«Il grande labirinto dell’Essere non è senza un piano»: l’eccezione dell’essere umano nella riflessione di Alfred Russel Wallace

di Roberta Visone

Nel corso dello «special general meeting» della Linnean Society di Londra tenutosi il primo luglio del 1858 furono presentati due papers, a firma di Charles Darwin (1809-1882) e del giovane naturalista gallese Alfred Russel Wallace (1823-1913), con i quali la dottrina della modificazione delle specie per selezione naturale veniva ufficialmente introdotta all’interno del dibattito scientifico sulla generazione e lo sviluppo del vivente.[1] Darwin e Wallace erano giunti separatamente alla scoperta del meccanismo che avrebbe rivoluzionato il modo stesso di concepire l’universo biologico, mettendo definitivamente in scacco il paradigma creazionista, e al quale Darwin avrebbe dedicato il suo capolavoro del 1859, The origin of species.[2]

La rottura epistemologica compiuta da Darwin rispetto alle spiegazioni tradizionali dei fenomeni biologici consiste innanzitutto nell’introduzione di un elemento teorico rivoluzionario, quello del «caso», che sovvertiva l’approccio tradizionale attraverso il quale i naturalisti avevano, fino a quel momento, interpretato l’universo organico: la selezione naturale che produce la modificazione delle specie nel corso del tempo è un principio anti-teleologico, non opera secondo piani prestabiliti o prevedibili bensì sulla base di variazioni organiche che insorgono in modo accidentale negli organismi. La produzione di nuove specie viene presentata come il prodotto di fattori contingenti, come l’incontro «casuale» di due catene causali indipendenti[3]: da un lato quella che conduce al possesso di una data variazione da parte di un organismo e, dall’altro, quella che abbraccia la serie di circostanze che disegnano l’ambiente, biotico e abiotico, esterno all’organismo, ovvero lo scenario della sua lotta per la sopravvivenza. Nuove specie si originano in virtù della sopravvivenza differenziale di individui dotati, in un dato momento, di una variazione accidentale che conferisce loro un vantaggio in questa lotta, e che essi tramandano alla loro progenie.

Supporre che le variazioni che determinano la sopravvivenza di un organismo insorgano in modo accidentale non significa affatto consegnare il processo evolutivo «al puro caso, alla semplice insignificanza di infinite fluttuazioni casuali».[4] Vi sono delle leggi che governano il processo ma – è questo il punto che interessa a Darwin –, esse non rendono il processo prevedibile, né lo indirizzano lungo percorsi necessari,[5] tali da renderlo eventualmente pensabile come progetto di una mente intenzionale.

Il carattere in parte accidentale dei processi evolutivi descritti da Darwin rappresentò uno dei motivi principali della riluttanza, da parte di molti naturalisti che pure si dicevano “darwiniani”, ad accettare in pieno la dottrina della selezione naturale. In One long argument (1991) Ernst Mayr elabora uno schema nel quale vengono indicati gli elementi teorici fondamentali del darwinismo che tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento vennero incorporati all’interno di alcune tra le più salienti dottrine evoluzionistiche (discendenza da un antenato comune, gradualità del processo evolutivo, speciazione popolazionale, selezione naturale), dal quale si evince che nessuno studioso all’infuori di Darwin accolse del tutto l’argomento della selezione naturale[6]. Anche Herbert Spencer, che raggiunse la fama mondiale di «filosofo dell’evoluzione» grazie al suo System of synthetic philosophy, pubblicato tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta dell’Ottocento,[7] escluse che la selezione naturale potesse essere l’unico motore dell’evoluzione delle specie, e negando il carattere «spontaneo» delle variazioni sulle quali essa opera, la relegò a fattore secondario dei processi evolutivi, per lui spiegabili innanzitutto attraverso i principi lamarckiani di uso/disuso ed ereditarietà dei caratteri acquisiti.

Fin dalla sua opera giovanile del 1850, la Social statics, nella quale la riflessione naturalistica ed etico-politica s’intreccia ai temi classici della teologia naturale, per cui la natura è il prodotto di una «divine idea», Spencer presenta il «progresso» (per lui sinonimo di «evoluzione»), come una legge universale che ha per scopo l’equilibrio cosmico, ovvero l’adattamento sempre più perfetto degli organismi al loro ambiente. Il progresso, spiega Spencer, si realizza attraverso il passaggio da uno stato primitivo di omogeneità indefinita e incoerente a uno stato di eterogeneità definita e coerente che conduce, nel caso del lichene come in quello dell’animale e delle società, a un equilibrio sempre più perfetto tra l’«interno» dell’organismo (le sue strutture e le sue funzioni) e il suo «esterno» (l’ambiente).

L’idea spenceriana di progresso presenta un carattere necessitante, teleologico e «miglioristico»: «progress […] is not an accident but a necessity», si legge nella Social statics,[8] e tale caratterizzazione si deve alla sua genesi embriologica: la «legge» spenceriana del progresso è infatti ispirata alla «legge della crescente eterogeneità» scoperta, negli anni Trenta dell’800, dallo zoologo estone Karl von Baer, secondo la quale lo sviluppo degli embrioni animali è scandito da una «crescente eterogeneità» funzionale e strutturale (gli organi dell’embrione, dapprima poco specializzati, si differenziano gradualmente fino a produrre un equilibrio perfetto tra l’organizzazione interna dell’organismo e l’ambiente).[9]

Nella Social statics, che risente delle posizioni ideologiche antistataliste e liberal di Spencer, la legge del progresso viene estesa anche al campo etico e politico attraverso la fondazione di un «principio primo» della giustizia, conforme all’assetto progressivo dell’universo, dal quale discenderebbero, a mo’ di corollari, tutti i diritti dell’individuo, in primis quello alla libertà: questo principio è la legge della «libertà eguale». Soltanto obbedendo alle norme dettate da questo paradigma di giustizia, che prescrive il definitivo riconoscimento della centralità dell’atomo sociale, l’individuo, come soggetto di diritti e libertà inalienabili, è possibile perseguire la strada del progresso sociale.

Nel System, che segue di pochi anni la pubblicazione di The origin of species, Spencer dismette le vesti del filosofo politico e l’impostazione teologico-naturale della Social statics per adeguarsi ai codici scientifici del dibattito sull’evoluzione delle specie avviato in Europa dalla «rivoluzione darwiniana». In quest’opera, tuttavia, la «legge dell’evoluzione», motore della trasformazione delle specie sul piano organico, mantiene inalterata la sua radice finalistico-embriologica, entrando in aperto conflitto con l’interpretazione darwiniana del vivente. Spencer riconduce le cause dell’evoluzione biologica non tanto all’insorgere di variazioni accidentali, bensì alla capacità dell’individuo di adattarsi all’ambiente obbedendo alla legge dell’evoluzione, il che gli permetterà di “vincere” nella lotta per l’esistenza. Tale convinzione gli derivava anche dalla frequentazione, avvenuta in gioventù, di quella che, già intorno alla metà dell’Ottocento, era ritenuta una pseudo-scienza, la frenologia. Secondo questa disciplina, che si proponeva di studiare le «leggi necessarie» dei processi mentali, l’esercizio delle «facoltà» di cui un organismo è dotato conduce infallibilmente tale organismo ad adattarsi in modo sempre più perfetto al suoambiente.

Nei Principles of biology (volumi II e III del System, pubblicati tra il 1864 e il 1867) Spencer riconosce, perciò, al meccanismo darwiniano della selezione naturale un peso secondario rispetto ai principi lamarckiani di uso/disuso ed ereditarietà dei caratteri acquisiti, i quali si conciliavano meglio con le sue convinzioni frenologiche. In base a essi era possibile attribuire la spinta evolutiva alla capacità dell’individuo biologico di adattarsi al suo ambiente mediante l’esercizio di determinate strutture organiche, il quale sarebbe stato in grado di modificarle. Sulle mutazioni strutturali così prodotte, fissate poi nella specie per via ereditaria, avrebbe operato successivamente la selezione naturale. I “vincitori” nella “lotta per l’esistenza” sono, dunque, quegli individui e quei gruppi che possiedono in più alto grado la facoltà d’adattamento.[10]

La Social statics di Spencer rappresentò un vero e proprio oggetto di culto per Wallace. Nel saggio del 1864 The origin of human races, il coautore della teoria della selezione naturale affermava, infatti, in termini squisitamente spenceriani, che «il potere della selezione naturale» aveva condotto «al più perfetto adattamento delle facoltà più elevate dell’uomo alle condizioni della natura circostante e alle esigenze dello stato sociale».[11]

 

In questo saggio Wallace presenta l’essere umano come un’«eccezione» della natura in virtù delle sue predisposizioni intellettuali e morali, che hanno posto fine ai cambiamenti prodotti, nella sua struttura fisica, dalla selezione naturale.[12] Con queste affermazioni, che, per sua stessa ammissione, gli erano state ispirate dalla «lettura delle opere di Herbert Spencer, in particolare della Social statics»,[13] Wallace modificava parzialmente il contenuto della dottrina della selezione naturale che aveva presentato alla Linnean Society appena sei anni prima.

La mente, discrimine tra l’essere umano e la natura, è la «nuova causa» che interviene negli assetti naturali interrompendo gli effetti della selezione naturale. A differenza degli altri animali, resi più fragili o incapaci di sopravvivere di fronte a un mutamento delle condizioni ambientali, l’uomo è infatti stato in grado di sopravvivere grazie al suo potere intellettuale, adoperando, per esempio, vestiti e armi per sopperire ai cambiamenti climatici e alla competizione biotica, fuoco e agricoltura per emanciparsi dalle fluttuazioni della disponibilità del cibo, mentre la comparsa dei sentimenti morali ha gradualmente impedito che i più deboli venissero lasciati in balia della dura legge della selezione naturale.

 La rottura definitiva di Wallace con Darwin sul tema della selezione naturale avvenne nel biennio 1869-1870, e su questa divergenza incisero anche le nuove esperienze di Wallace nel campo della «ricerca psichica».[14] Nel 1869 Wallace pubblicò sulla «Quarterly Review» un saggio sull’evoluzione dell’uomo,[15] dichiarando di aver mutato opinione rispetto a quanto aveva affermato nel suo precedente saggio del 1864: ora egli non solo sosteneva, come già aveva fatto in quel saggio, che i poteri intellettuali dell’uomo lo hanno emancipato dall’azione della selezione naturale, ma ipotizzava anche che lo sviluppo dell’umanità fosse orientato in una direzione specifica per uno scopo speciale.[16] Quest’ipotesi veniva avanzata sulla scorta della difficoltà di spiegare mediante la sola teoria della selezione naturale[17] alcune peculiarità, tipiche della nostra specie fin dalla sua comparsa sulla Terra, delle quali l’uomo primitivo non poteva avere un’effettiva necessità, quali, ad esempio, le dimensioni del cervello e le capacità vocali della laringe, accanto ad altre che apparivano addirittura svantaggiose, quali l’assenza di peluria.[18]

In una lettera Wallace aveva anticipato a Darwin i temi che avrebbe trattato nel suo scritto del 1869: «mi arrischio per la prima volta a parlare di alcune limitazioni al potere della selezione naturale» sulla scorta di «prove a cui non ho fatto allusione nell’articolo, ma che per me sono assolutamente inattaccabili».[19] Darwin gli rispose di essere «fortemente curioso» di leggere il suo lavoro, ma aggiunse con rassegnazione: «spero che non abbiate assassinato del tutto la vostra e la mia creatura».[20] Il timore di Darwin era ben fondato: per spiegare l’emergere della coscienza e del senso morale nella specie umana, cioè la comparsa della «mente umana»,[21] Wallace chiamava infatti in causa una «overruling», «higher intelligence». La mente umana diviene «in se stessa la prova vivente di una mente suprema».[22]

Riferendosi a una intelligenza superiore come causa dell’umano, come ha osservato S. J. Gould, Wallace non stava rinnegando la centralità della selezione naturale nel processo evolutivo, bensì la stava affermando con maggior vigore: fu proprio la sua «concezione estremamente rigida» della selezione naturale come causa esclusiva dei cambiamenti evolutivi a indurlo a «rifiutarne l’utilizzazione per spiegare la specie umana».[23] Tale concezione lo condusse a confinare al di fuori del piano naturale tutto ciò che non appariva spiegabile mediante la selezione naturale,[24] in quanto quest’ultima fisserebbe un carattere soltanto in rapporto alla sua immediata utilità. Pertanto, per fare un esempio, le peculiarità del cervello umano, le cui dimensioni negli individui delle società primitive erano di gran lunga eccedenti gli effettivi bisogni di questi ultimi, non possono configurarsi come un suo prodotto.[25] Se il cervello umano non ha subito, nel corso del tempo, mutazioni nel volume tali da poter affermare che vi sia una differenza sostanziale tra il selvaggio delle società primitive e l’uomo civilizzato, ciò per Wallace significava che quest’organo non deve essere un prodotto dell’azione della selezione, bensì di un’intelligenza superiore che ha predisposto per l’uomo uno scopo speciale, rendendolo adeguato a bisogni ed esigenze che si sarebbero presentati soltanto in futuro.[26] Similmente, anche la presenza degli organi complessi del linguaggio nel primitivo vengono interpretati come «uno strumento» che «si è sviluppato anticipando i bisogni del suo possessore».[27]

L’ipotesi secondo la quale i processi organici sono governati da una «higher intelligence» ovvero l’ipotesi dell’esistenza di un «selettore» soprannaturale, era stata respinta con decisione da Wallace soltanto pochi anni prima della pubblicazione del suo articolo del ’69. In virtù della sua visione antifinalistica dei processi naturali, nel 1866 Wallace era arrivato a guardare con sospetto finanche al parallelismo istituito da Darwin tra selezione naturale e selezione artificiale, e a proporre allo stesso Darwin di sostituire, nelle successive edizioni di The origin of species, l’espressione «natural selection» con l’espressione equivalente, introdotta da Spencer nei Principles of biology, «survival of the fittest». A suo avviso, infatti, la personificazione della natura suggerita dall’assimilazione darwiniana della selezione naturale alla selezione artificiale avrebbe potuto esporre la dottrina della selezione naturale a interpretazioni teleologiche, finendo con l’evocare l’immagine di un ente selettore,[28] mentre l’espressione spenceriana sembrava meglio adatta a descrivere i processi naturali in virtù del suo carattere più impersonale e oggettivo.

Le revisioni che Wallace aveva operato sulla teoria della selezione naturale nel 1869 – che si sarebbero rivelate, a suo dire, in grado di riconciliare «scienza e teologia» sul «problema fondamentale» dell’antropogenesi – gli consentirono di riprendere il parallelismo tra selezione naturale e selezione artificiale[29] come paradigma della possibile azione di un’intelligenza superiore che ha guidato, nel corso del tempo, proprio come farebbe un paziente allevatore, le leggi dello sviluppo delle forme organiche per il suo «più nobile fine», la produzione della specie umana:

l’uomo stesso guida e modifica la natura per fini speciali. Le leggi dell’evoluzione, da sole, forse non avrebbero mai prodotto un cereale così ben adattato ai suoi scopi come il grano, frutti come la banana senza semi e il frutto dell’albero del pane; animali come la mucca da latte Guernsey o il cavallo da tiro londinese […]. Dobbiamo […] ammettere la possibilità che nello sviluppo della razza umana un’intelligenza superiore abbia guidato le stesse leggi per più nobili fini. Tale è, noi crediamo, la via sulla quale troveremo la vera riconciliazione della scienza con la teologia su questo problema della massima importanza. […] Non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte all’evidenza che una intelligenza sovrastante abbia sorvegliato l’azione di quelle leggi, dirigendo le variazioni e determinando la loro accumulazione in modo da produrre, infine, un’organizzazione sufficientemente perfetta che ammettesse e addirittura favorisse il progresso della nostra natura mentale e morale.[30]

Darwin respinse queste affermazioni, come mostrano, nella sua copia della «Quarterly review», le postille a margine del saggio di Wallace,[31] dopo aver letto il quale comunicò prontamente le sue impressioni all’autore: «dissento seriamente da voi e me ne rammarico molto. Non vedo alcuna necessità di invocare una causa prossima ulteriore per quanto riguarda l’uomo».[32] Wallace ribadì che le sue opinioni rispetto al tema dell’umano erano irrimediabilmente mutate rispetto al passato, e ciò «in virtù della considerazione di una serie di fenomeni straordinari, fisici e mentali» che egli aveva avuto «ogni opportunità di verificare pienamente» e che «dimostrano l’esistenza di forze e influenze non ancora riconosciute dalla scienza».[33]

Wallace si occupò nuovamente del problema dell’antropogenesi in due saggi contenuti nella raccolta Contributions to the theory of natural selection (1870) che diede alle stampe anche in vista dell’imminente uscita del volume darwiniano sull’uomo The descent of man,[34] nei quali continuò a sostenere l’idea dell’eccezionalità dell’essere umano rispetto alla restante natura. In questi scritti l’esistenza del senso morale – uno dei temi cardine della Social statics di Spencer – diventa la prova dell’inadeguatezza della spiegazione selettivo-naturale in relazione alla comparsa dell’uomo: se la «pratica» di sentimenti morali quali l’onestà può ancora essere ascritta all’azione della selezione naturale, il «senso del sacro» non è invece spiegabile in termini utilitaristici, così come il sentimento innato di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e il «sacrificio del sé».[35]

In The descent of man (1871) Darwin riconobbe che uno dei «due obiettivi» perseguiti in The origin of species, insieme a quello di portare alla luce il meccanismo della selezione naturale, era stato quello di «rovesciare il dogma delle creazioni separate».[36] Il rifiuto di questo dogma, egli continuava, deve però accompagnarsi all’abbandono di una rappresentazione rigidamente utilitaristica della selezione naturale – quel «tacito assunto che ogni particolare della struttura» di un organismo debba essere «di una determinata, anche se ignota, utilità» – dal momento che tale rappresentazione deriva ancora da una concezione del mondo organico come «creazione intenzionale».[37] Nel suo volume sull’uomo Darwin rifletteva dunque sull’importanza di riconoscere il giusto ruolo della selezione naturale all’interno di una concezione non finalistica della storia del mondo organico, e nel descrivere coloro che, sulla base di assunti finalistici, tendono a «estendere molto l’azione della selezione naturale sia nel presente che nel passato», sembrava rivolgere il suo pensiero a Wallace. Si trattava, però, non già del co-scopritore della teoria della selezione naturale, bensì di un Wallace «metamorfosato»,[38] così come Darwin lo definì in una lettera che gli scrisse dopo aver letto i suoi saggi antropologici. La “metamorfosi” di Wallace non prometteva nulla di buono perché sembrava essersi realizzata – specificava scherzosamente Darwin – «in un senso retrogrado».

Adottando una prospettiva iper-adattazionista Wallace era giunto alla conclusione, solo apparentemente paradossale, secondo la quale tutti i fenomeni che non trovavano una spiegazione attraverso l’azione adattativa della selezione naturale andavano considerati soprannaturali. Se, nel caso di homo sapiens, la sola selezione non si mostrava capace di spiegare l’accelerazione dell’encefalizzazione registrata dalla paleontologia, se la sola selezione non era in grado di spiegare la superiorità delle facoltà mentali e morali dell’uomo, allora quest’ultimo si presentava agli occhi di Wallace come una creatura necessariamente separata dalle altre («egli è […] un essere separato, dal momento che non subisce linfluenza delle grandi leggi che modificano ineluttabilmente tutti gli altri esseri organici»).[39]

Nel 1870 René Edouard Claparède[40] attaccò duramente l’ipotesi dell’«intelligenza superiore» con la quale, a suo dire, Wallace aveva finito col sovvertire del tutto la sua stessa teoria della selezione naturale, trasformando l’essere umano nell’«animale domestico di Dio».[41] Darwin fu più indulgente nei confronti della tendenza, riscontrabile negli scritti di molti suoi contemporanei, a rinnegare «l’infima origine» dell’uomo. Pur non conducendo sul sentiero della «verità», si legge nell’epilogo di The descent of man, tuttavia questa tendenza sembra essere radicata nella natura umana stessa, e, dunque, non può che apparirci come un errore perdonabile:

l’uomo va scusato se prova un qualche orgoglio per essere asceso, anche se non per meriti propri, alla sommità della scala dei viventi, e il fatto di essersi così elevato, invece di essere stato dalle origini collocato lì, può dargli una speranza per un destino ancora più elevato in un lontano futuro. Ma qui non ci siamo occupati di speranze o timori, ma soltanto della verità, nella misura in cui la nostra ragione ci permette di scoprirla […]. Peraltro dobbiamo riconoscere, almeno mi sembra, che l’uomo, con tutte le sue nobili qualità, con la “simpatia” che prova per i più degradati, con la benevolenza estesa non solo a tutti gli uomini ma anche alle più umili creature viventi, con il suo intelletto quasi divino che è penetrato nei movimenti e nella struttura del sistema solare, con tutti questi enormi poteri, porta ancora impressa nella sua struttura fisica l’impronta indelebile della sua infima origine.[42]

Nel corso della sua vita, che dedicò in buona parte alla field research,[43] Wallace pubblicò centinaia di lavori scientifici di argomento zoologico, biologico, botanico, geologico, climatologico e biogeografico. Il rigore metodologico che accompagnò la sua osservazione della natura non entrò mai in conflitto con la convinzione, maturata nel corso degli anni Sessanta dell’Ottocento, che il mondo naturale possa essere il prodotto di un disegno soprannaturale. In Island life (1880), parafrasando il poeta Alexander Pope, egli si disse anzi convinto che uno studio sempre più approfondito dei fenomeni naturali avrebbe accresciuto la nostra fiducia nel fatto che «il grande labirinto dell’Essere, che vediamo ovunque intorno a noi, non sia senza un piano».[44]

 

 

                                                                     

 

 

[1] C. Darwin - A. R. Wallace, On the tendency of species to form varieties; and on the perpetuation of varieties and species by natural means of selection, communicated by Sir Charles Lyell and Joseph D. Hooker to the LSL meeting of 1 July 1858, «Journal of the Proceedings of the Linnean Society of London. Zoology», III, 1858, pp. 53-62.

[2] C. Darwin, On the origin of species by means of natural selection, or the preservation of favoured races in the struggle for life, London, John Murray, 1859.

[3] Cfr. T. Pievani, Anatomia di una rivoluzione: la scoperta scientifica di Darwin [2013], Milano - Udine, Mimesis, 2020, p. 71.

[4] Ibidem.

[5] Cfr. ibidem.

[6] Lo schema di Mayr comprende le teorie di Lamarck, Darwin, Haeckel, i neolamarckiani, Huxley, De Vries e T.H. Morgan (cfr. E. Mayr, Un lungo ragionamento. Genesi e sviluppo del pensiero darwiniano [1991], tr. it. di F. Bianchi Bandinelli, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 51).

[7] H. Spencer, A system of synthetic philosophy (London-Edinburgh, Williams and Norgate, 1862-1896). Il System si compone di dieci volumi suddivisi in più tomi: First principles, Principles of biology, Principles of psychology, Principles of sociology, Principles of ethics.

[8] H. Spencer, Social statics, or, the conditions essential to human happiness specified, and the first of them developed, London, John Chapman [1850], 1851, p. 65.

[9] La teoria di von Baer è esposta nell’opera Über entwickelungsgeschichte der thiere (2 voll., Königsberg, Bornträger, 1828-1837), tradotta parzialmente per il pubblico britannico da Thomas Huxley agli inizi degli anni Cinquanta (T. H. Huxley, On development of animals, with observations and reflections, in T. H. Huxley & A. Henfrey, Scientific memoirs: selected from the transactions of foreign Academies of Sciences, and from foreign journals. Natural History, London, Taylor and Francis, 1853).

[10] Cfr. F. Ferrarotti, Lineamenti di storia del pensiero sociologico, Roma, Donzelli, 2002, p. 97.

[11] A. R. Wallace, The origin of human races and the antiquity of man deduced from the theory of “natural selection”, «Journal of the Anthropological Society of London», II, 1864, pp. CLVIII-CLXX, d’ora in poi Wallace 1864, p. CLXIX. Si confronti con H. Spencer, Social statics, cit., p. 59, 85, 153, 315.

[12] Cfr. M. J. Kottler, Alfred Russel Wallace, the origin of man, and spiritualism, «Isis», LXV, 2 (June 1974), pp. 144-192: 147.

[13] Wallace 1864, p. CLXX.

[14] Cfr. G. Scarpelli, Il cranio di cristallo. Evoluzione della specie e spiritualismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, p. 11 e M. J. Kottler, Alfred Russel Wallace, cit., p. 188. A partire dalla metà degli anni Sessanta Wallace divenne un frequentatore assiduo di pratiche spiritiche e mesmeriche, e anche queste esperienze dovettero contribuire alla genesi della «teleologia evoluzionistica» wallaceana (l’espressione è di M. Fichman, Science in theistic contexts: A case study of Alfred Russel Wallace, «Osiris», 16, [2001], pp. 227–250: 228).

[15] Cfr. J. S. Schwartz, Darwin, Wallace, and the “Descent of man”, «Journal of the History of Biology», XVII, 2, 1984, pp. 271-289: 277.

[16] A. R. Wallace, Sir Charles Lyell on geological climates and the origin of species, «The Quarterly Review», CXXVI, 1869, pp. 359-394, d’ora in poi Wallace 1869.

[17] Cfr. Ivi, p. 391.

[18] Ivi, pp. 392-393.

[19] Lettera di Wallace a Darwin del 24 marzo 1869, in F. H. Burkhardt et al. (eds.), The correspondence of Charles Darwin, Cambridge, Cambridge University Press, 1985-, d’ora in poi CCD, vol. XVII, p. 155.

[20] Ivi, vol. XVII, p. 157.

[21] Wallace qui parla della peculiarità dell’essere umano rispetto alle altre creature – ovvero la sua «specificità mentale», che «oggi si direbbe culturale» (Cfr. G. Scarpelli, Il cranio, cit., p. 45) – che aveva già discusso nel saggio del 1864 senza però ricondurla a una origine divina.

[22] Wallace 1869, p. 394.

[23] S. J. Gould, Il pollice del panda. Riflessioni sulla storia naturale [1980], a cura di S. Cabib, Milano, Editori Riuniti, 2009, p. 46.

[24] Cfr. G. Scarpelli, Il cranio, cit., p. 51. L’autore impiega il termine «iperselettivismo» riferito a Wallace rifacendosi a una definizione di Antonello La Vergata (cfr. Ivi, p. 12).

[25] Cfr. S. J. Gould, Il pollice del panda, cit., p. 47.

[26] Ivi, p. 48.

[27] Wallace 1869, p. 393.

[28] T. Pievani, Anatomia di una rivoluzione, cit., p. 69.

[29] Prima ancora di preferire l’espressione spenceriana «survival of the fittest» a «natural selection» per via delle possibili implicazioni teleologiche di quest’ultima, nei suoi primi scritti Wallace aveva respinto il parallelismo istituito da Darwin tra selezione naturale e selezione artificiale, trattandosi per lui di processi del tutto irriducibili, dal momento che la selezione artificiale sottrae le specie alla lotta per la sopravvivenza.

[30] Wallace 1869, pp. 393-394.

[31] Diverse osservazioni di disappunto costellano la copia della «Quarterly» appartenuta a Darwin (come, ad esempio, un «No!» sottolineato tre volte a margine del passo wallaceano sui bisogni mentali dei selvaggi; quattro punti esclamativi accanto al passo che in cui viene argomentata l’impossibilità di attribuire alla sola selezione naturale lo sviluppo del cervello nei selvaggi). Si veda a tale riguardo J. S. Schwartz, Darwin, Wallace, cit., p. 277; R. A. Slotten, The heretic in Darwin’s court. The life of Alfred Russel Wallace, New York, Columbia University Press, 2004, pp. 269-270 e M.A. Flannery, Alfred Russel Wallace’s intelligent evolution and natural theology, «Religions», XI, 316, 2020, pp. 1-19: 8.

[32] Lettera di Darwin a Wallace del 14 aprile 1869, in CCD, vol. XVII, p. 175.

[33] Seppure egli si dicesse consapevole che queste affermazioni avrebbero potuto sembrare frutto di un’«allucinazione mentale», come si legge nella sua lettera a Darwin del 18 aprile 1869, in J. Marchant (ed.), Alfred Russel Wallace letters and reminiscences, 2 voll., London, Cassel and Company, 1916, vol. I, p. 244. A questi fenomeni Wallace aveva già alluso nella precedente lettera del 24 marzo (riferendosi ad essi come a delle «prove inattaccabili» in favore delle sue convinzioni rispetto all’origine dell’uomo).

[34] I due saggi sono The development of human races under the law of natural selection, che consiste, salvo poche eccezioni, in una ristampa integrale del saggio wallaceano del 1864, e The limits of natural selection as applied to man, che riprende i temi del saggio del 1869. Entrambi sono contenuti in A.R. Wallace, Contributions to the theory of natural selection. A series of essays, London, Macmillan and co., 1870.

[35] A.R. Wallace, The limits of natural selection applied to man, in Id., Contributions to the theory of natural selection. A series of essays, cit., pp. 332-371: pp. 353-354.

[36] C. Darwin, The descent of man, and selection in relation to sex¸ 2 voll., London, John Murray, 1871, tr. it. L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, a cura di M. Migliucci e P. Fiorentini, introduzione di G. Montalenti, Roma, Newton & Compton, 2018, vol. I, p. 153, tr. it. p. 89. L’«ingenua concezione delle creazioni distinte, ammessa da Linneo e da Buffon», scrive E. Gilson commentando questo passo darwiniano, «è oggi talmente lontana da noi che si ha difficoltà a credere che il merito principale della dottrina della selezione naturale sia apparso, agli occhi di Darwin, quello di averne mostrata la vacuità» (E. Gilson, Darwin senza l’evoluzione, in G. Pancaldi, a cura di, Evoluzione: biologia e scienze umane, Bologna, Il Mulino, 1976, pp. 153-179: 159).

[37] C. Darwin, The descent, cit., vol. I, p. 153, tr. it. p. 89.

[38] CCD, vol. XVIII, p. 17. In questa lettera del 26 gennaio 1870 Darwin si firma «your miserable friend».

[39] Wallace 1864, p. CLXVIII.

[40] Claparède (1832-1871), professore di anatomia comparata, medico e zoologo svizzero, era il nonno del pedagogista e psicologo Édouard Claparède (1873-1840).

[41] Agli occhi di Wallace «les races humains constitueraient […] les animaux domestiques d’une force divine» (R. E. Claparède, La sélection naturelle et l’origine de l’homme, «Revue des cours scientifiques», VII, 36, 1870, pp. 564-571 : p. 569). Lo scritto di Claparède suscitò un grande interesse tra gli studiosi che seguivano le vicende delle teorie darwiniane. Agli inizi di luglio 1870 Hooker chiese a Darwin se ritenesse opportuno che la recensione dello svizzero venisse tempestivamente tradotta in inglese, in vista dell’imminente pubblicazione di The descent of man (CCD, vol. XVIII, p. 202). Wallace, che rispose allo scritto di Claparède su «Nature» del 3 novembre del 1870, incluse poi questo scritto nella seconda edizione dei Contributions (A. R. Wallace, Contributions to the theory of natural selection. A series of essays. Second edition, with corrections and additions, London, Macmillan and co., 1871, pp. 372 sgg. [nota A]).

[42] C. Darwin, The descent of man, cit., p. 405, tr. it. p. 459 (con qualche variazione).

[43] Dal 1848 al 1852 Wallace aveva vissuto in Amazzonia, e dal 1854 al 1862 si era stabilito nel Sud-est asiatico per compiere i suoi viaggi d’esplorazione.

[44] A.R. Wallace, Island life, London, Macmillan and co., 1880, p. 512. La citazione di Wallace è tratta da Alexander Pope che in An essay on man (1733-1734) aveva visto nella natura «a mighty maze but not without a plan» (A. Pope, An essay on man: being the first book of ethic epistles. To Henry St. John, L. Bolingbroke, London, John Wright, 1734, p. 9).

 

 

 


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ALFRED RUSSELL WALLACE , ECCEZIONE , ESSERE UMANO


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Filosofia

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