Decadenza e diversione: Horkheimer e la critica della cultura
di Raffaele CarboneI.
In questo articolo mi propongo di considerare alcuni testi fondamentali in cui Horkheimer affronta il problema della cultura provando a enucleare i diversi significati del concetto di cultura su cui di volta in volta il filosofo tedesco mette l’accento. Tra i testi in questione mi soffermo in particolare sui seguenti: il discorso inaugurale tenuto da Horkheimer nel 1931 in qualità di direttore dell’Institut für Sozialforschung, dal titolo La situazione attuale della filosofia della società e i compiti di un istituto per la ricerca sociale, il saggio Autorità e famiglia, pubblicato nel 1936 come introduzione della raccolta Studien über Autorität und Familie, a cura dello stesso Horkheimer, presso Alcan a Parigi; il celebre Dialettica dell’Illuminismo (1944, 1947); infine, un articolo più tardo, dal titolo La filosofia come critica della cultura, pubblicato nel 1959, negli atti del convegno sulla critica della cultura tenutosi l’anno precedente a Monaco.[1]
Prendo dunque in esame il discorso inaugurale da direttore dell’Institut für Sozialforschung, del 1931, nel quale Horkheimer sostiene la tesi che la sociologia interdisciplinare e la filosofia della società devono considerare non soltanto la dimensione economica (il sistema di lavoro sociale) e quella psichica (la socializzazione istintuale dell’individuo), ma anche una terza dimensione di riproduzione sociale, vale a dire proprio la cultura.[2] Si tratta cioè di analizzare, come scrive Horkheimer stesso, la
connessione che sussiste tra la vita economica della società, lo sviluppo psichico degli individui e i cambiamenti che hanno luogo nelle sfere culturali in senso stretto – alle quali non appartengono solo i cosiddetti contenuti spirituali della scienza, dell’arte e della religione, ma anche il diritto, il costume, la moda, l’opinione pubblica, lo sport, le forme di divertimento, lo stile d vita ecc.[3]
È in gioco, aggiunge Horkheimer, l’antico problema del rapporto «fra esistenza particolare e ragione universale, fra realtà e idea, fra vita e spirito; solo che questo vecchio tema viene appunto collocato in nuova costellazione di problemi».[4] Si noterà che la vecchia questione ruotava intorno alla connessione tra due termini (sfera ideale-universale, sfera reale-particolare), mentre la sua riformulazione, «più adeguata – come sostiene Horkheimer – ai metodi disponibili e allo stato del nostro sapere»,[5] ne comprende tre: processi economici, sviluppo psichico degli individui, sfere culturali. Questa riformulazione del problema antico si attua alla luce dello sviluppo contemporaneo della Sozialphilosophie, che si occupa di quei fenomeni che possono essere compresi solo in relazione alla vita sociale degli uomini (Stato, diritto, economia, religione, l’intera cultura materiale e spirituale dell’umanità).[6] Così intesa, la filosofia della società ha compiuto i suoi maggiori progressi non tanto grazie a Kant, nel cui pensiero l’essenza della cultura e le sue articolazioni si comprendono soltanto all’interno dell’«unità chiusa del soggetto razionale», della «dinamica della persona», a partire dalla spontaneità dell’io e dalle sue forme originarie;[7] ma soprattutto grazie a Hegel, che ha affrancato la riflessione del soggetto su di sé dalle catene dell’introspezione e ha collocato nell’orizzonte della storia «il problema del soggetto autonomo che crea la cultura»[8]
Secondo Honneth, la categoria di cultura presupposta e legittimata da Horkheimer in questo discorso delimita una sfera di azione sociale in cui i singoli gruppi sociali si orientano in base a valori comuni oggettivati nelle istituzioni e tramandati in forma di espressioni simboliche.[9] Ma va anche detto che, agli occhi di Honneth, Horkheimer non si rende pienamente conto della declinazione logico-operativa del concetto di cultura e riconduce questa categoria su un versante concettuale tradizionale finendo col mettere da parte le potenzialità della cultura in termini di azione sociale e col far emergere, in Autorità e famiglia, un concetto normativo di cultura.[10]
Passo dunque a esaminare il saggio Autorità e famiglia, che si colloca nell’ambito delle attività dell’Institut für Sozialforschung intorno alla metà degli anni ’30 e si sviluppa alla luce del programma della teoria critica. Nella prima parte del testo, intitolata appunto «Cultura», Horkheimer prende avvio dalle tradizionali divisioni della storia dell’umanità precisando a riguardo che quando si parla di epoche non si pensa a pure somme di avvenimenti, il cui inizio e la cui fine sono stabiliti in maniera arbitraria, ma a relative unità distinte l’una dall’altra in virtù di «determinati momenti strutturali peculiari» che ciascuna di esse «rivela».[11] Rievocando le diverse opinioni sull’argomento formulate nell’ambito della filosofia della storia e della sociologia classiche (tedesca e francese), Horkheimer sottolinea due punti fermi: 1) l’esistenza di una connessione interna nello sviluppo storico tale da permettere di rintracciare le grandi linee che collegano l’epoca presente con le formazioni sociali più remote;[12] 2) la possibilità di individuare «delle strutture unitarie, singoli periodi dello sviluppo sociale, ciascuno dei quali imprime il suo marchio peculiare non solo al traffico economico, al diritto, alla politica, all’arte, alla religione e alla filosofia, ma anche agli individui».[13] Ciascun periodo si differenzia dagli altri sia in relazione alla costituzione psichica degli uomini sia in relazione alle istituzioni e alle opere che essi realizzano. Tali differenze sono definite differenze di cultura.[14] «Questo termine abbraccia anche quei fenomeni che sotto il titolo di civilizzazione vengono spesso distinti dalla cultura in senso stretto, e che discendono in un modo particolarmente trasparente dalla pratica di vita della società e a essa si riferiscono».[15]
Le grandi connessioni sociali che costituiscono una cultura non sono formazioni stabili; in ciascuna di esse, sostiene Horkheimer, le singole parti interagiscono continuamente e tale specifica interazione caratterizza in un certo modo e non in un altro una data formazione culturale. Al riguardo, Horkheimer rileva che,
tutte le culture passate sono contrassegnate da leggi in contrasto le une con le altre. Da una parte nel loro ambito ci sono svolgimenti che, in modo più o meno analogo, si ripetono, ad esempio il processo meccanico di lavoro, i processi fisiologici del consumo e della procreazione, ma anche lo svolgimento quotidiano della vita giuridica e dell’apparato sociale del traffico in genere. Dall’altra esse sono però dominate da tendenze che, nonostante quella ripetizione, modificano permanentemente la posizione reciproca delle classi sociali al pari delle relazioni tra tutti gli ambiti della vita, e alla fine conducono al declino o anche al superamento delle culture in questione.[16]
Horkheimer si chiede qui perché una società funziona in un determinato modo, perché è stabile o in crisi. Per rispondere a queste domande occorre a suo avviso conoscere in ogni situazione «la costituzione psichica degli uomini nei diversi gruppi sociali», «come il loro carattere si è formato in connessione con tutte le potenze di formazione culturale dell’epoca».[17] Si tratta di individuare il processo economico, ovvero l’apparato produttivo materiale, come fondamento determinante di ciò che accade, e dunque di cogliere i nessi tra tale processo e le altre sfere della vita sociale.
In tal modo l’intera cultura è integrata nella dinamica storica; i suoi ambiti, ossia le abitudini, le usanze, l’arte, la religione e la filosofia, nel loro intreccio costituiscono di volta in volta fattori dinamici nella conservazione o nella disgregazione di una determinata forma sociale. In ogni singolo momento la cultura è essa stessa un insieme di forze nell’avvicendamento delle culture.[18]
Le istituzioni e i processi della sfera culturale, agendo sul carattere e sulle azioni degli uomini attraverso norme che orientano il comportamento di tutti e di ciascuno,
si presentano come momenti di coesione o di dissoluzione della dinamica sociale e, a seconda dei casi, costituiscono il cemento di una costruzione ancora in divenire, che tiene artificialmente insieme le parti che tendono a dissociarsi, oppure una parte dell’esplosivo che alla prima scintilla lacera il tutto.[19]
La cultura non andrebbe dunque considerata come un’entità autonoma contrapposta agli individui: secondo Horkheimer, «i fattori culturali» operano come «tratti caratteriali degli individui di volta in volta considerati» e su di essi si fondano specifiche istituzioni costituite appositamente «per rafforzarli e perpetuarli». La cultura è dunque «una struttura dinamica» e – direi – aperta, relazionale, ovvero, con le parole del filosofo nato a Stoccarda, «una sfera dipendente e al tempo stesso particolare all’interno del processo sociale globale», in modo tale che a un determinato modo di produzione e a un determinato momento del suo sviluppo corrisponde una determinata forma culturale.[20]
Alla luce di queste ultime considerazioni, si può sostenere, seguendo Honneth, che Horkheimer usa qui un concetto di cultura che riecheggia quello, marxista, di «sovrastruttura culturale». Tale concetto allude, infatti, alle istituzioni culturali
che riconducono ai soggetti le richieste comportamentali del processo di produzione sociale attraverso processi di acculturazione ed educazione stabilmente istituzionalizzati; le modalità educative dei genitori, i curricula scolastici o rituali religiosi sono strumenti presenti in tutte le classi sociali, attraverso i quali i vincoli comportamentali del sistema economico influiscono sulla psiche certamente in modo indiretto e frammentario, ma in ogni caso per tutta la vita e incessantemente.[21]
Secondo Honneth, il concetto teorico-operativo di cultura, che si staglia all’orizzonte nella conferenza inaugurale di Horkheimer, viene dunque sostituito, in Autorità e famiglia, dal concetto teorico-istituzionale di «apparato culturale».[22] Nel saggio del 1936 il filosofo tedesco non farebbe tanto valere un’idea di cultura come produzione cooperativa di orientamenti di azione, quanto un’idea di cultura obiettivata in istituzioni dal fondamento durevole e «apparentemente sottratte al flusso quotidiano di azione», in altri termini «la funzione socializzante di istituzioni formative, cioè l’istituzione culturale».[23] Ed è in questa dimensione istituzionale che la cultura viene a situarsi tra il sistema di lavoro sociale e il bagaglio istintuale degli esseri umani.[24] In sintesi, in un primo tempo per Horkheimer la cultura indica il principio di cooperazione di un gruppo umano; in un secondo tempo il co-autore della Dialettica dell’illuminismo mette l’accento sul significato di «apparato culturale»: si tratta della «categoria teorico-istituzionale di cultura».[25] Tuttavia, alla luce in particolare di un passo precedentemente citato, in cui gli ambiti culturali vengono connotati come fattori dinamici che agiscono nei processi di formazione e di disgregazione delle configurazioni sociali, in questo saggio il concetto di cultura non sembra totalmente livellarsi sulla sua accezione teorico-istituzionale, anche perché i fattori culturali in questione precedono le istituzioni, che, scrive Horkheimer, «su di essi si fondano e che sono state create per rafforzarli e per perpetuarli», sicché queste ultime «solo relativamente» sono rette da leggi proprie.[26] I fattori culturali sarebbero forze plastiche e dinamiche che permettono di aggregare gruppi sociali intorno a norme comuni di azione; il loro consolidamento e radicamento richiederebbe tuttavia la loro oggettivazione e canalizzazione in un apparato istituzionale, che si caratterizza apparentemente per la sua solidità, durevolezza e dunque staticità – e dunque paradossalmente le istituzioni, nate per rafforzare le forze culturali, ne imbriglierebbero, sedimentandosi col tempo, l’originaria pulsione e il dinamismo.
In tal modo i due aspetti sembrano coesistere nel saggio del 1936, o almeno in alcune sue pagine. Certo, seguendo gli sviluppi del discorso horkheimeriano, il significato teorico-istituzionale del concetto di cultura, e la connessa visione di una cristallizzazione dei fattori culturali all’interno dell’apparato istituzionale, sembrano a un certo punto prendere il sopravvento. Per illustrare meglio questo punto, va ricordato che Horkheimer nel saggio del 1936 intende mettere in luce le dinamiche attraverso cui le relazioni di obbedienza e di costrizione si formano e si mantengono all’interno dei grandi complessi sociali e capire le ragioni per cui le classi dominate, anche nei periodi di decadenza di una cultura, finiscono col sopportare a lungo il loro giogo.[27] Così, analizzando il nesso tra la sfera dei bisogni e della produzione degli uomini e quella delle loro forme di vita, nonché le modalità con cui si conservano forme sociali invecchiate (anche alla luce di casi concreti, ad esempio il sistema delle caste in India), Horkheimer giunge a sostenere che l’apparato culturale delle singole epoche tende a consolidare nei dominati stessi – nelle loro menti e nelle loro abitudini – il necessario dominio degli uomini sugli uomini che modella la storia passata.[28]
II.
Una nuova accezione del termine cultura appare in Horkheimer nel corso degli anni ’40: tale accezione fa riferimento ai prodotti culturali e artistici che sono oggetti di produzione, diffusione e consumo sul piano industriale. In questo significato di cultura e nel lavoro teorico di approfondimento su di esso trova in realtà piena espressione l’idea – già presente, si è appena detto, negli scritti degli anni ’30 – secondo cui il dominio degli uomini sugli uomini si realizza attraverso la cultura. Nondimeno, nei testi che toccano il problema della cultura da questa nuova prospettiva, non è più in gioco soltanto la cultura nel senso della civilizzazione e nemmeno soltanto l’apparato culturale evocato nel saggio sull’autorità del 1936 (così come negli studi che compongono il volume collettivo dei francofortesi). In questa nuova accezione, a partire dalla seconda metà degli anni ’40, la cultura è intesa nel senso delle produzioni culturali e artistiche e del concetto di Kulturindustrie, elaborato in collaborazione con Adorno.[29] Com’è noto, questo concetto fa riferimento alle trasformazioni che hanno segnato la cultura in seguito all’avvento dei monopoli e delle grandi concentrazioni economiche dell’epoca post-liberale. Esso designa in particolar modo la cultura del tempo libero e precisi beni culturali prodotti in serie: i programmi della radio, le canzoni di successo e i film realizzati a Hollywood. Questi ambiti, tuttavia, non sono compartimenti stagni; la cultura non è un universo caotico ma un sistema: «il film, la radio e i settimanali costituiscono, nel loro insieme, un sistema. Ogni settore è armonizzato al suo interno e tutti lo sono fra loro».[30] La prospettiva critica di Adorno e Horkheimer emerge nella loro riflessione sugli effetti culturali del capitalismo, nella loro capacità di portare alla luce l’applicazione della razionalità strumentale alla cultura. Ma tale estensione non fa altro che compiere il tradimento della cultura la quale – intesa non solo nel senso delle opere artistiche e culturali ma anche come sfera dello spirito – pure aveva la capacità di porre un argine alla barbarie.[31]
Questa potenzialità emerge proprio nel saggio Autorità e famiglia, a cui è opportuno, brevemente, far ritorno. Qui Horkheimer, analizzando la modalità di subordinazione e i tratti fondamentali del carattere autoritario propri dell’epoca borghese,[32] sottolinea che la famiglia, una delle forme sociali dell’attuale edificio culturale, ha la specifica funzione di produrre «determinati tipi caratteriali autoritari»: essa è «creatrice di una mentalità autoritaria».[33] Nondimeno, il teorico francofortese individua in alcune opere artistiche una forza di ribellione contro l’apparato autoritario e le sue prescrizioni. A suo avviso, due leggende che risalgono all’epoca rinascimentale e che vengono immortalate nella grande letteratura, Romeo e Giulietta e Don Giovanni,
esaltano la ribellione dell’elemento erotico contro l’autorità della famiglia: Don Giovanni contro la morale restrittiva della fedeltà e dell’esclusività; Romeo e Giulietta in nome di questa morale. [...] Queste figure di leggenda esprimono l’abisso che divide la pretesa di felicità del singolo e la pretesa di autorità della famiglia. È uno degli antagonismi tra le forme della società e le forze viventi che queste opere artistiche rispecchiano.[34]
Anche se si tratta di eccezioni in cui è confermata la regola, queste storie, nella misura in cui trovano cittadinanza letteraria e acquistano il crisma dell’opera d’arte, costituiscono forze di erosione della struttura economico-sociale dell’epoca borghese. E se in questa fase della storia dell’umanità la formazione del carattere autoritario si fonda su un’educazione paterna che induce l’individuo a cercare sin da bambino la cause dei suoi insuccessi in se stesso sviluppando quel «senso di colpa convulsivo» che «vanifica la critica della realtà»,[35] la cultura e nello specifico le opere letterarie – quando non mirano anch’esse a cementare un edificio sociale gerarchico e oppressivo – possono sprigionare forze capaci di erodere le fondamenta di tale costruzione. Va detto che il saggio si chiude con un’allusione al «momento esplosivo della cultura».[36] In un’epoca (siamo nel 1936) caratterizzata dal fatto che lo stato si fa carico in misura maggiore rispetto al passato dell’educazione all’autorità (che, appunto, in precedenza passava innanzitutto attraverso la mediazione della famiglia), e da una tendenza che porta alla dissoluzione «tutti i valori e le istituzioni culturali che la borghesia ha creato e tenuto in vita», tendenza «risultante dall’economia stessa»,[37] questa potenzialità della sfera culturale, il suo momento esplosivo, secondo Horkheimer, «risalta con più evidenza rispetto a quello coesivo».[38] Tuttavia, in questo caso risulta un po’ ambiguo il senso da attribuire alla carica esplosiva della cultura: Horkheimer non sembra alludere alle potenzialità critiche della sfera culturale quanto al ruolo della cultura come forza che, sviluppando tendenze che dipendono sempre dai processi economici, contribuisce alla disgregazione dei rapporti dell’epoca presente.[39]
Va rilevato, poi, che anche in Teoria tradizionale e teoria critica Horkheimer fa riferimento alla carica oppositiva della cultura. In questo saggio del 1937, che segue di un anno Autorità e famiglia, il filosofo tedesco sostiene che in un’epoca in cui la dipendenza del culturale dall’economico va intesa in termini più materialistico-volgari rispetto al passato, nella misura in cui la sfera economica determina in maniera più immediata gli individui, «la relativa capacità di resistenza e sostanzialità delle sfere culturali sta svanendo».[40] Questo fenomeno verrà approfondito sotto nuova luce, nella collaborazione con Adorno, proprio attraverso il concetto di industria culturale.
Nell’articolo Arte e nuova e cultura di massa (1941), invece, Horkheimer con una certa enfasi mette l’accento sulla componente critica contenuta nell’opera artistica e letteraria (tale idea e tale enfasi segnano peraltro un solco tra la posizione del successore di Carl Grünberg alla direzione dell’istituto e il suo collega e amico Theodor Wiesengrund Adorno): evocando Shakespeare, Goethe e Proust, Horkheimer scrive: «Da quando è diventata autonoma, l’arte ha preservato l’utopia che è sfuggita dalla religione».[41] Questo emerge in modo particolare nella prima modernità: in modo diverso dall’epoca in cui scrive Horkheimer, nel quale «ciò che si chiama divertimento popolare [...] è il frutto di un bisogno suscitato artificialmente e manipolato dall’industria culturale»,[42] la popolarità allora non dipendeva immediatamente dalla masse – e in realtà essa, considerata sotto l’aspetto qualitativo, non ha mai avuto un tale legame immediato –, bensì dai loro rappresentanti in altre fasce sociali. «Sotto Elisabetta I e ancora nel XIX secolo – scrive Horkheimer – le persone colte erano i portavoce dell’individuo. Ma poiché i suoi interessi non coincidevano appieno con quelli della borghesia che si stava affermando, le opere d’arte contenevano sempre anche un elemento critico».[43] In sintesi, in questo testo, come in Autorità e famiglia, Horkheimer suggerisce che attraverso le opere artistiche e letterarie è possibile concepire un mondo diverso da quello dominato dalla produzione di merci. Esse hanno fornito un veicolo per l’espressione del pensiero critico costruendo immagini di vita che contraddicevano l’esistente. L’arte anticipa così una vita migliore o preserva un ideale che rischia di essere dimenticato, ma questo soltanto è tutto ciò che può fare.[44]
Intendo ora portare l’attenzione sul concetto di «industria culturale» (Kulturindustrie) e sulla sua relazione con il tema in questione. L’espressione è stata utilizzata la prima volta da Horkheimer nel già evocato Arte e nuova e cultura di massa, nel 1941,[45] e poi, con più ampio respiro da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo. Come Adorno ha chiarito in un breve testo del 1963, Résumé über Kulturindustrie, essa sostituisce l’espressione «cultura di massa» (Massenkultur) che i due autori hanno utilizzato nel primo abbozzo della Dialettica. La nuova espressione, spiega Adorno, intende mettere fuori gioco sin dall’inizio l’interpretazione gradita ai suoi sostenitori: cioè che l’oggetto della questione sia qualcosa di simile a una cultura che nasce spontaneamente dalle masse stesse, la forma contemporanea dell’arte popolare. Ora da quest’ultima, per i due autori, l’industria culturale deve essere nettamente distinta.[46] Del resto, si è appena detto, già nel 1941 Horkheimer rileva che la cultura ai suoi tempi non è il prodotto di una genuina domanda, piuttosto è il risultato di bisogni che sono stati suscitati in modo artificiale e manipolati proprio dall’industria culturale. Il termine «industria» (e dunque l’espressione nel suo insieme), precisa sempre Adorno nel testo del 1963, non deve essere inteso in senso letterale. Esso non si riferisce alla produzione in sé, ma alla standardizzazione e alla falsa individualizzazione dei prodotti culturali e inoltre alla razionalizzazione della promozione e della distribuzione di tali prodotti.[47]
Nella critica dell’industria culturale la cultura si caratterizza come un «fenomeno derivato» che contribuisce a consolidare l’accettazione dei rapporti di forza reali, la sottomissione alla realtà, e a dissimularne le mediazioni. Infatti, l’industria culturale attraverso i mezzi di comunicazione di massa produce una socializzazione diretta che finisce col soppiantare quella socializzazione familiare, oggetto – come si è detto – dei lavori dei teorici francofortesi su Autorità e famiglia.[48] Questa socializzazione diretta è puramente passiva. La passività costituisce in effetti un elemento che connota il meccanismo di funzionamento dell’industria culturale, la relazione che si instaura tra essa e le masse. Com’è noto, nell’analisi di Horkheimer e Adorno, l’industria culturale trasforma le opere d’arte in beni culturali, in beni di consumo, in modo tale che la cultura viene ridotta integralmente a merce (certo, è una «merce paradossale [...]; si risolve così ciecamente e ottusamente nell’uso che nessuno sa più cosa farsene»[49]) e a mezzo che contribuisce a «inculcare stereotipi», rendendo «sempre più diffusa ed accettata l’automazione dei comportamenti».[50] Tali beni sono produzioni nate e confezionate per il mercato, che gli uomini massificati non possono ricevere se non in quanto consumatori. Mentre il pubblico si appropria dei prodotti culturali per arricchirsi spiritualmente e per poter esercitare una funzione critica, la massa si limita a consumarli passivamente.[51] Come scrivono i due autori, capovolgendo il senso dello schematismo kantiano, che aveva lasciato al soggetto trascendentale il compito di riferire in anticipo la molteplicità dei dati sensibili ai concetti fondamentali, «per il consumatore non rimane più nulla da classificare che non sia stato già anticipato nello schematismo della produzione».[52] I prodotti dell’industria culturale, per il modo stesso in cui sono costruiti, a partire dal più caratteristico di tutti, il film sonoro, impoveriscono e paralizzano l’immaginazione e la spontaneità del «consumatore culturale».[53]
Queste considerazioni sono peraltro in continuità con le riflessioni conclusive del celebre saggio horkheimeriano del 1937, Teoria tradizionale e teoria critica. Qui Horkheimer rileva che nelle condizioni del capitalismo monopolistico si esaurisce anche quella «relativa autonomia dell’individuo» che caratterizzava l’epoca del liberalismo: certo, anche in questo periodo le teorie politiche e morali degli individui potevano dedursi dal loro status economico – è sempre all’opera il concetto della dipendenza del culturale dall’economico –, tuttavia «questa dipendenza era largamente mediata sul piano psicologico, e la morale stessa assunse, in seguito alla sua funzione, una sorta di saldezza nell’individuo».[54] Nell’era post-liberale, l’individuo non ha più un margine di autonomia,
non ha più dei pensieri propri. Il contenuto della fede di massa, al quale nessuno crede fino in fondo, è un prodotto immediato delle burocrazie dominanti nell’economia e nello stato, e i suoi adepti seguono segretamente solo i propri interessi atomizzati e quindi falsi; essi agiscono come pure funzioni del meccanismo economico.[55]
Come emerge poi nella Dialettica dell’illuminismo, nell’epoca della grande industria e dei fascismi la coscienza morale viene meno, così come la capacità di riflessione viene neutralizzata:
Poiché la grande industria, liquidato il soggetto economico indipendente (sia revocando gli imprenditori autonomi, sia trasformando gli operai in oggetti del sindacato), sottrae sempre più il terreno economico alla decisione morale, anche la riflessione si atrofizza. [...] La coscienza morale resta senza oggetto, poiché al posto della responsabilità dell’individuo per sé e per i suoi, subentra, sia pure sotto la vecchia etichetta morale, il suo rendimento per l’apparato.[56]
Nella Dialettica dell’illuminismo, Horkheimer, con Adorno, approfondisce alcuni temi già sviluppati nei suoi lavori degli anni ’30, anche se va ricordato che la riflessione sull’industria culturale risente del contesto e dell’atmosfera in cui quest’opera vede la luce. La premessa alla prima edizione reca come luogo e data: Los Angeles, California, maggio 1944. All’epoca i due autori vivevano in California e Adorno era co-direttore del Research Project on Social Discrimination presso l’University of California (1941-48): la vicinanza di Hollywood ha avuto evidentemente una qualche incidenza sulle considerazioni sul cinema (i riferimenti al cinema hollywoodiano, com’è noto, sono espliciti). Rispetto ai saggi horkheimeriani degli anni ’30, nella Dialettica dell’illuminismo, i due autori mostrano come la cultura, intesa come insieme di produzioni culturali, costituisce un fattore suscettibile di annichilire l’autonomia e la spontaneità dell’individuo, di abolire l’opposizione tra questi e la società e di costituirsi come una delle figure del dominio. L’industria culturale è l’applicazione del modello produttivo fordista alla cultura, ma tale estensione del modello fordista comporta la distruzione della cultura, giacché la produzione in serie è la negazione della creatività individuale. In questo stato di cose il pensiero stesso perde respiro, limitandosi all’apprensione di singoli fatti isolati: «l’ordinamento della vita attuale non lascia spazio all’Io per trarre conseguenze intellettuali. Il pensiero ridotto a sapere viene neutralizzato, utilizzato per la qualifica sui mercati settoriali di lavoro e per accrescere il valore commerciale della personalità».[57] I grandi monopoli industriali e l’industria culturale preparano infine il terreno per la fase totalitaria del dominio piegando e rendendo malleabile la «maggioranza degli amministrati».[58] In tal modo, nell’epoca dell’«identificazione pronta, immediata, con le scale stereotipe dei valori»,[59] la società amministrata, la personalità autoritaria e l’industria culturale si rivelano come i differenti volti, ovvero i diversi momenti, di una medesima realtà e di uno stesso processo.[60]
III.
Facciamo ora un salto temporale in avanti. Dalla metà degli anni ’40 passiamo alla fine degli ’50 e consideriamo il testo della relazione presentata da Horkheimer al convegno internazionale di Monaco sulla critica della cultura nel 1958.[61] Questo articolo richiama in modo esplicito il particolare contesto della discussione tra scienze della natura e scienze dello spirito che aveva luogo in quegli anni, «condizionata – afferma Horkheimer – dal comprensibile timore delle discipline filosofiche di essere sfavorite nella distribuzione delle risorse: sfavorite rispetto alla tecnica che assorbe tutto in generale e rispetto al riarmo in particolare».[62] In questo clima i partigiani degli studi umanistici si ingegnano nell’elaborare argomenti che ne legittimino l’esistenza e giustifichino l’allocazione di risorse – ad esempio la loro importanza propedeutica rispetto alle scienze naturali, il loro ruolo fondamentale per il disciplinamento del pensiero, per l’inserimento del cittadino nella comunità statale e infine, di recente, «la loro indispensabilità formativa per i cosiddetti posti di comando nell’industria e nell’amministrazione».[63]
Dopo alcune considerazioni sulla «svalutazione delle facoltà umanistiche» in Germania, che si riflette sulla stessa professione accademica, e sulla ri-definizione del loro ruolo quale fattore formativo per i futuri leader della finanza e della politica[64], Horkheimer cita un articolo di Jacques Barzun, direttore della Columbia University, dal titolo Science versus Humanities, publicato sul «Saturday Evening Post» il 3 maggio 1958, che ha cercato di difendere in altro modo la cause delle discipline umanistiche nei confronti delle scienze naturali e sociali.
L’utilità delle prime non consisterebbe, secondo Barzun, come nel caso delle seconde, nello svolgere una funzione di mediazione del sapere nella sfera del dominio, bensì piuttosto nel fatto che esse sono la risposta immediata a un bisogno. «L’utilità delle scienze umanistiche […] è provata e confermata dall’antico, irremovibile, sempre crescente desiderio che ne abbiamo».[65] Le Geisteswissenschaften, le scienze umane (vale a dire, considerando gli esempi di Barzun, i corsi di lingue, la lettura di opere storiche, l’erudizione), pur essendo inutili come antibiotici e pur accumulando le stoltezze che difendono – afferma Barzun non senza concedersi un tono scherzoso e leggero –, ci circondano ovunque, attirano i nostri sensi e la nostra attenzione. In sintesi, sono un fatto di cui si deve tener conto.[66]
Horkheimer così commenta l’arringa di Barzun:
Secondo Barzun, dunque, la filosofia, la storia, la filologia, l’estetica devono esistere in forza della loro stessa attrattiva. Il che significa che esse sono essenzialmente dei beni di consumo, con lo stesso diritto del cinema, della televisione, delle creazioni di moda, delle sigarette e dei viaggi organizzati: una difesa la quale, al cospetto della concorrenza con tali articoli correnti, non consente una
prognosi favorevole riguardo al dispiegamento futuro delle scienze umane o anche solo riguardo alla loro resistenza nei confronti della minaccia d’un disastro.[67]
Ora, secondo Horkheimer, l’esigenza di una giustificazione delle discipline umanistiche in generale e del sapere filosofico in particolare si spiega con la crisi della forza chiarificatrice del pensiero filosofico stesso. A partire dal tramonto dell’assolutismo, «la chiarezza e l’evidenza aggressiva» ha perso il suo mordente. Del resto, se in passato la filosofia era in contrasto con il mondo, ora ha fatto pace con esso; i filosofi non vivono più nascosti o erranti o ai confini degli Stati (si pensi, rispettivamente, a Descartes e Voltaire).[68] Eppure, il pensiero filosofico trova la sua linfa nella «critica» e nella «coscienza della differenza»: esso «sa di essere l’essenza e, al tempo stesso, l’antitesi della realtà di cui tratta. Il concetto non è mai conciliato con se stesso».[69] Se la forza del pensiero (almeno del pensiero libero) sta nel mettere in luce il contrasto tra l’idea e la realtà, la contraddizione tra la realtà esistente di cui si fa esperienza e un mondo corrispondente alla ragione nel quale l’individuo si riconosce come soggetto autonomo,[70] il suo lavoro non consiste nella mera negazione dell’esistente (inteso sia come il pensiero attualmente dominante sia come la realtà naturale e sociale data), bensì nel riassorbirlo, «come un qualcosa pervaso dallo spirito, qualcosa di legittimato, nella forma futura della coscienza. Esso è contrario a entrambe le cose, al cancellare e dimenticare, come al catalogare e accatastare».[71]
Nel seguito del testo, Horkheimer si sofferma su alcuni momenti essenziali del pensiero occidentale illustrando con esempi precisi l’azione di rottura e conservazione che esso svolge (si pensi ad Agostino e agli altri padri della Chiesa, che eredi della grande filosofia antica, contrastarono le superstizioni della loro epoca).[72] Il suo discorso si sposta, poi, di nuovo sul presente e in particolare sulla «spaventosa regressione culturale» da cui, da un lato, l’Europa è minacciata dall’esterno ma che, dall’altro, da decenni cova al suo interno (gli esempi sono: il Reich guglielmino e, ovviamente, il nazionalsocialismo). Horkheimer registra questa decadenza come un dato di cui prendere coscienza: «la regressione è la tendenza culturale che prevale in Europa».[73] Più avanti scrive – in continuità con le tesi della Dialettica dell’illuminismo: «La filosofia sperimenta oggi la sua vanità non al di là dell’Occidente, bensì nella regressione spirituale dell’Europa, la quale deriva dal proprio fallimento, in un certo senso dal suo esaurimento».[74] Infatti, subito dopo questa affermazione, Horkheimer precisa che tale declino non si collega solo a una minaccia esterna, ma è conseguente al progresso industriale che si erge come scopo di se stesso, a quel progresso che è nello stesso tempo «liberazione e sciagura»:[75]
Quanto più l’applicazione al crescente dominio della natura, l’impiego delle forze naturali, l’ammissione di masse sempre più grandi all’aumento del consumo assorbono gli uomini, tanto più il discorso su ciò che è diverso, sull’ideale, diventa vuoto, tanto più la parola, in genere, diventa funzionale.[76]
Nell’Europa declinante degli anni ’50 (in cui gli sviluppi successivi all’epoca del nazionalsocialismo sembrerebbero «razionalizzarlo a posteriori») Horkheimer registra l’estremo disagio in cui versano le opere d’arte e della filosofia. Quanto più un’organizzazione umana degli Stati europei è minacciata, tanto più esse (come emerge già negli scritti degli anni ’30) dovrebbero poter esercitare la critica dell’esistente, giacché esse sole possono difendere «la verità e l’humanitas» con la loro azione negativa – cioè capace di portare alla luce le contraddizioni tra l’idea e l’esistente. Tuttavia, le opere filosofiche e artistiche «esercitano il loro influsso in disparte» e «il loro potere è scarso».[77] Infatti, nell’epoca attuale le capacità borghesi (senso dell’autonomia e della libertà individuale, liberalità, capacità di esprimersi), che il grado di sviluppo dell’economia potrebbe rendere generali, non si dispiegano affatto, anzi sono sostituite dalla docilità e finiscono col regredire anche presso quegli strati sociali in cui si erano sviluppate.[78] Le masse, d’altro canto, potrebbero essere «più avvedute, più umane, più attive spiritualmente», e occorrerebbe auspicarlo perché il potere rischia sempre di tornare nelle mani di pochissimi. In realtà le società si caratterizzano psicologicamente per la loro incapacità di guardare oltre l’interesse «più stretto», più immediato, per una estrema polarizzazione dell’attenzione dei singoli sulle proprie faccende, a cui si accompagna una lenta erosione della sicurezza giuridica del singolo, la quale riguarda nell’immediato gli intellettuali, non il «connazionale medio», che si contenta di non farsi notare, di non dare nell’occhio.[79]
Si comprende così che in quest’Europa declinante si è atrofizzata la capacità di sviluppare proprie forme culturali, forze culturale autonome, che i borghesi avevano appreso dagli aristocratici all’inizio della modernità. In un’epoca segnata dalla più ampia diffusione dei beni di consumo, compresi quelli superflui (a cui fa da contraltare il deteriorarsi e l’aumento del costo dei servizi), la cultura – ciò che nei rapporti umani, come nei cibi e nelle bevande, significa «natura raffinata»[80] – «decade [...] a bene culturale, e serve agli individui immediatamente come strumento, sia per la necessaria popolarità, sia per il mantenimento di relazioni, dunque serve, in ultima analisi, per la difesa dalla sciagura privata e professionale».[81] Credo che Horkheimer voglia qui sottolineare ancora una volta che la condizione dell’uomo europeo nell’epoca successiva alla catastrofe del nazionalismo è ancora sotto il segno dell’insicurezza e della regressione (nelle righe conclusive del saggio egli rileva che la sicurezza della vita, nella misura in cui costituisce l’unico senso dell’esistenza, diventa, per tutti, sempre più complicata, e, ciò nonostante, guida il comportamento politico delle masse dei popoli europei[82]). La crescita del consumo rende necessaria anche la produzione intellettuale di mezzi di distruzione e, insieme, mantiene tutti sotto pressione. Così, piuttosto che produrre forme di pensiero e di arte autonome e critiche (nel senso horkheimeriano già rubricato), il sistema induce l’individuo a cercare la medietà, cioè a non dare nell’occhio[83] e nello stesso tempo a esser riconosciuto e accettato nella sua medietà anche per l’uso che fa dei beni culturali. Qui Horkheimer riprende il filo della Dialettica dell’illuminismo. Infatti, nel capitolo sull’industria culturale, con Adorno, scriveva: «Bisogna aver visto La signora Miniver, come bisogna avere in casa le riviste “Life” e “Time”. Tutto viene percepito solo sotto l’aspetto che può servire a qualche cosa d’altro, per quanto vaga possa essere poi l’idea che ci si fa di quell’“altro”. Tutto ha valore solo nella misura in cui si può scambiare, e non in quanto è qualcosa in se stesso».[84]
In sintesi, al progresso materiale non corrisponde uno sviluppo autonomo delle idee, come invece era accaduto nel mondo borghese all’inizio dell’epoca moderna. I ceti borghesi avevano sviluppato idee proprie e dispiegato un proprio mondo nel quale quello vecchio – aristocratico – era contenuto e trasformato. Gli strati sociali che nell’odierna società raggiungono una qualche forma di sicurezza economica non sono in grado di produrre un mondo proprio, che inglobi e trasformi la realtà che hanno ereditato.[85]
Il pensiero libero, là dove fiorisce, è solo, schiacciato tra i partiti e i blocchi di potere, e si atrofizza perché non può innestarsi nel mondo reale.[86] Infatti, chi mette in discussione il discutibile ottimismo che non si lascia tramortire dall’orrore del recente passato – orrore che in molti luoghi continua a essere perpetrato – scatena l’«implacabile rancore» degli indifferenti.[87] Ma il pensiero libero non è altro che, per aggiungere una precisazione che si riannoda a quanto già detto a partire da altri testi horkheimeriani, «il pensiero capace della mediazione», il pensiero che non vuole essere semplicemente mezzo e che perciò disturba il pragmatismo assoluto.[88]
In questo clima ostile al pensiero critico, la cultura diventa «fabbricazione di distrazioni» che mira a rassicurare o a emozionare chi ne fruisce (questo in Occidente; in Oriente, cioè in Unione Sovietica e in Cina, si ha a che fare con prodotti culturali apertamente apologetici). Ma anche dove non è oggetto di persecuzione, la cultura esiste in misura sempre maggiore «come articolo ausiliario della produzione».[89] Anche qui – e nell’insieme di questo testo – le riflessioni di Horkheimer si riannodano a quelle sviluppate nella Dialettica dell’illuminismo e anche a un testo del 1947, Eclisse della ragione, libro nato da un ciclo di lezioni tenute alla Columbia University nel 1944, dove egli denuncia in particolare il fatto che «la strumentalità della cultura di massa serve a rafforzare la pressione della società sull’individuo, precludendogli ogni speranza di preservare la sua individualità, di salvarla dalla disintegrazione».[90] In questo testo, del resto, Horkheimer parla di una tendenza apologetica della cultura nel suo insieme.
In questo clima, la critica della cultura – che «in fondo non ha più un oggetto»[91] – deve eludere il rischio di restaurare, seppure in una forma superiore, l’ideologia romantica, «o, piuttosto, di sostituire insufficientemente il velo di cui la prassi può già fare a meno».[92] Già Adorno aveva messo l’accento sul fatto che l’uso di argomentazioni attinte alla Kulturkritik non deve andare nella direzione della critica reazionaria ma deve essere funzionale a una critica progressista. In Minima moralia, scrive infatti: «Uno dei compiti principali di fronte a cui si trova oggi il pensiero, è quello di impiegare tutti gli argomenti reazionari contro la cultura occidentale, al servizio dell’illuminismo progressivo».[93]
È tuttavia interessante quanto afferma Horkheimer nella parte conclusiva del saggio del 1958:
La critica della cultura, denunciando la cultura come diversione, deve guardarsi dal distogliere l’attenzione dai temi che ancora sono rimasti al pensiero, e cioè dalle differenze stridenti di potere, che nessuno percepisce perché sono manifeste, dalla miseria dietro le mura dei penitenziari e dei manicomi, dalle cause radicalmente materiali che determinano la politica proprio là dove essa pretende di essere particolarmente nobile. La tensione tra la realtà e l’idea, tra l’organizzazione del mondo e il modo in cui esso potrebbe esistere, è così manifesta che la lingua, la quale vorrebbe designarla, sottolinea solo la propria superfluità. Tutti sono smaliziati, eppure tutto è opaco e impenetrabile come non mai. Eppure non è assente il momento illuministico. I cinegiornali, la radio e i giornali, anche se i cronisti possono essere annoverati tra le forze più deste del presente, non possono farci nulla, anzi devono cooperare a che gli uomini oggi abbiano in testa un’immagine, in fondo, così inesatta del mondo come i borghesi ai tempi di Goethe, sebbene la facciata sia illuminata tanto crudamente. Insieme con gli scambi, cresce l’opacità, proprio perché tutto riguarda tutti e ciascuno include nel suo calcolo la dimensione pubblica.[94]
Questo brano fornisce molti spunti. Qui mi limito a cogliere l’idea che la critica della cultura, se vuole costituirsi come forma del pensiero libero, autonomo, del pensiero capace della mediazione, deve in parte superare se stessa e conservarsi in altra forma.[95] È bene denunciare la cultura come diversione – come deviazione, allontanamento, ovvero divertimento, contenuto che deve occupare il tempo libero, con la consapevolezza che la diversione, il svago destinato alle masse è il prodotto di un bisogno suscitato artificialmente dall’industria culturale –, ma occorre anche non distogliere l’attenzione dalle problematiche spinose della società, di cui Horkheimer fornisce qui qualche esempio: la distribuzione ineguale del potere, la condizione degli alienati mentali, il problema della condizione carceraria. In sintesi, la critica della cultura deve controbilanciare il momento della denuncia della cultura ridotta a produzione seriale, a beni culturali, con una negazione che ha di mira contenuti e relazioni precisi della società odierna. Come scrive in Eclisse della ragione, si tratta del «metodo della negazione» quale «denuncia di tutto ciò che mutila l’uomo e ne impedisce il libero sviluppo».[96] Inoltre, in questo brano, Horkheimer sembra anche prendere una leggera distanza dalle posizioni critiche di Adorno verso la radio e il cinema, nella misura in cui riconosce nei cronisti una forza attiva del presente – pur affermando poi che radio e cinegiornali non possono che farsi pura eco, e non voce critica, dell’esistente, quasi che non riuscissero a sviluppare un potenziale critico di cui pure sono dotati. Infine, si nota una riflessione che tocca anche la nostra attualità: nei mezzi di comunicazione di massa coesistono luce e oscurità, illuminazione di facciata e immagine inesatta del mondo; da ciò risulta una generale opacità. E questo perché tutto riguarda tutto o, in termini più contemporanei, perché c’è un flusso abnorme di informazioni che attraversa tutto e tutti e che contribuisce a creare opacità, non apportando «la chiarezza e l’evidenza aggressiva» che Horkheimer evocava all’inizio della sua relazione e che un tempo era frutto del lavoro di filosofi in discordia con il mondo.
[1] Untergang oder Ubergang. 1. Internationaler Kulturkritikerkongress in München, 1958, München, Werk-Verlag E. Banaschewski, 1959.
[2] Cfr. A. Honneth, L’idea originaria di Horkheimer. Il decifit sociologico della teoria critica, in Id., Critica del potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, trad. it. di M. T. Sciacca, Bari, Dedalo, 2002, pp. 55-85: 78. Nella conferenza tenuta nel 1932 presso la Kant-Gesellschaft di Francoforte, dal titolo Storia e psicologia, Horkheimer spiega che le categorie fondamentali per comprendere la storia sono le categorie economiche (e non quelle psicologiche, pur indubbiamente importanti), perché il processo storico si sviluppa alla luce dei diversi modi di svolgimento del processo vitale della società umana (M. Horkheimer, Storia e psicologia, in Id., Teoria critica, 2 voll., trad. it. di G. Backhaus, intr. di A. Bellan, Milano, Mimesis, 2014, vol. I, pp. 10-30: 18). Anche qui Horkheimer mette l’accento sul nesso tra l’attività economica degli uomini e la sfera della cultura: «Anche l’affermazione in essa contenuta, che dal modo in cui si compie il processo vitale di una società, e cioè il suo confronto con la natura, dipende la cultura, anzi, che ogni parte di questa cultura porta il marchio di quei rapporti fondamentali, e che insieme con l’attività economica degli uomini muta anche la loro coscienza, non nega affatto l’iniziativa umana, ma cerca di far luce sulle forme e sulle condizioni della loro attività storica» (ivi, p. 19).
[3] M. Horkheimer, La situazione attuale della filosofia della società e i compiti di un istituto per la ricerca sociale, in Id., Studi sulla filosofia della società. Saggi, discorsi e contributi 1930-1972, con un’appendice su università e studi, a cura e con un saggio introduttivo di A. Bellan, Milano, Mimesis, 2011, pp. 61-76: 72.
[4] Ivi, p. 73.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 61.
[7] Ivi, p. 61-62.
[8] Ivi, p. 62.
[9] A. Honneth, L’idea originaria di Horkheimer, cit., p. 79.
[10] Ivi, p. 80.
[11] M. Horkheimer, Autorità e famiglia, in Id., Teoria critica, vol. I, pp. 271-351: 272-273.
[12] Ivi, p. 275.
[13] Ivi, p. 276.
[14] «Dall’altra parte all’uomo dei nostri giorni, proprio sulla base dei suoi propri problemi, è dato di rilevare delle strutture unitarie, singoli periodi dello sviluppo sociale, ciascuno dei quali imprime il suo marchio peculiare non solo al traffico economico, al diritto, alla politica, all’arte, alla religione e alla filosofia, ma anche agli individui. La differenza tra questi periodi, che si esprime sia nella costituzione psichica degli uomini che nelle loro istituzioni e opere, è considerata una differenza di cultura» (ibidem).
[15] Ibidem.
[16]Ibidem.
[17] Ivi, p. 278.
[18] Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] Ivi, p. 283.
[21] A. Honneth, L’idea originaria di Horkheimer, cit., p. 81.
[22] Ibidem. Per il concetto di «apparato culturale» cfr. M. Horkheimer, Autorità e famiglia, cit., p. 284.
[23] A. Honneth, L’idea originaria di Horkheimer, cit., p. 81.
[24] «[...] nella forma rigida di processi organizzati di apprendimento, che ancorano nella psiche individuale le aspettative comportamentali richieste dall’economia come mete della libido, la cultura si situa dunque tra il sistema di lavoro sociale e il potenziale istintuale plastico dell’uomo» (ibidem).
[25] Ivi, p. 82.
[26] M. Horkheimer, Autorità e famiglia, cit., p. 283.
[27] Ivi, p. 281-282.
[28] Ivi, pp. 291-292.
9] Cfr. a riguardo K. Genel, Autorité et émancipation. Horkheimer et la Théorie critique, Paris, Payot, 2013, p. 318.
[30] M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di R. Solmi, intr. di C. Galli, Torino, Einaudi, 1966, 2010, p. 126.
[31] È quel che sottolinea K. Genel. Cfr. Autorité et émancipation, cit., p. 319.
[32] M. Horkheimer, Autorità e famiglia, cit., p. 323. 326. 330.
[33] Ivi, p. 335.
[34] Ivi, p. 349.
[35] Ivi, p. 332.
[36] Ivi, p. 351.
[37] Ivi, p. 350.
[38] Ivi, p. 351.
[39] Questo avviene in un modo che può apparire singolare. Scrive Horkheimer: «La totalità dei rapporti dell’epoca presente, questo momento generale, era stato rafforzato e consolidato da un momento particolare presente al suo interno, dall’autorità, e questo processo si è svolto essenzialmente nel singolo e concreto, nella famiglia. Essa costituiva la “cellula germinativa” della cultura borghese che era viva in essa al pari dell’autorità. Questa totalità dialettica di universalità, particolarità e singolarità si rivela ora come unità di forze divergenti. Il momento esplosivo della cultura risalta con più evidenza rispetto a quello coesivo» (ivi, pp. 350-351).
[40] M. Horkheimer, Teoria tradizionale e teoria critica, in Teoria critica, cit., vol. II, pp. 135-186: 181.
[41] M. Horkheimer, Arte nuova e cultura di massa, in Teoria critica, cit., vol. II, pp. 305-323: 307.
[42] Ivi, p. 321.
[43] Ivi, pp. 321-322.
[44] È quanto sottolinea David Held nella sua Introduction to Critical Theory. Horkheimer to Habermas, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1980, p. 84.
[45] Cfr. G. Schubert, Unterhaltung in Mahagonny, in A. Eichhorn (ed.), Kurt Weill und Frankreich, Münster, Waxmann, 2014, pp. 187-200: 188.
[46] T. W. Adorno, Ricapitolazione sull’industria culturale, in Id., Parva aestethica, trad. it. di E. Franchetti, Milano-Udine, Mimesis, 2011, pp. 113-120: 113.
[47] Ivi, p. 115.
[48] Cfr. al riguardo K. Genel, Autorité et émancipation, cit., p. 320.
[49] M. Horkheimer -T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., pp. 174-175. Cfr. anche «Elementi di antisemitismo», ivi, pp. 212 sgg.
[50] G. Magnano San Lio, Max Horkheimer: individualità e ragione nelle società di massa, in R. Carbone, L. Scafoglio (a cura di), Genealogie della modernità: prospettive critiche, Napoli, FedOA, 2024, pp. 93-122: 119.
[51] Cfr. E. Traverso, Adorno et les antinomies de l’industrie culturelle, «Communications», 91, n° 2, 2012, pp. 51-63: 51-52.
[52] M. Horkheimer -T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 131.
[53] Ivi, p. 133.
[54] M. Horkheimer, Teoria tradizionale e teoria critica, cit., p. 181.
[55] Ibidem.
[56] M. Horkheimer - W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 213.
[57] Ivi, p. 212.
[58] Ibidem.
[59] Ivi, p. 213.
[60] Cfr. E. Traverso, Adorno et les antinomies de l’industrie culturelle, cit., p. 54.
[61] M. Horkheimer, Philosophie als Kulturkritik, in Burghard Freudenfeld (bearb.), Untergang oder Ubergang. 1. Internationaler Kulturkritikerkongress in München, 1958, München, Werk-Verlag E. Banaschewski, 1959, pp. 9-34.
[62] M. Horkheimer, La filosofia come critica della cultura [1958], in Id., Studi sulla filosofia della società. Saggi, discorsi e contributi 1930-1972, con un’appendice su università e studi, a cura e con un saggio introduttivo di A. Bellan, Milano, Mimesis, pp. 115-137: 115.
[63] Ibidem.
[64] Ivi, p. 116.
[65] Ibidem. (citato da Horkheimer).
[66] Ivi, pp. 116-117.
[67] Ivi, p. 117.
[68] Ibidem.
[69] Ivi, p. 119.
[70] Ivi, pp. 118, 119.
[71] Ivi, pp. 119-120.
[72] Ivi, p. 122.
[73] Ivi, p. 125.
[74] Ivi, p. 127.
[75] Ibidem.
[76] Ibidem.
[77] Ivi, p. 130.
[78] Ivi, pp. 130-131.
[79] Ivi, p. 131.
[80] Ivi, p. 133.
[81] Ivi, p. 134.
[82] Ivi, p. 136.
[83] Come Horkheimer ha scritto qualche pagina prima, cfr. ivi, p. 131.
[84] M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., pp. 170-171.
[85] M. Horkheimer, La filosofia come critica della cultura, cit., p. 134.
[86] Ivi, p. 128.
[87] Ivi, pp. 128-129.
[88] Ivi, pp. 135-136.
[89] Ivi, p. 135.
[90] M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, trad. it. di E. Vaccari Spagnoli, Torino, Einaudi, 1969, p. 137.
[91] M. Horkheimer, La filosofia come critica della cultura, cit., p. 135.
[92] Ivi, p. 136.
[93] T.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, trad. it. di R. Solmi, introd. e nota all’edizione 1994 di L. Ceppa, Torino, Einaudi, 1994 [1954], § 122, pp. 229-230. Nei Minima moralia è interessante prendere in esame anche il seguente aforisma, nella misura in cui pone in luce i limiti di una certa critica della cultura, proprio come fa Horkheimer nel suo testo del 1958 (dove peraltro affronta anche la questione della decadenza della lingua): «Noi constatiamo la decadenza della cultura, ma la nostra prosa, paragonata a quella di Jacob Grimm o di Bachofen, è affine all’industria culturale in cadenze di cui non abbiamo neppure il sospetto. Senza contare che, da tempo, non sappiamo più il latino e il greco come un Wolf o un Kirchhoff» (ivi, § 6, p. 18).
[94] M. Horkheimer, La filosofia come critica della cultura, cit., p. 136.
[95] In Critica della cultura e società, testo del 1949, Adorno, prima di Horkheimer, sembra suggerire l’esigenza di problematizzare la stessa critica della cultura: «In forza della dinamica sociale, la cultura trapassa nella critica della cultura, la quale tien fermo al concetto di cultura, demolendo però le sue manifestazioni attuali in quanto pura merce e strumenti d’istupidimento. Tale coscienza critica resta asservita alla cultura in quanto, occupandosi di essa, distoglie dall’orrore, ma anche la definisce come complemento dell’orrore» (T. W. Adorno, Critica della cultura e società, trad. it. di C. Mainoldi, in Id., Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Introd. di S. Petrucciani, Torino, Einaudi, 2018, pp. 3-21: 13-14).
[96] M. Horkheimer, Eclisse della ragione, cit., p. 160.
DECADENZA , CULTURA , HORKHEIMER
Filosofia
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