce femminile, per archi e per nastro; i secondi tre hanno per titolo KARDIA – per cinque fiati, per voci e per archi; e gli ultimi tre hanno appunto il titolo di LUZ – per strumento grave, per danzatore-mimo e per percussionista. Il significato dei titoli è come segue: AJNA è il termine usato [in hindi] per designare il ‘chacra’ che si trova al centro della fronte; KARDIA è il termine greco che designa la regione del cuore; LUZ è il termine ebraico che designa la regione coccigea. I tre termini sono estratti dalle lingue di tre ‘tradizioni sacre’, tradizioni che tutte convengono nell’individuare regioni sacre del corpo umano, luoghi di appositi esercizi […].

I titoli sono solo tre (Ajna, Kardía, Luz) anziché nove, poiché un terno di brani accomunato dalla medesima titolazione può essere eseguito o insieme (sovrapponendo tutti i tre strati-pezzi con medesima titolazione), oppure in combinazioni di due strati su tre, oppure – ovviamente – in uno strato-pezzo isolato. Lo schema autografo in Fig. 1,[6] preparato – non prima del 1977 – a organici definitivamente stabiliti, riassume tale combinatoria, fornendo anche piccole specifiche di comportamento sonoro.

I cinque lavori – ovvero strati-pezzi – ultimati sono i seguenti (tra parentesi i dati della première):

Kardía per 12 archi [4 violini I, 3 violini II, 2 viole, 2 violoncelli, contrabbasso], 1972 (10° Festival de Royan, 17.4.1973, I Solisti Veneti, direttore Claudio Scimone, insieme allo strato-pezzo per fiati; da solo: Roma, Auditorium RAI del Foro Italico, 21° Festival di Nuova Consonanza, 29.11.1984, Gruppo Strumentale Musica d’Oggi diretto da Angelo Faja, direttore).

Kardía per quintetto a fiati [flauto, oboe, clarinetto, fagotto, corno], 1972 (10° Festival de Royan, 17.4.1973, I Solisti Veneti, dir. C. Scimone, insieme allo strato-pezzo per archi; da solo: Roma, Castel S. Angelo, “Nuovi Spazi Musicali” – 4^ edizione, 3.5.1982, Quintetto Romano).

Luz per strumento grave e fondo elettronico, 1973 (Montecchio Maggiore, Villa Cordellina-Lombardi, III seminario internazionale di studi e ricerche sul linguaggio musicale organizzato dall’Istituto Musicale ‘F. Canneti’ di Vicenza, 5.9.1973, Fernando Grillo contrabbasso; con mimo: Roma, Auditorium RAI del Foro Italico, 20° Festival di Nuova Consonanza, 6.12.1983, Giancarlo Schiaffini trombone, Luisa Gay mimo-danzatrice).[7]

Kardía per 8 voci [2 soprani, 2 contralti, 2 tenori, 2 bassi], 1976 (Incontri Musicali Romani, 1976, insieme agli altri due strati-pezzi;[8] da solo: Roma, Auditorium RAI del Foro Italico, 21° Festival di Nuova Consonanza, 30.11.1984, Stuttgarter Schola Cantorum, Clytus Gottwald direttore).

Ajna per 11 archi [4 violini I, 3 violini II, 2 viole, 2 violoncelli, contrabbasso], 1977 (Roma, Sala Accademica di Via dei Greci, Accademia Nazionale di Santa Cecilia - Stagione da Camera, 13.1.1978, I Solisti Aquilani diretti da Vittorio Antonellini – ai quali il brano è dedicato).

Solo di Kardía, dunque, esistono tutti gli strati-pezzi, circostanza che ha permesso l’esecuzione del multiplo in ognuna delle sette combinazioni interne possibili, compresa – già durante la vita dell’autore – quella totale a tre strati sovrapposti.[9] Sulla partitura di Ajna, Guaccero aveva predisposto spazio libero per il pezzo-strato per nastro magnetico e un pentagramma per il pezzo-strato per voce sola, rispettivamente sotto e sopra il sistema degli archi (si veda infra Fig. 7), senza però intraprendere mai – per quel che è noto – la loro stesura.[10] Di Luz è attestata un’esecuzione, nel 1983, con mimo-danzatore, senza però che questo strato si sia sedimentato – prima o dopo quell’esecuzione – in una partitura scritta.[11]

Sul retro dello stesso foglio (Fig. 2),[12] la scelta degli organici è collegata a un altro schema ternario, relativamente autonomo dalla triade del titolo, ma associabile agli output di quella mediante una matrice ‘a scalini’: voci e mimo corrispondono alla categoria-uomo (la sua espressione vocale e corporea), archi e percussioni alla categoria-ritmo (la pulsazione come principio vitale), fiati e nastro magnetico alla categoria-vento ovvero aria (il mezzo elastico fondamentale nell’eccitazione, sia entro il tubo sonoro di uno strumento a fiato, sia nelle oscillazioni della membrana di un altoparlante normalmente impiegato per la diffusione di suoni registrati). Un ulteriore schema autografo, di qualche anno precedente (Fig. 3),[13] mostra una diversa pianificazione degli organici,[14] ma è importante poiché – come nell’ultimo descritto – rivela nelle tre parole-chiave, più e oltre che titoli, principi di una organizzazione parallelamente simbolica e sonora, proiettata – sempre attraverso combinazioni dei suoi elementi – su diversi livelli: il principio ‘soprano’ ajna, legato – attraverso l’immagine del çakra Yoga posto tra le sopracciglia, cioè del ‘terzo occhio’– all’illuminazione della conoscenza lucida e della penetrazione del pensiero, è assegnato anche a un singolo strato-pezzo (in magenta) di ciascuna terna, così come il principio ‘mediano’ kardía (in azzurro), legato alla disciplina delle energie vitali e alla mediazione tra istinti e raziocinio emblematizzata dal baricentro cardiaco, e il principio sottano luz (in viola), collegato alle forze vitali basiche originate all’altezza dell’osso sacro, ovvero della base della colonna vertebrale e della zona pelvica. Nell’unica terna completata (Kardía) e rimasta nel solco degli organici qui progettati, si riconoscono dunque (indicando di seguito il titolo effettivo – primario – in corsivo, e il principio ‘secondario’ in tondo minuscolo): un Kardía-ajna, lo strato-pezzo per quintetto a fiati, un Kardía-kardia, per le otto voci, e un Kardía-luz, per 12 archi.[15]

Nell’appunto, le correlazioni tra gli strati in base e il titolo primario-secondario si rispecchiano anzitutto in indicazioni di spazialità del suono: essendo distinte realizzazioni del principio ‘mediano’, i tre strati-pezzi di Kardía generano una relazione omo-planare, com’è chiaramente visualizzato nella disposizione spaziale sull’appunto, coi tre gruppi allineati su un fronte arcuato ma diretti separatamente.  Nel progetto delle altre terne, le relazioni funzionali-spaziali sono perciò differenti, prevedendosene un disegno saliente per Ajna (triangolo col vertice in alto), e digradante per Luz (triangolo col vertice in basso). L’incompletezza del ciclo non permette di verificare la coerenza delle scelte di spazializzazione per le altre terne; nondimeno, dalla testimonianza di Luisa Gay sappiamo che, per Luz, il suggerimento era di affiancare sul palco l’esecutore strumentale e quello mimico, come da schizzo.[16]

Quanto alle strategie compositive di ogni specifico brano, i tre principi dei titoli si calano in strutture sonore che ne rispecchiano in vari modi il portato simbolico.  In Luz, il materiale da impiegare da parte dell’esecutore allo strumento grave è predisposto anzitutto sul piano timbrico, con un inventario di 24 modalità sonore sperimentali (contrassegnate da lettere), arricchito da ulteriori indicazioni d’emissione (armonico, tremolo/frullato, scattato/schiocco etc.), e sostituito in alcune zone da un’emissione ‘naturale’; i «procedimenti di tipo seriale»[17] cui Guaccero allude riguardano forse la confezione dell’inventario in matrice multipla di dodici,[18] ma le modalità sembrano esser state messe a punto a partire da una ricerca empirica sul suono, testata coi primi due esecutori del brano su strumenti di diversa famiglia (Fernando Grillo – contrabbassista, Giancarlo Schiaffini – trombonista). I modi di emissione segnati in lettere vanno a combinarsi, nella partitura (in Fig. 4),[19] in una notazione a tre parametri, con 7 gradi d’intensità (segni più in basso nelle caselle), e con figure grafico-musicali al centro della casella, che riguardano l’altezza (rappresentata diastematicamente su righi musicali, oppure in campo aperto) e le ulteriori prescrizioni d’emissione. Tale variegatissima esplorazione sonora va condotta entro una scansione temporale con valore simbolico; i segni grafici sono distribuiti in una tabella di dodici-per-sei caselle dalla durata 5 secondi ciascuna, da leggere a telescopio, cioè restringendo in quattro passi successivi il numero di caselle della partitura da percorrere: tutte e 72 in lettura ordinaria, quindi 30 in lettura retrograda, ovvero dalla fine verso l’inizio (caselle entro le parentesi graffe), 12 in lettura inversa (entro parentesi quadre) e infine 6 in retrograda inversa[20] (entro parentesi tonde), sempre intorno al punto mediano coincidente col confine tra ultima casella del terzo rigo e prima del quarto. Resta la facoltà, per lo strumentista, di terminare l’esecuzione dopo aver passato il settimo minuto, ovvero poco oltre un terzo della seconda lettura della tabella, mentre arrivando in fondo all’ultima lettura la durata arriva a 10 minuti esatti.

Nella rappresentazione schematica di Guaccero (porzione in basso a sinistra dell’appunto autografo in Fig. 3), ne vien fuori qualcosa di somigliante a un budello verso gli inferi, peraltro ribaltabile – mettendo in basso la prima lettura completa – in figura di piramide a gradoni (Fig. 5).  La struttura-simbolo ha perciò valore duplice, saliente o digradante, ma solo su un piano astratto, dato che le caselle centrali non rispecchiano alcun cambiamento direzionale o irreversibile di stato sonoro; tutto resta agganciato allo scavo sempre nuovo della materia timbrica, e a un semplice sfondo elettronico – una frequenza o un sibilo appena udibile – che, del principio sottano (ovvero della mera e ancora indistinta energia sonora, del rumore di fondo dell’esistenza, non ancora articolato nelle molteplici emissioni della matrice timbrica), è una sorta di radiazione fossile, non decantabile, e perdurante dall’inizio alla fine con poche variazioni d’intensità nella fase centrale di ogni lettura tabellare.[21]

Quando Luz fu eseguito da Schiaffini insieme alla danzatrice Luisa Gay, nel 1983, Guaccero chiese alla Gay di lavorare sull’immagine e le possibili posture del primo arcano maggiore dei tarocchi, il Bagatto: ancora un simbolo dell’inizio, del fondo di partenza, entro un sistema simbolico – i tarocchi – che Guaccero in quegli anni utilizza pure in Rota, per arpa, del 1979.[22]

Ajna, per 11 archi e percussioni eccitate dal direttore dell’ensemble, è quasi interamente costruito sul principio dello specchio imperfetto. L’impianto speculare è evidente nella disposizione prescritta agli strumentisti (Fig. 6): la simmetria ha il suo centro nell’asse (anche sonoro) contrabbasso–direttore, e si propaga alle coppie opposte di violoncelli, viole e violini (tre coppie). L’espansione simmetrica si nota a colpo d’occhio già nella prima pagina della partitura (Fig. 7),[23] ma gli eventi non si corrispondono mai del tutto identici: nella complessa definizione del gesto sonoro, c’è sempre almeno un parametro (ambito, movimento intervallare, oggetto eccitatore, corpo eccitato, dinamica, articolazione) che muta rispetto allo strumento dell’altra metà, qualora i due eventi non siano già leggermente disallineati. Nella fase iniziale predominano i comportamenti sonori pulviscolari, con emissioni in pizzicato (dito o plettro) e battuto (dito o legno dell’archetto); proprio nella prima pagina, fondamentali sono gli interventi iniziali del direttore alle tre percussioni – wood-block, bongo, triangolo, ovvero legno, pelle, metallo – insieme al contrabbasso, giacché rende sensibile l’asse centrale di propagazione dei successivi eventi sonori. Specularità e scarto sono lampanti pure nella fase di passaggio – pag. 6, da 4’30” e 5’10” – tra la sezione notata con durate in secondi (l’indicazione è sempre riportata in alto, all’inizio di spazi orizzontali separati da barre verticali, una delle quali ogni tre è più spessa per segnalare il gesto sincronizzante in battere del direttore), e sezione in valori misurabili proporzionalmente:[24] comunque, equivalendo il tactus della sezione a un secondo (minima = 60 battiti al minuto), tutto il brano è di fatto misurabile in secondi, conteggio riportato nella cronometria in basso. Certo, nella seconda sezione la notazione proporzionale decanta e consolida leggermente le generalizzate imprevedibilità e fluidità di durata nella prima parte, lungo la quale è impossibile trovare successioni regolari o scansioni periodiche.

Il brano è inoltre diviso esplicitamente in tre parti (prima, fino a 2’55”; seconda, fino a 6’10”; terza, fino a 9’ – conclusione del brano), con configurazioni ed evoluzioni del suono diversificate per ognuna: la prima è la più materica e caotica, sia nelle zone di materiale pulviscolare come all’inizio, sia all’intervento dell’emissione con l’arco (glissandi, timbri denaturati, fasce di suono); nella seconda, oltre alla già osservata solidificazione delle trame acustico-temporali, s’introduce una modalità micro-aleatoria, realizzata permutando caselle di brevi figure e singoli elementi al loro interno; nella terza sezione, le simmetrie speculari cessano d’interessare le singole coppie di strumenti, e riguardano – in successione alternata – gli interi blocchi a destra e sinistra dell’asse contrabbasso-direttore (che non a caso interviene agganciata a inizio sezione). Le caselle aleatorie sono molto frequenti e, soprattutto, la conclusione è affidata a un assolo del direttore, in parallelo a compattamenti degli archi fino a una sorta di suono-rumore: le ultime risonanze affidate al direttore terminano il brano simmetricamente all’inizio, ma senza il contrabbasso, isolando timbri estranei alla materia acustica prevalente e agganciati alla posizione simbolicamente apicale della guida dell’ensemble. L’articolazione ternaria globale si riflette già, come accennato, entro le aggregazioni di durata della prima parte (un gesto di battere ogni tre segnali di durata), sebbene non dia luogo in quella fase ad alcuna ricorrenza metrica, a causa dell’estrema variabilità della sequenza di lunghezze in secondi.

Non ci pare azzardata, in Ajna, l’ipotesi di una connessione simbolica tra le indagate strategie compositive globali, locali o dispiegate nel corso del brano (simmetrie centrali, consolidamenti timbrici e metrici, aggregazioni ternarie, epilogo affidato ai suoni propri del direttore) e le categorie di equilibrio, padronanza, penetrazione della conoscenza lucida, benché proiettate su una materia sonora comunque magmatica, qualità peraltro ravvisabile anche nel ciclo di Kardía.
Quest’ultimo lavoro pone, quanto a strategie compositive e analisi musicale, le problematiche maggiori, che qui mi limiterò ad accennare: va premesso che, di Kardía, Guaccero compose dapprima i pezzi-strati per fiati e per archi, lasciando vuoti i righi centrali per le otto voci; solo quattro anni dopo – nel 1976 – scrisse separatamente il pezzo-strato vocale, senza riportarlo nella partitura generale qualora non strettamente necessario per le sincronizzazioni.[25] L’idea medio- e macro-formale di partenza sembra consistere nel lavoro sulle densità, dispiegato lungo 24 sezioni riunite in due parti (A-L e M-Z): il grado più elevato di densità si presenta all’inizio (in Fig. 8, la prima pagina della partitura), con fiati e archi impegnati in contrappunti compatti e in fortissimo, a volte in ambiti ristretti,[26] mentre le voci sono polarizzate attorno a un tricordo di settime minori (Sol grave – Fa centrale – Mib acuto) elaborato in timbro, fonetica e – successivamente – intensità.

Dalla sezione E in avanti, la densità viene variamente modellata, finché – a cavallo del confine tra le due parti, sezioni J-O – essa viene svuotata sottraendo porzioni del testo musicale a seconda della combinazione (a 2 o a 3) d’esecuzione. In tal modo, l’epilogo della prima parte (e specularmente l’avvio della seconda, Fig. 9) è affidato a successioni di singoli strati, peraltro ormai disgregati rispetto alla compattezza sonora iniziale.[27] Lo sbriciolamento sonoro prosegue nelle ultime sezioni, dove vigono emissioni denaturate rispetto all’inizio (pizzicato, battuto, sul ponte o al tasto per gli archi; soffiato, battuto sulle chiavi, per i fiati; ingolato, semichiuso, tappato, con soffio, per le voci; armonico, intonazione quarti-tonale, glissato, per tutti gli ensemble), nonché una sonorità media intorno al pianissimo. Inoltre, dalla sezione T in avanti, si genera un polo gravitazionale intorno al Re centrale, che dapprima coinvolge tutte le sezioni in una sua articolazione microtonale, timbrica (nonché fonetica nelle voci) e ritmica (con ampio sforacchiarsi della trama sonora mediante pause), poi permane alle sole voci,[28] mentre archi e fiati intonano un accordo dissonante sospeso e congelato, gradualmente rarefatto per sottrazione progressiva delle componenti d’altezza, su cui galleggiano lontani ed enigmatici lacerti di melodia. Si tratta di una dissipazione dell’energia sonora, cui allude il testo intonato dalle voci, un distico in latino dall’Hermafroditus di Antonio Beccadelli detto il Panòrmita, umanista quattrocentesco; all’apparenza amoroso (l’Ermafrodito è anzi un testo perlopiù erotico, assai esplicito nel linguaggio), esso qui va letto in realtà in chiave ermetica, allusiva alla combustione alchemica e alla dura prova del segreto iniziatico:[29]

Uror et occultae rodunt praecordia flammae:

o ego, si sileam, terque quaterque miser.

Se l’articolazione della densità appare qui funzione di una traiettoria macro-formale complessiva e direzionata, il ritmo periodico entro le sezioni viene sistematicamente intaccato e reso fluttuante sin dall’inizio: nelle sezioni A-B (si veda Fig. 8), di lunghezza pari a 20 semiminime, ogni strato prevede due fermate (‘corone’) poste in punti diversi per ogni gruppo strumentale, di durate differenziate – da uno a quattro secondi circa – ma, una volta sommate, equivalenti; perciò, una sincronizzazione puntuale degli eventi sonori tra gli strati, all’interno di una sezione, è inattingibile: l’unica sincronizzazione certa è quella di fine sezione, governata a vista dai tre direttori dei singoli ensemble. Nelle sezioni dispari a partire dalla C anche la sincronizzazione di fine sezione è spesso abbandonata: vale solo una sincronizzazione locale del singolo strato, nel quale la posizione di una fermata su due è diventata – seconda parte del brano – a scelta degli esecutori. Tra gli appunti compositivi rintracciati e identificati, uno dei pochissimi è relativo proprio all’ordinamento e alla ricorrenza degli schemi – dodici – delle fermate-corone (Fig 10):[30] era dunque importante, per Guaccero, controllare razionalmente questo fattore di oscillazione del periodo medio-formale che rappresenta – forse – un elemento analogico con l’elasticità del ritmo cardiaco.

Riassumendo, il ciclo è rappresentativo della produzione di Guaccero sotto diversi aspetti riguardanti la concezione strettamente musicale:

1) il permanere di un pensiero combinatorio-generativo, anche in una fase di profonda sperimentazione sul suono e di completa adesione a una poetica informel: il carattere di ogni pezzo-strato è determinato da una matrice ricorsiva a tre elementi e, all’interno di una terna di pezzi, da controlli razionalizzati – spesso tabellari – di un fattore nodale (timbro, corone, spazio).

2) l’eredità di una concezione aperta dell’opera, la cui identità è qui simile ai ‘plurimi’ musicali – e anche artistici – praticati intorno al 1960. I riferimenti più immediati, in quell’orizzonte compositivo, sono Gruppen di Stockhausen, con i gruppi strumentali dislocati e diretti separatamente, o i brani componibili di Cage, per la sovrapposizione libera di strati già concepiti in modalità permeabile (ma assai de-strutturata, anzi a-strutturata,[31] in confronto a Guaccero), o alcune partiture di Bussotti, che prescrivono nuove letture della medesima pagina oppure di sue porzioni, però sottraendo o aggiungendo  nella sua riesecuzione  elementi sonori ad libitum già presenti su di essa (note di abbellimento, zone circoscritte); tuttavia nessuno dei tre casi coincide del tutto con le strategie di Descrizione del corpo, per quanto la soluzione di Stockhausen vi si avvicini di pi. Inoltre, rispetto alle operazioni rigorosamente non-referenziali di Stockhausen e Cage, Guaccero sviluppa un piano allusivo del senso e, a differenza di Cage, un’organizzazione forte – seppur mobile – della forma.

3) la libertà e la specificità delle soluzioni semiografiche, che variano dalla sovrapposizione più o meno coordinata di partiture-strato in notazione allargata ma d’impianto tradizionale, a una semiografia grafico-simbolica più fortemente aleatoria;  da un controllo proporzionale delle durate a una loro restituzione semi-cronografica, con inserimento di elementi perturbatori quali le corone.

Al di là delle configurazioni di pensiero compositivo, il ciclo evidenzia un’altra caratteristica ricorrente in Guaccero: il proiettarsi, nelle strutture musicali, di contenuti simbolici rinvianti a varie matrici della gnosi iniziatica, esplicito in altri suoi lavori già menzionati o in altri non lontani. Nel campo del teatro musicale, si considerino Rot, azione danzata basata sui tre colori del processo alchemico (1970-72); o Rappresentazione et Esercizio, azione sacra che inscena la storia del Christòs come figurazione di un percorso di perfezionamento terreno, dunque gnostico anziché salvifico (1968); o ancora Scene del potere, la cui travagliata gestazione della versione definitiva (1965-68) sfocia, nella terza e ultima parte (dopo la precedente rappresentazione-documentazione delle patologie moderne del potere), in una sorta di rito di passaggio coinvolgente pure il pubblico presente.[32] In campo cameristico, si segnalano Pentalfa, per tastiere e quattro strumenti (1967), i cui nove scomparti di notazione sono visivamente incardinati sulla figura geometrico-simbolica – massonica – della stella a cinque punte, quindi Variazioni 2 (1967) e Variazioni 3 (1968), partiture integralmente elaborate in modalità analoga, rispettivamente sul simbolo del cerchio concentrico e della pitagorica tetraktys.[33]

Nei lavori teatrali, alla chiave esoterica individuale si accompagna quella del progresso socio-politico comunitario, la quale può appoggiarsi, oltre che sulla visibile corporeità delle azioni sceniche, quasi sullo stesso apparato simbolico dell’altra: ciò è evidente soprattutto in Rot, in cui il rosso alchemico – materializzato in un vasto drappo rosso, svolto sull’intero palcoscenico con passi acrobatici dal danzatore solista in costume del medesimo colore – è allo stesso tempo il rosso della liberazione collettiva, sebbene letta problematicamente nella violenza ambigua della storia.[34] Va ricordato che Guaccero aveva militato in politica sin da metà anni Cinquanta, dapprima nelle file del PCI, quindi – dopo i fatti d’Ungheria – in quelle del PSI, ricoprendo da fine anni ’60 incarichi nazionali nel campo dell’indirizzo culturale (dirigente del Sindacato Musicisti Italiani, componente della Commissione del Turismo e Spettacolo per la musica, membro del Comitato Vigilanza RAI)[35] e prestando particolare attenzione, nel decennio successivo, all’attività dei complessi musicali autogestiti, riuniti in un’associazione (AIMAS) fortemente movimentista, di cui sarà vice-presidente. Guaccero non rinnegherà mai questo coté ‘materialista’ della sua costellazione di pensiero, fino a impiegare – nelle citate Scene del potere e in Novità assoluta, lavoro scenico del 1972 – noti passaggi dagli scritti di Marx e il canto dell’Internazionale socialista.[36]

Il tentativo guacceriano, che rimonta quindi almeno al decennio precedente Descrizione del corpo, sembra quello di addivenire a una nuova sintesi umanistica, fondata sull’immanenza del principio spirituale nel corporeo: se si riconsidera quanto osservato per la concezione e la genesi dei brani del ciclo, è possibile riconoscere una traiettoria che realizza le strutture simboliche attraverso dati fisico-acustici e persino spazio-situanti (le posizioni degli esecutori, la grammatica delle posture mimiche) molto concreti, e concretamente sperimentati prima della loro messa-in-opera. Tutti i lavori inoltre dispiegano una ricerca diretta, empirica, sulla materia risonante e sulle sue tecniche di emissione da parte dell’interprete sullo strumento, sì da conferire a quelle strutture apparentemente metafisiche una qualità grounded (ovvero poggiandole sopra la fisicità acustico-fisiologica)[37] e di trattare i mezzi strumentali di tale ricerca come un’estensione protesa verso il materiale sonoro: è un’impostazione che piega quella metafisica verso pratiche non lontane dalla embodied cognition, per cui da un lato la radice della conoscenza risiede nei dati e nelle strutture del corpo quale unità olistica, e dall’altro quest’ultimo può considerarsi un’estensione della mente verso il mondo.[38] Le strutture simboliche insomma, nel farsi forma dell’esperienza sonora, paiono avere un valore sia di operativa impalcatura gnoseologica (veicolano appunto l’offrirsi – e il potersi cogliere – all’ascolto di quelle forme), sia di natura ontologica e sostanziale (sono entità a-priori), lasciando che un’ambivalenza rimanga: se regolano processi fittizi o potenziali di una ‘salita di grado’ iniziatica (come nella scena con cui chiude e culmina l’azione di Rappresentazione et Esercizio),[39] lo fanno dentro l’immanenza dei suoni e dei gesti su cui si proiettano, sublimando quella materia e riversandola a uno stadio superiore della sua comprensione e organizzazione.

Nella valenza multiplanare delle strutture simboliche, oltre che nel suo interesse – poco indagato e poco indagabile, anche a causa di un riserbo del compositore in proposito – per discipline esoterico-iniziatiche, Guaccero ha probabilmente trovato un prevedibile punto d’appoggio nella psicologia degli archetipi junghiana: l’elaborazione di immagini simboliche analoghe in culture distanti e non-comunicanti pare infatti, in Jung, l’attivarsi di strutture profonde – per questo condivise – della conoscenza umana; tali strutture originano infatti, per Jung, nel segmento istintuale, biologico-vitale (perciò inconscio) dell’uomo, e sono per questo – a loro modo – innate, ereditate, archetipali-collettive: non originano dalla coscienza individuale,[40] ma vengono alla luce grazie all’azione di questa con l’emergere di zone subconscie non rimosse, bensì provvisoriamente non attivatesi, e a volte proprio nello sforzo di dare risoluzione a problemi di ordine creativo, scientifico o artistico, che deve far appello soprattutto all’area irrazionale – non ancora cosciente – del Sé.[41]

L’accostamento tra estetica/tecnica compositiva di Guaccero e penseiro di Jung, che qui si propone, può transitare perciò attraverso numerosi altri temi comuni o imparentabili:

- la decantazione della materia subconscia nei processi psichici, quale percorso di individuazione, auto-indagine, riconoscimento e risoluzione armonica dei ‘complessi’, insomma quale tragitto di iniziazione a una più completa conoscenza del Sé, della quale ad es. la dottrina alchemica (studiata con grande interesse da entrambi, e piegata nelle sue immagini simboliche ai differenti fini dell’analisi psichica e dell’operazione alchemica) è una ‘figura’ autentica.[42]

- la plurivalenza dell’archetipo come esito di un’elaborazione biologica, come idea platonica (in queste due chiavi, trascendente l’individuo), e altresì come Gestalt di una forma esperienziale.[43]

- il ricorso, in Guaccero, a elementi attinti alle dottrine orientali, ampiamente discussi già in Jung, tra cui il «sistema tantrico delle çakra […]», ovvero, nel tantrismo Yoga, dei baricentri energetici del corpo in cui situare la sede – reale o spirituale – di processi vitali e psichici sovra-individuali (poiché in sostanza impersonali e agganciati alla dimensione cosmica) ed operare appositi esercizi; o la collegata progressione dagli apparati ‘simpatici’ della funzionalità biologica di base – fonte nascosta dell’inconscio collettivo – alle funzioni cerebro-spinali, coscienziali e interfacciate all’esterno.[44]

- l’idea, proprio nell’alchimia o nelle tradizioni Yoga, dello stabilirsi di corpi ‘sottili’, immateriali, paralleli a quelli biologici – vitali o psichici – dell’individuo capace di allacciarsi alla dimensione impersonale e cosmica;[45] nel caso di Guaccero, l’im-materiale è tanto un trascendere la materia – sonante e agente – del corpo del performer, resosi ‘sottile’ attraverso la produzione di strutture performative fortemente simboliche, quanto (nella prospettiva iniziatico-alchemica sopra richiamata) un dover partire da, transitare per quella materia, allontanando così una riduttiva prospettiva de-materiata.

La trasversalità culturale dell’impianto simbolico di Descrizione del corpo, con termini-chiave attinti a tre differenti espressioni storico-geografiche della storia umana, rispecchia peraltro l’approccio sinottico di Jung; a tale trasversalità rinvia pure un coevo – al ciclo – denso saggio di Guaccero dal taglio comparatista (in forme perfino spregiudicate), sugli elementi sacri del suono in differenti culture ed epoche.[46] E un’ulteriore spia si può ritenere il sistematico studio di simbologie archetipiche documentato in appunti manoscritti, che incolonnano assi simbologici provando a stabilire equivalenze con l’asse della serie dei tarocchi:[47] come già evidenziato, proprio il primo tarocco, il Bagatto, fu il suggerimento visivo-prossemico dato da Guaccero alla coreografa-danzatrice dell’esecuzione con mimo di Luz, ovvero con uno degli strati progettati per la terna sottana del ciclo.

Nei lavori del ciclo Descrizione del corpo, il progetto di Guaccero prende una strada meramente allegorica, difensiva (se si vuole), rispetto alle soluzioni estroflesse e ‘operative’ tentate nel teatro musicale precedente, a partire dagli Esercizi del 1964-65: si trattava di una costellazione di lavori squisitamente performativi, nei quali l’accezione quasi tecnico-atletica iniziava – dopo la crisi estetica degli anni precedenti – a percorrere quel doppio binario tra corporeo e psichico-spirituale, col termine ad alludere agli ‘esercizi spirituali’ della mistica regolata. Forse le vicissitudini sofferte in sede realizzativa da Scene del potere e da Rot consigliarono Guaccero di elaborare quei contenuti entro un laboratorio di linguaggi e di generi più vicino alla fruizione della musica assoluta, cioè schermato – nonostante la previsione di un mimo in Luz – rispetto alla situazione teatrale, così estroflessa e tangibilmente ‘incarnata’. La presentazione dell’81, dopo il passo già riporta, si chiude proprio con un’espressione di apparente ripiegamento, dietro la quale però traspare il permanere di un’attinenza tra suono e ‘corpi sottili’:[48]

È evidente che il riferimento a quei titoli e a quegli esercizi, che i titoli possono richiamare, non hanno la pretesa di ‘trasmettere’ negli ascoltatori altro che una pallida analogia con i problemi e le pratiche cui si è accennato.

 

 

[1] Sul compositore: Numero monografico – Domenico Guaccero, «Archivio Musiche del XX Secolo», Palermo, CIMS, 1995; Domenico Guaccero. Teoria e prassi dell’avanguardia. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Roma 2-4 dicembre 2004, a cura di D. Tortora, Roma, Aracne, 2009.

[2] D. Tortora, Nuova Consonanza 1989-1994, Lucca, LIM, 1994.

[3] A. Mastropietro, Nuovo Teatro Musicale fra Roma e Palermo, 1961-1973, Lucca, LIM, 2020, pp. 321-410.

[4] Ivi, pp. 19-68.

[5] D. Guaccero, [Presentazione senza titolo, Ortona 1981], in Idem, “Un iter segnato”. Scritti e interviste, a cura di A. Mastropietro, San Giuliano Milanese-Lucca, Ricordi-LIM, 2005, pp. 484-485.

[6] Ora conservato in Fondazione Cini – Istituto per la Musica, Venezia, fondo Domenico Guaccero, d’ora in avanti I-Vc/IpM/fG (vecchia segnatura nell’Archivio Guaccero in Roma: A.L6.1/6, f. 384r). Per la pubblicazione di partiture e documenti autografi dalle riproduzioni in possesso dello scrivente prima dell’acquisizione alla Cini dell’Archivio Guaccero, si ringraziano sentitamente la Fondazione G. Cini di Venezia – Istituto per la Musica e gli eredi di Domenico Guaccero.

[7] Il brano è dedicato a Giancarlo Schiaffini, che iniziò ad eseguirlo già nell’inverno 1973-74, e che probabilmente aveva in ogni caso collaborato con Guaccero alla sperimentazione sullo strumento nella fase di preparazione della partitura.

[8] Vedi inizio della nota successiva.

[9] Roma, Sala Accademica del Conservatorio di Musica di Santa Cecilia, Incontri Musicali Romani – VI edizione, 30.10.1976, eseguito dall’Ottetto Vocale Italiano e I Solisti Veneti diretti da Claudio Scimone. L’intero ciclo è stato proposto, con tutte le combinazioni di Kardía, nel corso della manifestazione Iter inverso, nel 20° della morte di Guaccero, realizzata a L’Aquila dal 5 all’8 novembre 2004 da Accademia di Belle Arti, Conservatorio di Musica ‘A. Casella’, Istituto Gramma dell’Aquila e I Solisti Aquilani, esecutori I Solisti Aquilani diretti da Vittorio Parisi (Kardìa e Ajna), solisti del Conservatorio ‘A. Casella’  diretti da Andrea Cappelleri e Gruppo vocale ‘La Voix Humaine’ diretto da Massimo Di Pinto (Kardìa), Giancarlo Schiaffini al trombone e Maria Borgese performer (Luz); tutti gli strati-pezzi ultimati e Kardía in sovrapposizione completa sono stati poi eseguiti dai medesimi interpreti in un concerto del 41° Festival di Nuova Consonanza, Roma, 8.11.2004.

[10] Un Ajna per nastro magnetico fu annunciato nel concerto del 13.12.1984 entro il festival-Guaccero proposto da Nuova Consonanza a Roma dopo la scomparsa del compositore, ma probabilmente fu un’ipotesi legata al ritrovamento di un nastro di cui s’immaginava l’avvenuta realizzazione (lo stesso Guaccero l’aveva conteggiato e assegnato al 1978, in un suo elenco di brani parzialmente autografo risalente al 1983), senza che però si sia mai trovato il testo-documento sonoro. Sulla disposizione dei pezzi-strato nelle iperpartiture di ogni terna, si veda infra nel testo e in nota 15: la posizione centrale di Ajna per archi è giustificata dal suo essere il ‘kardía’ della terna, laddove lo strato per nastro ne sarebbe stato il ‘luz’ e lo strato per voce l’‘ajna’.

[11] Mettere in partitura azioni mimiche era prassi già battuta da Guaccero, ad es. in Esercizi per mimo (1964). Il titolo Luz è attestato per una improvvisazione elettronica su sintetizzatori, effettuata da Guaccero con il gruppo Musica ex Machina (insieme a Luca Lombardi e Alvin Curran) a Perugia nel novembre 1973: in quella fase, il compositore pensava appunto a uno strato per synth (vedi Fig. 3), anziché per percussioni o mimo, ma le fonti si limitano a un inventario dei materiali elettroacustici generabili sui synth, senza tramandare alcuna partitura temporale.

[12] In I-Vc/IpM/fG (cfr. nota 6, vecchia segnatura nell’Archivio Guaccero in Roma: A.L6.1/6, f. 384v); il titolo di Ajna è scritto scambiando le due lettere centrali.

[13] In I-Vc/IpM/fG (vecchia segnatura nell’Archivio Guaccero in Roma: A.L6.1/6, f. 376).

[14] Le differenze riguardano soprattutto la terna di Ajna (qui nella grafia ağna): il brano corrispondente a quello poi effettivamente composto – per archi – era previsto per chitarra; l’Ajna-Ajna era destinato, anziché alla voce, al flauto (comunque strumento acuto), l’Ajna-Luz alle percussioni. Nella terna di Luz, le sostituzioni riguarderanno lo strato mediano (mimo anziché tastiera) e sottano (percussioni anziché sintetizzatori), mentre lo strumento grave per lo strato soprano resterà invariato.

[15] Nella partitura generale della terna, tale associazione corrisponde alla disposizione degli ensemble (in alto il quintetto a fiati, al centro le voci, in basso gli archi), e – con qualche limite – anche alla relazione funzionale tra i tre strati, come si vedrà più avanti. Sull’analoga disposizione nella partitura per la progettata terna di Ajna, supra nota 10.

[16] La disposizione è stata reimpiegata nella ricostruzione, da parte di Luisa Gay, della coreografia per Maria Borgese alla ripresa del 2004 (cfr. nota 9). Tra gli schizzi progettuali autografi, si è conservato un foglio (I-Vc/IpM/fDG, vecchia segnatura segnatura nell’Archivio Guaccero in Roma: A.L6.1/6, f. 383) con appunti per un Luz per otto voci miste: non è chiaro se sia un’ipotesi – poi tralasciata – per uno dei tre brani con quel titolo, o un primo progetto in vista della composizione poi denominata Kardía per quell’organico; fatto sta che la spazialità ha in quell’appunto un ruolo significativo, con gli otto cantori disposti in cerchio sul perimetro della sala, come già prescritto da Guaccero in un suo precedente brano aleatorio, Sinfonia 1 (1963). I materiali preconizzati nell’appunto (frammenti da altri brani, testi-documento, emissioni sussurrate percepibili solo dal pubblico più prossimo) e la loro circolazione in una linea perimetrale rinviano molto direttamente al successivo Casa dell’armonia (1983) per coro femminile.

[17] D. Guaccero, [Presentazione senza titolo, Roma 1974], in “Un iter segnato”, cit., p. 484: «Il brano si articola in una struttura che coinvolge procedimenti di tipo seriale su un “rumore di fondo” elettronico preregistrato».

[18] Molte modalità timbriche sono in effetti collegate per coppie: soffio morbido/duro (a/b), strisciato morbido/duro (c/d), battuto extra morbido piccolo/ampio (s/t), schiocco morbido/duro (x/z) etc.; per le modalità più adatte allo strumento a fiato o ad arco, è prescritto che l’esecutore dell’altra famiglia ne trovi una equivalente abbastanza simile. Tra le emissioni più anticonvenzionali, si segnalano miagolato (n), stridulo (o), rugoso plurimo/grattato (q/r), gorgogliato (y).

[19] Manoscritto autografo su lucido in I-Vc/IpM/fG, fascicolo Luz. Il testo è completato da un ampio foglio di spiegazioni introduttive.

[20] Nella terminologia del contrappunto musicale, l’inversione riguarda la direzione degli intervalli d’altezza, per cui un intervallo ascendente diventa discendente, e viceversa.

[21] Il fondo elettronico, alla seconda e alla terza lettura della partitura-tabella, va enfatizzato rispettivamente con un singolo e con un doppio crescendo-diminuendo.

[22] Cfr. D. Tortora, Da Nino Rota a Rota di Domenico Guaccero: figure e motivi di un certo esoterismo musicale, «Musica-Realtà», XXXXI, 123, novembre 2020, pp. 121-140: 126-140.

[23] Figg. 6-7 dai lucidi autografi (partitura, preceduta da una pagina di Avvertenze) in I-Vc/IpM/fG, fasc. Ajna.

[24] È peraltro lunico momento in cui gli eventi di una coppia strumentale simmetrica (i violoncelli) siano identici.

[25] Gli autografi e le eliografie dal manoscritto di tutte le fonti musicali si conservano in I-Vc/IpM/fG, fascicoli Kardía. La partitura complessiva – 16 pp. – è stata edita da Edipan, Roma, nel 1985; Guaccero ha redatto tre versioni differenti della pagina esplicativa delle notazioni del brano, una ciascuna per le versioni per fiati e per voci, e una (vecchia segnatura Archivio Guaccero in Roma: A.L6.1/6, f. 205) generale.

[26] Nelle battute d’esordio, sono i violini primi e secondi e le viole a muoversi inizialmente in un ambito circoscritto perlopiù una quinta sotto e sopra il Do centrale; al termine della pagina, sono invece i cinque strumenti a fiato a coagularsi – con note ribattute – su un aggregato Sol-Sib-Do-Re-Mib, stretto entro una sesta minore.

[27] Sul verso del foglio con gli appunti per l’ordinamento delle fermate-corone (infra nel testo e nota 29), Guaccero aveva appuntato anche gli schemi combinatori per le sottrazioni degli strati nelle diverse versioni a due e a tre ensemble, che effettivamente corrispondono alle indicazioni sulla partitura generale e all’assenza dello strato vocale nelle sezioni K-L-M-N, dato che esso non vi va eseguito nella versione a tre (i radi interventi ‘a solo’ delle voci nella sezione O sono stati aggiunti a mano in un secondo momento, dal compositore, sulle copie eliografiche, e si intravedono nella Fig. 9 a sinistra).

[28] La frequente soluzione di polarizzare le voci su poche altezze di riferimento o su aggregati verticali più complessi, per ‘lavorare’ quelle strutture con cangianze timbrico-fonetiche, dinamiche e microintervallari, è stata in parte dettata dalla necessità di contenere le difficoltà tecniche di intonazione, in parte consigliata forse dal ruolo centrico dell’ensemble vocale rispetto ad archi e fiati, che invece tessono spesso una trama contrappuntistica più mobile nelle altezze e nei regolatori armonici. I trascoloramenti sonori delle voci sono tuttavia molto evidenti, soprattutto se lo strato-pezzo è eseguito da solo o in combinazione col quintetto di fiati.

[29] Il Panormita, Ermafrodito, a cura di N. Gardini [testo latino con traduzione italiana a fronte], Torino, Einaudi, 2017, pp. 152-153 (Epigramma XXVI del libro secondo). Traduzione dello scrivente: «Ardo, e segrete fiamme mi bruciano le viscere profonde: / oh, se io taccio, tre e quattro volte misero».

[30] In I-Vc/IpM/fG (vecchia segnatura Archivio Guaccero in Roma: A.L6.1/6, f. 386).

[31] Nel pensiero e nella prassi creativa di Cage, la sovrapponibilità – più o meno libera – dell’esecuzione di differenti opere è possibile in base al presupposto evenemenziale, de-soggettivato del fatto estetico (in ciò analogo all’accadere della vita), in parte desunto dalle dottrine zen. Per Guaccero, tale assunto ha costituito solo un orizzonte di partenza vitalistico, tuttavia basilare e indispensabile: un esercizio d’immersione nella materia, per estrarne infine forme intenzionate.

[32] A. Mastropietro, Nuovo Teatro Musicale, cit., pp. 346-361.

[33] J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionaro dei simboli, ed. it. a cura di I. Sordi, Milano, Rizzoli, 1986, II, pp. 197-198 e 469-470. Ambedue i simboli sono sintesi di proprietà numerologiche di base: la stella a cinque punte, del trino e del  bino; la tetraktys, dei primi quattro numeri con somma 10 e struttura di piramide, con valenza di totalità delle conoscenze.

[34] A. Mastropietro, Un teatro musicale danzato “polifonico” e polisenso: Rot (1970-72) di Domenico Guaccero, «Gli Spazi della Musica», II, 4, 2016, pp. 32-77 <http://www.ojs.unito.it/index.php/spazidellamusica/article/view/1801> [consultato il 22.4.2023].

[35] R. Giuliani, Di alcuni incontri tra Domenico Giaccero e i mass-media. Dal Sindacato Musicisti Italiani al Comitato di Vigilanza RAI (1960-1975), in Domenico Guaccero. Teoria e prassi dell’avanguardia, cit., pp. 351-405.

[36] A Mastropietro, Ancora una ‘scena del potere’: Novità assoluta (1972), in Domenico Guaccero. Teoria e prassi dell’avanguardia cit., pp. 297-316.

[37] Si avanza qui un’accezione allargata degli assiomi teorici della grounded cognition di Barsalou (M. Palmiero, M. C. Borsellino, Embodied Cognition. Comprendere la mente incarnata, Fano, Aras, 2018, pp. 85-92), secondo cui una certa classe di conoscenze – simboli percettivi – deriva da un’interazione di simulazioni mentali, azione situata (nelle condizioni ordinarie di luce gravità etc. fornite dall’ambiente) e stati corporei; nel caso della ricerca sonoro-simbolica in Guaccero, la delimitata situ-azione del corpo performante è determinata dalle caratteristiche di uno strumento applicate alla materia di una forma espressiva.

[38] Cfr. M. Palmiero, M. C. Borsellino, Embodied Cognition, cit.; le implicazioni possibili con le teorie cognitive dell’embodiment andrebbero però discusse estesamente in altra sede, e in ogni caso non sovradeterminate, poiché quelle teorie presuppongono un’incidenza dei processi di memoria neuronale che la venatura spiritualista di Guaccero non ha mai tematizzato, nonostante fosse conscio di molte questioni scientifiche legate alla conoscenza, a partire dalla scommessa ‘computazionale’ al riguardo.

[39] L’azione sonoro-gestuale – Esercizio – è una sorta di rito di trasformazione (individuale e collettiva) che i performer compiono su/per sé stessi, e solo secondariamente al cospetto del pubblico; questi, assistendovi, può scegliere se aderirvi o no, e così – seppur di riflesso – lasciarsene influenzare, ‘parteciparvi’; i performer stessi possono rinunciare a compiere le ultime azioni, se non avvertono la giusta concentrazione tra loro e in sala (D. Guaccero, Rappresentazione et Esercizio [dalla premessa alla partitura], in “Un iter segnato”, cit., pp. 474-475).

[40] C. G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo – Il concetto d’inconscio collettivo, trad. it. di E. Schanzer e A. Vitolo, in Id., L’analisi dei sogni. Gli archetipi dell’inconscio collettivo. La sincronicità, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, pp. 99-169 (il concetto è peraltro diffusamente argomentato in molti altri scritti di Jung).

[41] C. G. Jung, Introduzione all’inconscio, in Id., L’uomo e i suoi simboli, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1983, p. 38; J. Jacobi, La psicologia di C. G. Jung, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, pp. 121-122.

[42] C. G. Jung, Psicologia e alchimia, Torino, Bollati Boringhieri, 1992; M. L. von Franz, Psiche e materia, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.

[43] J. Jacobi, Complesso Archetipo Simbolo nella psicologia di C. G. Jung, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, pp. 44-57.

[44] Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, cit., pp. 121-122 e 148; Id., La psicologia del Kundalini-Yoga. Seminario tenuto nel 1932, Torino, Bollati Boringhieri, 2004. Va peraltro notato che, analogamente al ridimensionamento d’efficacia di Guaccero su cui a fine testo, ma per via di differenti motivazioni (l’alterità sistemica e storica delle culture orientali e occidentali, sin dalle modalità basiche di ragionamento), anche Jung esprime scetticismo su un trapianto integralmente realizzabile della tradizione Yoga e del suo apparato di esercizi fuori del suo contesto (C. G. Jung, Lo yoga e l’Occidente [1936], in Id., La saggezza orientale, Torino, Bollati Boringhieri, 2012, pp. 32-41).

[45] Jung, La psicologia del Kundalini-Yoga, cit. pp. 73-74.

[46] D. Guaccero, Testo parallelo A:B sulla storia della musica “sacra” in occidente [1968-69], in “Un iter segnato”, cit., pp. 195-209.

[47] In I-Vc/IpM/fG (vecchia segnatura nell’Archivio Guaccero in Roma: A.L6.1/6, ff. 360 e seguenti). Cfr. G. Jung. Gli archetipi dell’inconscio collettivo, cit., p. 148: «Si direbbe che anche la serie di immagini dei tarocchi siano discese dagli archetipi di trasformazione […]». Si veda anche Tortora, Da Nino Rota a Rota, cit., pp. 126-140.

[48] D. Guaccero, [Presentazione senza titolo, Ortona 1981], in “Un iter segnato”, cit., pp. 484-485.


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