Cultura e modernità

di Giovanni Morrone

 

Negli ultimi anni ho avuto la fortuna e l’onore di collaborare con Giancarlo Magnano San Lio ad una serie di progetti ruotanti intorno ai temi della Kulturphilosophie e della storia della cultura tedesca fra Ottocento e Novecento.[1] Ritengo che il modo migliore per celebrare la sua memoria di studioso fine e rigoroso sia per me quello di ripercorrere in forma condensata i risultati a cui mi hanno condotto le ricerche di questo periodo, consapevole del debito con lui maturato durante il cammino condiviso.

 

1. Cultura e critica

Per quanto lo si radichi nelle sue origini classiche, per quanto vi si legga la continuità umanistica di un riferimento ideale alla grecità, il concetto di cultura che si afferma nella prima modernità è figlio dell’Illuminismo. E lo è in un duplice significato. In primo luogo, perché esso prende forma intorno all’elemento centrale della critica; in secondo luogo perché esso si struttura in un ambivalente quanto peculiare rapporto con il concetto di formazione culturale.[2]

La riflessione consapevole intorno al concetto di cultura si salda fin dai suoi inizi settecenteschi al problema delle origini storiche della civiltà. La naturalizzazione della cultura che si fa strada fra le molteplici congetture degli illuministi circa le origini della società, del linguaggio, dei costumi consente di delineare un campo di significatività completamente affidato alla capacità umana di dare senso al mondo. L’ordine umanistico della cultura si svela così come ordine costruito dall’essere umano e, in quanto tale, in quanto cioè privo del saldo radicamento nell’ordine divino, esposto alla radicale contingenza e instabilità delle umane vicende. È così che il paradigma umanistico della dignità umana si realizza sulla base della feconda tensione che si determina fra la coscienza del ritrarsi dell’ordine divino dal mondo umano e l’aspirazione alla libera costruzione di un ordine pienamente umano. Fin dalle origini della modernità, lo spazio della libertà umana si definisce problematicamente mediante una progressiva erosione dell’ordine ontoteologico tradizionale. Quanto più evanescente appare il riflesso di quest’ordine divino nel mondo umano, quanto più indeterminata è cioè la “natura” dell’essere umano, tanto più “degno” è il suo libero slancio a costruirsi un ordine tutto umano. In questo spazio che si apre nel moderno fra il ritrarsi dell’ordine e l’esigenza di costruzione di un ordine umano trova la sua genesi storico-problematica il concetto di cultura.

Esso è dunque figlio del ritrarsi del divino e dello sconcerto di fronte a una natura disincantata e ridotta a mera utilizzabilità. Cultura si innesta così nello spazio che si dischiude fra l’assenza di senso della realtà e la significazione umana. La significazione ha la sua condizione di possibilità proprio nell’assenza di senso che essa prova a redimere. Questo rapporto fra insensatezza e significazione, fra contingenza e finalità, resterà una delle costanti teoriche nella riflessione filosofico-culturale di matrice kantiana.[3] E ciò vale sia nelle soluzioni speculative volte ad isolare nella dimensione della validità non essente un ordine di significatività culturale in sé valido e sottratto alla contingenza delle sue realizzazioni particolari nella storia; sia in quelle che insistono, invece, sul carattere contingente e storico di ogni visione culturale del mondo. In entrambi i casi l’impulso alla significazione si proietta su una realtà riconosciuta e avvertita come priva di senso; l’istanza superiore della ragione culturale rivendica la sua superiorità sul reale, intende esserne giudice e discriminante in virtù di una legalità, di una norma sovraordinata. In tal modo la lotta per la cultura diventa già di per sé illuminismo e critica della realtà effettuale, denuncia delle sue discrasie, delle sue insensatezze, decostruzione delle strutture irrazionali che dominano la vita umana in virtù dell’indebita derivazione di un valore normativo da uno stato di fatto.

Nell’atto stesso in cui si definisce, nel medesimo momento storico in cui essa prende forma, la filosofia della cultura si scopre come una critica della cultura.[4] Essa non è solo mossa da un impulso di forma, da un’esigenza di ricomposizione delle lacerazioni del moderno, ma è originariamente dominata da una movenza critica e decostruttiva. Essa denuncia l’insensatezza dell’esistente, mostra l’ingiustizia delle istituzioni, la scintillante miseria della civiltà, l’irrazionalità del comportamento umano. Ma è l’atto stesso di questa denuncia, la medesima decostruzione che svela il negativo nelle forme solidificate della tradizione a suggerire il progetto di un nuovo ordine, a spingere cioè verso il risanamento della scissione mediante la cultura.

Qui emerge con chiarezza un gioco di paradossi intorno al quale il progetto della modernità, la modernità come progetto prende forma. Rousseau è senz’altro il pensatore paradigmatico di questa svolta culturale del moderno. Egli decostruisce la cultura dei lumi, mostrando come il progresso culturale, mediante il quale l’umano giunge alla piena umanità, coincide con la perdita progressiva della libertà, con l’autoalienazione dell’umano nei meccanismi sociali che esso stesso costruisce intorno a sé. Lo schema teologico della caduta è così convertito nel paradigma storicizzato e socializzato dell’autoalienazione, al quale la riflessione filosofico-culturale rimarrà ferma nei secoli a venire. In virtù di tale paradigma il problema della cultura prende le mosse dall’indigenza di senso del presente, riconoscendovi l’effetto del medesimo processo culturale che presiede all’emancipazione dell’umano dalla natura. La scoperta della cultura come autentico mondo umano, fatto dall’uomo si accompagna, così, al riconoscimento che è in virtù di questo stesso mondo e dei suoi meccanismi che l’essere umano si perde, è in questo stesso mondo – piuttosto che nell’orizzonte ontoteologico – che si radica il male. La scoperta della cultura si accompagna così a questo paradosso e alla presa d’atto della discrasia fra esperienza e aspettative.[5] La scoperta della cultura è la scoperta di un’esigenza – quella dell’ordine compiuto in vista della realizzazione dell’umano –, è il divenire coscienti di un compito – quello della riconversione dell’ordine presente in un ordine più giusto e più funzionale all’umano. Il concetto di cultura si rivela dunque come dispositivo critico per eccellenza, nella misura in cui consente di mettere a fuoco le contraddizioni del reale e di misurarne la distanza da un ordine ideale. Ma il problema di fondo – che emerge più o meno chiaramente nella molteplicità dei dispositivi teorici forgiati in due secoli di filosofia della cultura – è che l’ordine ideale che orienta il processo di liberazione reale non è dato, non è predeterminato, ma costituisce esso stesso un compito e un’esigenza affidati al pensiero e all’educazione.

 

2. Cultura e formazione culturale

È così che fin dalle sue origini la riflessione filosofico-culturale finisce per convergere nel problema della formazione culturale. Il progetto della modernità non è solo quello di costruire un mondo culturale più giusto, ma anche quello di definire le linee ideali di orientamento che siano in grado di sostenere questo progetto. È per questo che rinnovamento politico-sociale e rinnovamento dell’educazione si saldano in un complesso storico-problematico che finisce per caratterizzare la filosofia tedesca del primo Ottocento e per conferire alla Wissenschaft quella coloritura etico-politica che sarebbe stata impensabile senza il preliminare processo di implementazione semantica del concetto di cultura.

Ma il paradosso della Kultur non può che risucchiare anche il problema della Bildung. Da Rousseau a Schiller il problema di fondo resta quello di redimere l’alienazione culturale attraverso un ripensamento dell’educazione. Se la cultura si salva solo mediante la cultura e non fantasticando di un prima e un dopo rispetto ad essa, una cosa emerge con chiarezza. La vera educazione non può essere mera espressione di una formazione culturale storicamente determinata, di una cultura in senso oggettivo, non può essere una mera replica e trasmissione per le nuove generazioni del patrimonio culturale depositato. Anche la Bildung deve agire come dispositivo critico e mettere in questione l’esistente nel tentativo di risanarlo dai suoi mali, di redimerne le contraddizioni. Essa deve risanare il processo della cultura attingendo alle sue fonti autentiche. Nei diversi momenti in cui si dispiega, il paradigma Bildung-Kultur ci pone costantemente di fronte al medesimo paradosso per cui solo l’accesso a una dimensione originaria della cultura può garantire il suo rinnovamento. Ciò vale per la natura di Rousseau, per la grecità neoclassicistica di Schiller, come per il dionisiaco nietzschiano. In questi esempi il richiamo all’originario non solo agisce come dispositivo critico per mettere a fuoco le discrasie dell’esistente, ma consente di rintracciare l’autentica energia creatrice non ancora irretita dalla solidificazione delle forme che esso assume nel processo della civiltà. Questa energia – riattualizzata mediante la formazione culturale – è in grado di rivitalizzare le forme morte della civiltà senile e di risanare l’alienazione. Da questa costellazione concettuale si determinano una serie di conseguenze che è bene richiamare dettagliatamente.

Nella misura in cui la Bildung vuole perseguire il rinnovamento della Kultur non deve limitarsi a replicare il patrimonio culturale depositato, la cultura oggettiva, ma deve piuttosto riconnettersi a quell’energia creatrice, alla forza significante che dischiude l’orizzonte umano della cultura. Da ciò deriva lo sguardo critico sulle forme della cultura matura, sulla solidificazione a cui l’energia creatrice va incontro quando si deposita nei dispositivi della Zivilisation. La dialettica Kultur-Zivilisation si afferma nella cultura filosofica tedesca – a partire da Kant fino alle estenuazioni spengleriane – facendosi carico di esprimere la tensione fra la spontaneità creatrice delle origini e la gabbia culturale della civiltà senile. Il processo della cultura si riscopre così consegnato alla dialettica tragica in cui la libera energia creatrice, la spontanea apertura di senso che dà forma al mondo culturale, rinviene nei propri prodotti, nel deposito oggettivato della propria attività, un limite al suo ulteriore dispiegamento. Un limite che diventa tanto più cogente, quanto più si accumula il deposito estenuato della civiltà, testimonianza di creazioni passate, forme morte e prive del significato che aveva dato loro vita, e tuttavia forme oggettive che vincolano, frenano e soffocano l’ulteriore svolgimento della cultura. La dialettica tragica della cultura – che da Humboldt a Simmel si impone nel discorso filosofico-culturale – è il mero riflesso della tendenza all’oggettivazione di ogni significazione culturale e della correlativa tendenza alla limitazione propria di ogni cultura oggettiva. Quanto più cresce il patrimonio della cultura oggettivata, tanto più si estenua la forza creatrice e lo spazio di creatività della cultura. Quanto più la cultura progredisce, si struttura, si differenzia, si intellettualizza, si disincanta, tanto più s’impoverisce di libertà, di anima, di vita.

L’unico antidoto a questo decorso “biologico” della vita culturale è dato dalla Bildung, che è intesa sempre come formazione storica. Essa deve riannodare le fila, riportare alla luce il legame celato che sussiste fra il patrimonio culturale depositato e l’originaria energia culturale creatrice del nuovo, essa deve saper individuale nel passato l’elemento ancora vivo, la forza organica ancora pulsante e capace di futuro. Essa connette le generazioni dell’umanità in un unico processo storico, in cui ogni generazione raccoglie l’eredità culturale di quella che l’ha preceduta, la ripossibilizza, la risignifica, la rende materia di una nuova creazione da consegnare ai posteri.

È così che il paradigma tedesco Bildung-Kultur, la dialettica storica fra cultura intesa come attività e cultura intesa come prodotto, connota in termini inconfondibili la visione storica del moderno. La Geschichte diventa il teatro della progressiva e mai compiuta realizzazione dei valori dell’umanità. Essa è, nel medesimo tempo, il luogo della scissione e il divenire reale di ciò che ha valore e significato; è un bacino di significatività consegnato all’insuperabile distanza dall’ideale. In essa si compie il lavoro della Bildung, che proprio dalla scissione del tempo prova ad estrarre le tracce di eternità con cui dare forma al futuro.

 

3. Neokantismo e storicismo

La scoperta dell’ordine umano della cultura reca in sé il riconoscimento della libertà, ma anche quello della contingenza, inadeguatezza e irrazionalità di quell’ordine umano, troppo umano. Sorge così l’esigenza di rifondare quest’ordine sia nella direzione della sua concretezza politico-sociale, sia in quella dei punti di orientamento da utilizzare in questa rifondazione. In un caso e nell’altro il dispositivo cultura si rivela nella sua difettività strutturale, esso non è mai spirito, è sempre progetto ed esigenza, è decostruzione e critica. Se la cultura si definisce come espressione di una ragione giudicante, se dispiega un programma di razionalizzazione del reale sulla base di una ragione universale, lo fa sempre e solo lasciando mani e piedi ben piantati nel fango dell’esperienza storica concreta. Da quel fango, dalla materia informe dell’alogico, essa trae la linfa vitale che le consente di dispiegarsi come potenza razionalizzante. Ma a quel particolare alogico resta legata nei suoi progetti di razionalizzazione. Ogni tentativo di redimere la contingenza si conferma kantianamente come esercizio di contingenza. La ragione critica, la ragione culturale giudica e condanna il mondo allo stesso modo di come giudica e condanna se stessa, di come giudica e condanna i propri prodotti. Il suo fondamento resta quello difettivo della critica che la rende pura potenza significante e risignificante.

Il kantismo ha ispirato diverse prospettive filosofico-culturali.

Nell’ambito della filosofia della cultura neokantiana, l’ordine culturale è inteso come ordine della validità, alla cui Selbstbesinnung ci si avvicina progressivamente ma che non risulta mai pienamente risolvibile in un sistema concettuale compiuto. Proprio tale Selbstbesinnung dei valori culturali resta il compito infinito della filosofia intesa come Kulturphilosophie. E a tale compito è connessa una visione della storicità intesa come processo di realizzazione dei valori nel mondo umano. La storicità è così ricondotta alla medesima tensione, strutturante il concetto di cultura, fra insensatezza e significazione. L’irriducibilità dell’insensatezza, l’impossibilità di una sua compiuta integrabilità dialettica dell’irrazionalità del reale nel sistema della ragione, è ciò che determina lo spazio aperto e infinitamente progrediente della storicità, inteso come spazio di infinita realizzabilità dei valori culturali. L’irriducibile separazione fra valore e realtà diventa il campo tensionale della storia, in cui si dispiega la loro progressiva integrazione mediante il lavoro del Kulturmensch. Ma questa progressiva integrazione, la realizzazione dei valori, è per il neokantismo – in particolare il neokantismo del Baden – una realizzazione solo analogica e mediata dalla soggettività trascendentale, ovvero dalla soggettività che significa il mondo. In tal modo valore e realtà restano preservati nella loro assoluta separatezza, mentre il regno mediano del senso si costituisce proprio in virtù della tensione intenzionata dalla soggettività fra la dimensione del reale e quella della validità. Sia nei prodotti della validità teoretica (conoscenza) che in quelli della validità ateoretica (morale e estetica) la dimensione del senso è ricondotta alla tensione irrisolvibile fra valore e realtà, una tensione che è determinata dalla loro estraneità ma anche dall’esigenza pratica, etica, critica, culturale di una loro integrazione. In tal modo la cultura stessa – e la storicità come sua proiezione reale – non è che lo spazio di mediazione fra l’insensatezza della mera empiria e la pura validità amministrata dalla soggettività trascendentale e dai suoi derivati o tradimenti antropologizzanti. Il senso nasce dalla discrasia fra validità ed empiria; è la tensione che si innesca fra di esse, è l’esigenza di istituire un legame fra regni assolutamente altri.

Con lo storicismo – inteso qui nella sua purezza idealtipica – siamo di fronte a esiti ben diversi. Per suo tramite si configura una radicalizzazione del gesto copernicano, in virtù della quale la storia cessa di essere l’ambito di realizzazione delle forme universali della cultura e diventa il luogo di emersione, di evenienza del valore e del senso. Le formazioni storiche non sono mere portatrici, mero sostrato di realizzazione dei valori universali, ma rappresentano piuttosto l’accadere di un senso o di un valore sempre legato a un significante o a un valorante inserito in una rete coesistenziale di condivisione. Nella riflessione humboldtiana sul linguaggio emerge con chiarezza come il gesto copernicano di significazione del mondo proceda mediante una costitutiva commistione con la materialità del suono linguistico, in virtù del quale il pensiero prende forma e si oggettiva simbolicamente. D’altra parte, è solo la condivisione del significato con il cospirante “tu” che rende compiuta l’oggettivazione linguistica, solo l’oggettivazione coesistenziale del significato porta a piena determinatezza il pensiero, che è sempre pensiero dialogante e appellante l’altro. L’intenzionalità specifica del soggetto significante è così rivolta verso la materialità del mondo da un lato, e verso l’alterità dei coesistenti dall’altro. Il senso si determina solo in quanto tensione verso l’alterità, sensibile e coesistenziale.[6]

I sostrati di determinazione del senso culturale – la sensibilità dell’espressione simbolica e la condivisione coesistenziale e comunitaria – finiscono così col conferirgli quella concretezza che non rimanda a null’altro se non all’esigenza del singolo di andare oltre di sé, di incontrare il mondo. Se nella generazione di Herder e Humboldt la fiducia nella comune natura umana non vacillava di fronte alla forza pluralizzante e relativizzante dell’oggettivazione storica, le cose andranno ben diversamente per le generazioni successive.

Il dispositivo cultura contiene in sé la proiezione storicizzante e dinamizzante che i concetti di Kritik e di Bildung le conferiscono in maniera strutturale. Né il tentativo di riassorbimento dialettico dell’alterità, né quello neokantiano volto a salvare l’alterità nel ruolo meramente passivo di sostrato di realizzazione di una validità ideale, giungono a rendere pienamente conto delle esigenze e dei paradossi che il concetto di cultura – cifra e stigma del moderno – reca con sé.

 

[1] Di questi mi piace qui ricordare il volume su La filosofia della cultura. Genesi e prospettive (a cura di R. De Biase e G. Morrone), Federico II University Press, Napoli, 2020, al quale Magnano San Lio ha fornito un contributo essenziale su Dilthey e la filosofia della cultura, ivi, pp, 45-71; nonché i due volumi su Deutschland und der Orient (a cura di E. Massimilla e G. Morrone. Olms, Hildesheim, 2021) con il suo contributo su Osten und Westen: Überlegungen aus dem Europa des 19. Jahrhunderts, ivi, pp. 155-176; e, infine, Deutschland und Hellas (a cura di C. De Stefani, G. Morrone, C. Pepe, Olms, Hildesheim-Baden Baden, 2024) con il suo contributo su Idealità classica e realtà comparata: filologia e Kulturgeschichte in Hermann Usener, ivi, pp. 253-276.

[2] La connessione problematica fra Bildung e Kultur rappresenta il peculiare «Deutungsmuster» dello spirito tedesco: cfr. a riguardo G. Bollenbeck, Bildung und Kultur. Glanz und Elend eines deutschen Deutungsmusters, Frankfurt a. M., 1994.

[3] Come sostiene Kant, l’esigenza di redimere la contingenza e irrazionalità dell’empirico può fare affidamento solo sull’idea di finalità, che può essere intesa come una «legalità del contingente» solo in quanto costituisce una «legalità in sé contingente»: EE, § II. Nella Erste Einleitung Kant parla della finalità come «Gesetzmäßigkeit des Zufälligen» (EE, § II, p. 217), ma anche come «zufällige Gesetzmäßigkeit» (EE, § II, p. 204). Ma sempre per Kant «la realizzazione, in un essere ragionevole, dell’attitudine generale a fini qualsivoglia (pertanto nella sua libertà) è la cultura». In merito alla radice kantiana della Kulturphilosophie mi sia consentito rimandare a G. Morrone, Il concetto kantiano di cultura, «Archivio di storia della cultura», XXXIII, 2020, pp. 113-142.

[4] In merito mi limito a rimandare a R. Konersmann, Kulturkritik. Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2008. 

[5] Di una frattura tra esperienza e attesa ha parlato, come è noto, Kosellek: cfr. R. Koselleck, Storia. La formazione del concetto moderno, tr. it. a cura di R. Lista, Bologna, Clueb, 2009, parte II: “Geschichte” come concetto guida [Leitbegriff] moderno, cap. 3: La lacerante frattura tra esperienza [Erfahrung] e attesa [Erwartung].

[6] Per una più compiuta esposizione di questo snodo humboldtiano del discorso sulla Kultur, mi sia consentito rimandare a G. Morrone, La genesi coesistenziale del senso. La filosofia del linguaggio di Humboldt come teoria della cultura, in A. Carrano, E. Massimilla, F. Tessitore (a cura di), W. von Humboldt, duecentocinquant’anni dopo. Incontri e confronti, Liguori Editore, Napoli, 2017.


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STORICISMO , CULTURA , CRITICA , NEOKANTISMO


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Filosofia

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