La coscienza lacerata. Alcune considerazioni sulla filosofia della cultura

di Renato Pettoello

 

«Unser Vaterland, sofern wir Kultur besitzen, ist Euro
(J. F. Herbart)

 

Nel corso del tempo, i saperi particolari si sono via via emancipati dalla filosofia, raggiungendo piena autonomia e profonda consapevolezza delle specifiche metodologie. Questo processo non riguarda soltanto le scienze in senso stretto, che per prime si sono staccate dal tronco della filosofia, ma riguarda ormai praticamente tutti i saperi particolari, psicologia, antropologia, sociologia ecc., senza contare le nuove sfide rappresentate dalla cibernetica e in particolare dall’intelligenza artificiale generativa. È impensabile che solo la filosofia potesse rimanere sempre uguale a sé stessa. In questa situazione, la filosofia non può più pretendere di essere la scientia scientiarum. Già nel 1813, del resto, nel pieno del fiorire dei grandi sistemi idealisti, che pretendevano appunto di ridare alla filosofia questo ruolo di scienza universale che ingloba in sé i saperi particolari, Herbart scriveva con grande lucidità: «la filosofia, diversamente dalle altre scienze, non possiede un oggetto particolare di cui essa esclusivamente si occupi: la sua peculiarità deve dunque essere cercata nel modo e nella maniera in cui essa tratta di ogni oggetto che le si presenta».[1] Questa frammentazione del sapere, la perdita di un sistema unitario comporta, come dice Windelband, richiamandosi espressamente a Hegel, che la coscienza moderna è una «“coscienza lacerata”».[2] E il merito di aver dato voce per la prima volta in modo pienamente adeguato a questo mutato rapporto tra le diverse attività culturali, egli osserva, spetta innegabilmente alla filosofia kantiana.

Alla filosofia resta, dunque, eminentemente la funzione di metariflessione, cioè di analisi critica di secondo livello dei saperi particolari. La filosofia così intesa, perciò, non può più pretendere di essere una ’scienza’ fondativa, se non in senso molto restrittivo. La filosofia non rinuncia affatto ai suoi compiti tradizionali: presentarsi come sapere fondazionale e ricercare l’unità del sapere, ma il significato di questi compiti è profondamente mutato. La filosofia è sapere fondazionale solo nella misura in cui si occupa degli aspetti più generali, più universali, più fondamentali, appunto, del campo in cui si trova ad operare. Quanto all’istanza dell’unità, si tratta di un principio puramente regolativo. Insomma, la filosofia prende il testimone dai singoli saperi e s’interroga, riflette sugli aspetti più generali di questi saperi. I singoli saperi riflettono sul mondo, la filosofia riflette sugli aspetti fondazionali di tali saperi. In questo modo, non è più compito della filosofia tentare di pervenire a un principio universale da sovrapporre all’essere particolare, accessibile ai saperi particolari. Si tratta, allora, di cercare un sistema totale delle condizioni dei saperi. Lo dice con la consueta chiarezza Ernst Cassirer: «al posto dell’oggetto è qui subentrata l’unità della funzione. A questo scopo la filosofia non ha più bisogno di contendere il loro campo specifico alle scienze particolari, ma può lasciarle del tutto autonome e libere di darsi le proprie leggi. La filosofia non intende infatti limitare o sopprimere queste leggi particolari, ma accoglierle invece tutte insieme in un’unità sistematica da riconoscere come tale»[3]. E gli fa eco Giulio Preti, che, richiamandosi alle parole di Herbart citate qui sopra, osserva: «La filosofia non ha più un oggetto proprio e non fonda mediante quel suo oggetto le varie forme della cultura, le quali si fondano da sé […] In parole più piane, la filosofia ha ora per oggetto la cultura stessa, nelle sue varie forme, conoscitive e no»[4] . La filosofia finisce dunque col coincidere sostanzialmente con la filosofia della cultura. Essa non può che partire dal fatto culturale (comunque vada inteso) e cercare gli strumenti atti a realizzare quell’unità funzionale di cui parlava Cassirer. Non si tratta, naturalmente, di disconoscere le differenze, metodologiche e di contenuto, dei diversi ambiti culturali, ma di riconoscere che appartengono tutti a pieno diritto alla cultura umana. Ancora Cassirer:

i diversi prodotti della cultura spirituale, il linguaggio, la conoscenza scientifica, il mito, l’arte, la religione diventano così, nonostante la loro interna diversità, membri di una unica grande connessione problematica, diventano diversi punti di partenza per giungere ad un unico scopo: trasformare il mondo passivo delle semplici impressioni, nelle quali lo spirito a tutta prima appare rinchiuso, in un mondo della pura espressione spirituale.[5]

Ogni tentativo di ridare vita a una sapientia universalis sembra dunque destinato inesorabilmente al fallimento.

A questo punto, però, si presentano due problemi fondamentali. Da un lato la definizione del concetto di cultura, dall’altro l’individuazione di una metodologia filosofica, atta a fungere da riflessione di secondo grado, rispetto ai saperi particolari. In entrambi i casi, come ha sottolineato con forza Wilhelm Dilthey, non si può prescindere da un’indagine storiografica, in quanto sia la cultura, sia la filosofia, comunque vadano intese, non sono delle idee platoniche, immutabili, ma aspetti storicamente determinati. Ogni dogmatismo va decisamente rigettato.[6]

Si potrebbe dire, scherzosamente, ma non troppo, che cultura, come l’essere, si dice in molti modi. «Nulla», scriveva già Herder, riferendosi al concetto di cultura, «è più vago di questa parola “civiltà [Kultur]” e nulla è più ingannevole della sua applicazione a interi popoli ed epoche».[7] Per comodità e senza alcuna pretesa di completezza, si potrebbero forse enucleare due concetti fondamentali di cultura che non sono necessariamente in contrasto tra loro, ma che non coincidono pienamente. Innanzitutto, vi è la cultura intesa come l’insieme delle manifestazioni più elevate dello spirito umano: l’arte, la scienza, il mito ecc., quali espressioni dell’operare dell’uomo, perché «la principale caratteristica dell’uomo», che lo distingue dagli altri esseri viventi, «non è la sua natura fisica o metafisica bensì la sua opera. È quest’opera, è il sistema delle attività umane a definire e a determinare la sfera della “umanità”».[8] Prendendo atto delle differenze tra queste diverse espressioni dello spirito umano, qualcuno ha sostenuto che non esiste qualcosa come ‘cultura’, ma che esistono soltanto le differenti manifestazioni dell’attività umana. Senza arrivare a questi estremi, è innegabile che ‘cultura’ è un termine generale, una sorta di grandezza immaginaria: «cultura (Kultur), per così dire – scrive Cassirer – non è mai una grandezza reale, bensì una grandezza complessa (a+bi), infatti essa contiene una unità (di senso) immaginaria».[9] Una filosofia della cultura si dovrà sforzare allora di trovare la funzione fondamentale che dia conto di queste diverse attività. E questo sarà possibile soltanto se si guarderà non all’unità delle produzioni, cosa impossibile, perché cancellerebbe le differenze specifiche, ma all’unità del processo creativo.

Vi è poi il concetto di cultura (ma il termine andrebbe declinato al plurale, ‘culture’) come viene inteso dall’antropologia. In questo senso, cultura definisce quei complessi di saperi, credenze, espressioni artistiche, usi e costumi ecc. all’interno di una determinata società o popolazione. Ogni società ha una sua cultura caratteristica, diversa da quella delle altre popolazioni. Se da un lato, i problemi e i valori sono approssimativamente gli stessi per tutti gli uomini, perché come osserva Lévi-Strauss, «tutti gli uomini, senza eccezione, possiedono un linguaggio, delle tecniche, un’arte, delle conoscenze di tipo scientifico, delle credenze religiose, un’organizzazione sociale, economica e politica». Il problema è che «questo dosaggio non è mai esattamente lo stesso per ogni cultura».[10] L’antropologia si propone appunto di superare l’antinomia apparente tra l’unicità della condizione umana e la pluralità inesauribile delle forme con cui si presenta.

Per influsso dell’antropologia e probabilmente ancor più dell’accezione del termine ‘culture’ nel mondo anglosassone, si è imposto un uso estremamente ampio del concetto; così si parla di cultura popolare, di cultura giovanile ecc. In questo senso, ogni e qualsivoglia attività umana viene definita cultura. Sia in questo caso, sia, com’è evidente, nel caso dell’antropologia, l’oggetto delle indagini specifiche riguarda le scienze particolari, antropologia, appunto, sociologia, scienze politiche ecc., non la filosofia, nonostante certe derive anche in ambito filosofico.

Non mi sembra, invece, che valga la pena di ricordare la contrapposizione tra cultura (Kultur) e civiltà (Zivilisation), che per un certo periodo infiammò il dibattito filosofico e ideologico, con evidenti risvolti politici, in Germania, ma non soltanto. A mio avviso, le parole di Günther Anders sono definitive e mettono una pietra tombale sulla questione: «Nulla è più barbaro della distinzione tra cultura [Kultur] e civiltà [Zivilisation]».[11]

Il tema di una filosofia della cultura si presentò con forza tra l’ultimo scorcio del XIX secolo e i primi anni del XX, soprattutto all’interno di quel variegato movimento culturale che viene complessivamente definito Neokantismo. La rivista «Logos», nata nel 1910, ne è in un certo senso il manifesto. Nella presentazione del primo numero si legge, infatti:

La nostra epoca non si trova sotto il dominio di un sistema della filosofia, bensì ha il suo significato piuttosto nella molteplicità e nella precisione del piccolo lavoro filosofico che però, alla fine, può disvelare il suo senso ultimo soltanto in una formazione sistematica. Come preparazione e base in vista di ciò essa necessita di una penetrazione filosofica dei diversi ambiti culturali […] È necessario portare a consapevolezza tutta la ricchezza dei motivi presenti e attivi nei diversi ambiti culturali. Per questo “Logos” si definisce una rivista per la filosofia della cultura [Kultur].[12]

Nel primo dopoguerra, in seguito alla tragedia della Prima Guerra Mondiale e del nuovo assetto politico dell’Europa, il dibattito sulla filosofia della cultura assunse un tono differente. Il sentimento di essere davanti a una profonda crisi della cultura era molto diffuso. Lo definirà in modo icastico, nel 1919, Paul Valéry: «noi, le civiltà, ora sappiamo che siamo mortali».[13] Molte voci si levarono a documentare questa crisi e a cercare d’individuarne le cause, cavalcando quello che era stato definito Kulturpessimismus, talvolta con accenti irrazionali e di denuncia della modernità. Il dibattito sulla filosofia della cultura non si limitò però a registrare questa crisi e a farsene interprete. Tutt’altro. Gli apporti più significativi, come s’è detto, si ebbero all’interno del movimento neokantiano, che, per quanto differenziato al suo interno, avevano, per così dire, come minimo comun denominatore la chiara consapevolezza dell’impossibilità di riproporre una metafisica onnicomprensiva. Alla critica della cultura parteciparono, peraltro, le voci più diverse, dalla sociologia e dal diritto alla teologia, dall’estetica all’antropologia, oltre che alla filosofia, ove si fronteggiavano posizioni diverse, a volte contrastanti. In ambito filosofico, il contributo più significativo, per ampiezza di vedute e consapevolezza teorica si deve, a mio avviso, a Ernst Cassirer.

Com’è noto le prime ricerche di Cassirer furono dedicate prevalentemente, anche se non esclusivamente (si pensi, ad esempio, a Freiheit und Form) a problemi di carattere gnoseologico ed epistemologico. A partire dagli anni 20, egli si dedicò alla creazione di una filosofia della cultura che culminerà nei tre volumi della Filosofia delle forme simboliche. Questo non vuol dire, però, né che il prevalente interesse per le questioni epistemologiche impedisse di guardare anche al di là della scienza e neppure che la fondazione di una filosofia della cultura inducesse Cassirer a trascurare i temi scientifici, ai quali, oltre a numerosi interventi ‘minori’, dedicherà due opere di eccezionale valore come Zur Einsteinschen Relativitätstheorie (1921) e Determinismus und Indeterminismus in der modernen Physik (1937). Senza contare che la terza e ultima parte del terzo volume della Filosofia delle forme simboliche è dedicata a “La funzione significativa e la struttura della conoscenza scientifica”. Non solo, proprio l’ultimo capitolo dello scritto sulla Teoria della Relatività è un vero e proprio manifesto programmatico della futura filosofia delle forme simboliche.[14] La quale, come vedremo subito, «volge il suo sguardo non esclusivamente e non in prima linea alla concezione esatta e puramente scientifica del mondo, ma a tutte le direzioni della comprensione del mondo».[15] La scienza, insomma, «è solo un momento particolare nel sistema delle “forme simboliche”».[16]

L’allargamento dell’indagine critica dai temi più strettamente gnoseologici ed epistemologici alle molteplici espressioni culturali, mito, linguaggio, religione, arte, storia, richiedeva tuttavia che venisse individuato uno strumento nuovo che, pur non rinnegando affatto il funzionalismo delle opere di carattere epistemologico, prima fra tutte Substanzbegriff und Funktionsbegriff (1910), fosse atto a dar conto di questa molteplicità e differenza. Insomma, si trattava di trovare un medium che consentisse di dare conto adeguatamente delle diverse forme culturali, in modo tale che esse mantenessero però il loro carattere specifico. Un termine medio che fosse in grado di abbracciare tutte le forme spirituali. Cassirer individuò questo termine medio nel concetto di forma simbolica. Ciò che distingue l’uomo dagli altri esseri viventi e ne sancisce la libertà è proprio la sua capacità di simbolizzare la realtà. Così, anche se la definizione dell’uomo come animal rationale, conserva la sua validità, «la ragione è un termine poco adeguato se si vuole abbracciare in tutta la loro ricchezza e varietà le forme della vita culturale dell’uomo. Queste forme sono essenzialmente forme simboliche. Invece di definire l’uomo come un animal rationale si dovrebbe dunque definirlo come un animal symbolicum».[17] La filosofia, però, non può limitarsi a garantire l’autonomia delle singole forme simboliche; non può rinunciare a cercare l’unità di queste differenti forme. La filosofia critica non può che concepire l’unità delle differenti forme culturali come un’unità funzionale, non sostanziale. Un’unità, quindi, che non presuppone l’omogeneità dei vari elementi da cui è costituita, ma anzi ammette e persino esige la molteplicità e la diversità delle diverse componenti. Insomma, la filosofia delle forme simboliche può e deve aspirare a quell’unità e universalità che dalla metafisica veniva posta in modo dogmatico. Anche per questo Cassirer rifiuta ogni forma di dualismo, che renderebbe impossibile la ricostituzione dell’unità, non importa che si tratti dell’opposizione tra vita e ideale di Simmel, o la famosa contrapposizione teorizzata da Windelband tra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften, perché, osserva Cassirer, «il pensiero storico e il pensiero scientifico possono venire distinti non per la loro forma logica ma per il loro fine e il loro oggetto».[18] Lo stesso vale, naturalmente, per la contrapposizione tra scienze naturali e scienze del valore postulata da Rickert.

Per motivi di spazio non è possibile soffermarsi, neppure sommariamente sui temi specifici della filosofia delle forme simboliche di Cassirer. Credo però che valga la pena accennare, sia pure brevemente, a due aspetti problematici della teoria. Il primo riguarda il ruolo di Hegel e in particolare della Fenomenologia dello spirito, nella dialettica delle forme simboliche, il secondo riguarda la questione della effettiva adeguatezza del concetto di forma simbolica, così come viene inteso da Cassirer, soprattutto sotto l’influsso di Goethe, quale medium universale.

Kant, osserva Cassirer, ha senz’altro posto le basi per una filosofia della cultura, ma è stato Hegel a compiere un decisivo passo innanzi, consistente nell’aver assunto

lo “spirito” non come un astratto ma come un principio concreto, non come qualcosa che sta al di là e oltre la realtà, ma come un autentico reale, poiché autenticamente attivo, ossia come ciò che non ha altro “senso” ed altro non manifesta che la sua autorealizzazione storica.[19]

In questo modo, Hegel ha dato vita a quella che Cassirer chiama la forma classica della filosofia della cultura. Addirittura, secondo Cassirer, «il punto d’attacco del sistema hegeliano», così com’è espresso nella Fenomenologia, non va cercato «né nella logica né nella storia, ma nella “filosofia della cultura”».[20] Per Hegel, com’è noto, la scienza filosofica abbraccia la totalità delle forme spirituali e tale totalità è raggiungibile soltanto nel passaggio da una forma all’altra. Questa totalità, la verità, infatti per Hegel, non è data fin dall’inizio come compiuta, ma deve essere svolta progressivamente dal pensiero, secondo il suo proprio movimento. Anche la filosofia delle forme simboliche, seguendo l’impostazione hegeliana, «vuole offrire all’individuo la scala che lo conduce dalle formazioni primarie, quali si trovano nel mondo della coscienza “immediata”, al mondo della “conoscenza pura”»,[21] che trova la sua espressione più significativa nella scienza, perché «la scienza corrisponde all’ultima fase dello sviluppo intellettuale dell’uomo e può venire considerata come la conquista più alta e significativa della cultura».[22] L’esplicito richiamo al metodo dialettico della Fenomenologia ha come conseguenza di mettere in discussione l’intero impianto dell’opera, immaginando un passaggio da una forma a un’altra che contrasta con l’idea di fondo di una filosofia delle forme simboliche, secondo la quale nessuna forma culturale si risolve semplicemente nell’altra: «nessuna di queste forme – dichiara Cassirer – si risolve puramente e semplicemente nell’altra o si lascia dedurre dall’altra, ma ciascuna di esse designa un modo determinato di concepire spiritualmente, nel quale e mediante il quale costituisce ad un tempo un aspetto specifico del “reale”».[23] Ma è davvero così? Il mito, ad esempio, sembra che si ‘inveri’ in parte nella scienza in parte nella religione, ecc., scomparendo in quanto tale. Sarà la ‘durezza della realtà’ a costringere Cassirer a fare i conti con gli aberranti miti del XX secolo e a riconoscere la presenza vitale del mito nella vita contemporanea. Ne è testimonianza l’ultima opera di Cassirer, uscita postuma, The Myth of the State (1946).

La seconda questione riguarda l’adeguatezza del concetto di forma simbolica a dar conto di tutte le forme culturali, restando fedele all’impianto funzionalistico, tipico del criticismo. Viene il sospetto che Cassirer finisca col sostenere una sorta di filosofia dell’identità, in cui non è possibile dare un valore ai membri della sintesi all’interno del processo conoscitivo, neppure da un punto di vista metodologico. Tutto è già compiuto, determinato. In Kant l’elemento caratterizzante è proprio il fatto che la sintesi si pone ogni volta come una meta da raggiungere e non come un dato acquisito. L’unificazione della vita spirituale, tentata da Cassirer attraverso il concetto di simbolo, non avviene però tanto per virtù propria del simbolo, quanto perché il rapporto tra universale e particolare, tra forma e materia è un postulato ed essi sono i termini di una relazione intrascendibile, per cui non ha più senso porsi il problema della loro relazione. L’unità di materia e forma, di particolare e universale non viene raggiunta, non viene costruita, ma semplicemente mostrata.

Nonostante questi aspetti problematici, la proposta di Cassirer resta un punto di partenza ineludibile per chi voglia dare vita a una filosofia della cultura.

 

[1] J.F. Herbart, Lehrbuch zur Einleitung in die Philosophie, in Id., Sämtliche Werke, hrsg. von K. Kehrbach und O. Flügel, Aalen, Scientia, 1989, Bd. IV, pp. 29-30.

[2] W. Windelband, Immanuel Kant. Zur Säkularfeier seiner Philosophie (1881), in Id., Präludien. Ausätze und Reden zur Philosphie und ihrer Geschichte, Tübingen, Mohr, 19249, Bd. I, p. 120.

[3] E. Cassirer, Der Gegenstand der Kulturwissenschaft (1942), in Id., Gesammelte Werke, hrsg. von B. Recki, Bd. 24: Aufsätze und kleine Schriften (1941-1946), hrsg. von C. Rosenkranz, Hamburg, Meiner, 2007, pp. 375-376; E. Cassirer, L’oggetto della scienza della cultura, in Id., Sulla logica delle scienze della cultura, a cura di M. Maggi, Firenze, La Nuova Italia, 1979, p. 17.

[4] G. Preti, Introduzione a Filosofia, a cura di G. Preti, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 10-11.

[5] E. Cassirer, Gesammelte Werke, cit. Bd. 11: Die Philosophie der symbolischen Formen. Erster Teil: Die Sprache, hrsg. von C. Rosenkranz, Hamburg, Meiner, 2001, p. 10; E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, a cura di E. Arnaud, Arnaud, vol I: Il linguaggio, Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 13.

[6] In proposito, si veda ad es. G. Magnano San Lio, Per una filosofia dello storicismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017, e Dilthey e la filosofia della cultura, in La filosofia della cultura. Genesi e prospettive, a cura di R. De Biase e G. Morrone, Napoli, Federico II University Press, 2020, pp. 45-71.

[7] J.G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit. Erster Teil, in Id., Sämtliche Werke, hrsg. von B. Suphan, Weidmann, Berlin 1877-1913, Hildesheim, Olms, 1994, Bd. 13, p. 4; J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, a cura di V. Verra, Roma-Bari, Laterza, 19922, p. 4.

[8] E. Cassirer, Gesammelte Werke, cit. Bd. 23: An Essay on Man. An Introduction to a Philosophy of Human Culture, hrsg. von M. Lukay, Hamburg, Meiner, 2006, p. 76; E. Cassirer, Saggio sull’uomo, a cura di C. D’Altavilla, Roma, Armando, 1977, p. 144.

[9] E. Cassirer, Nachgelassene Manuskripte und Texte, hrsg. von J.M. Krois und O. Schwemmer, Bd. 1: Zur Metaphysik der symbolischen Formen, hrsg. von J.M. Krois, Hamburg, Meiner, 1995, p. 245.

[10] C. Lévi-Strauss, Race et histoire, éd. par J. Pouillon, Paris, Gonthier, 1961, p. 50.

[11] G. Anders, Philosophische Stenogramme, München, Beck, 19932, p. 67.

[12] Cfr. «Logos» I (1910), p. I.

[13] P. Valéry, La crise de l’esprit, in Œuvres, Paris, Gallimard, 1957, vol. I, p. 988; Id., La crisi del pensiero, a cura di N. e S. Agosti, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 27.

[14] Cfr. E. Cassirer, Gesammelte Werke, cit., Bd.10: Zur Einsteinschen Relativitätstheorie. Erkenntnistheoretische Betrachtungen, hrsg. von R. Schmücker, Hamburg, Meiner, 2001, pp. 111 e ss.; Id., La teoria della relatività di Einstein, a cura di N. Zippel, prefazione di G. Giorello, Castelvecchi, Roma, 2015, pp. 103 e ss.

[15] E. Cassirer, Gesammelte Werke, cit., Bd. 13: Philosophie der symbolischen Formen. Dritter Teil: Phänomenologie der Erkenntnis, hrsg. von J. Clemens, Hamburg, Meiner, 2002, p. 14; Id., Filosofia delle forme simboliche, cit., vol. 4 (3/1): Fenomenologia della conoscenza. Tomo primo, Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 18

[16] E. Cassirer, Der Gegenstand der Kulturwissenschaft, cit., p. 374; tr. it. cit., p. 16.

[17] Ivi, p. 31; tr. it. cit., p. 81.

[18] Ivi, p. 190; tr. it. cit., p. 298.

[19] E. Cassirer, Grundprobleme del Kulturphilosophie, cit., p. 15; tr. it. cit., pp. 85-86.

[20] Ivi, p. 20; tr. it. cit., p. 90.

[21] E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen. Dritter Teil: Phänomenologie der Erkenntnis, cit., p. ix; tr. it. cit., p. xiii.

[22] E. Cassirer, En Essay on Man, cit., p. 223; tr. it. cit., p. 343.

[23] E. Cassirer, Die Philosophie der symbolischen Formen. Erster Teil: Die Sprache, cit., p. 7; tr. it. cit., p. 10.


Tags

CULTURA , FILOSOFIA DELLA CULTURA , CASSIRER , DILTHEY


Categoria

Filosofia

Scarica il PDF

Siculorum Gymnasium

A Journal for the Humanites

ISSN: 2499-667X

info@siculorum.it