Metodo storico e pratica storiografica: Dilthey su Burckhardt
di Marica Magnano San Lio
Nel 1862 il giovane Dilthey scriveva un’ampia recensione sull’importante opera di Jacob Burckhardt[1] sul Rinascimento[2] pubblicata appena due anni prima e destinata a rappresentare, sebbene non senza ritardi, discussioni e pareri controversi, un punto di riferimento per gli studi su tale importante periodo della storia politica e culturale italiana. Risultano interessanti, proprio perché riferite agli albori della sua attività scientifica, alcune riflessioni che Dilthey svolge in tale breve testo, con particolare riferimento a taluni concetti che egli avrà poi modo di riprendere e di sviluppare, talvolta ponendoli in una posizione di rilievo, nell’ambito della sua successiva elaborazione teorica e storiografica. Tra questi, per esempio, l’idea di “connessione” (Zusammenhang), che poi, variamente declinata, tanta importanza avrà nella struttura teoretica delle Geisteswissenschaften così come rimeditata, per l’appunto, dal filosofo di Biebrich.[3]
Dal punto di vista degli studi storiografici, un punto di svolta era stato certamente rappresentato, per quel che riguardava la conoscenza della situazione politico-culturale dell’Italia, dai lavori di Ranke:[4]
Quando Ranke cominciò a rappresentare, a partire dagli storiografi e dai resoconti diplomatici italiani, gli storici d’Italia, il coinvolgimento degli stati italiani nella politica europea del sedicesimo secolo ed infine i papi, allora l’acume politico di questa nazione e la sua lucida visione della vita individuale e delle vere forze trainanti dell’azione politica vennero posti in una luce completamente nuova. Ranke, con la sua mirabile arte, diede a questi resoconti, per lungo tempo inutilizzati e seppelliti negli archivi, una seconda vita. La politica dei papi e il giudizio penetrante ed arguto degli ambasciatori trovarono piena comprensione, dapprima, nel suo spirito.[5]
Ma, tutto sommato, nonostante l’indubbio rilievo di tali ricerche rankiane, la prospettiva di indagine intorno alla storia italiana rimaneva ancora fortemente legata alla ricostruzione ed all’interesse per un contesto assai più ampio, cioè quello europeo, mentre non ne veniva ancora del tutto colta e messa in evidenza la specificità o, se si vuole, il carattere in qualche modo nazionale, che non a caso era emerso con più spiccata evidenza proprio nel periodo umanistico e rinascimentale del quale Burckhardt doveva così ampiamente occuparsi: «Ancora la fioritura della cultura italiana appariva soltanto come un fermento dello sviluppo culturale più generale: a quel tempo nessuno poteva ancora considerarla come impronta di un carattere nazionale, come preparazione di un’indipendenza politica».[6]
La prima notazione, per dir così, di carattere metodologico che va certamente sottolineata, specie considerando la fase tutto sommato ancora ‘giovanile’ nella quale Dilthey la elaborò (non era neppure trentenne: ma, al di là del dato strettamente anagrafico, l’elemento rilevante è sicuramente costituto dal fatto che ancora la sua speculazione filosofica e storiografica era per gran parte di là da venire), riguarda la considerazione dell’importanza decisiva della prospettiva di osservazione dello storico, considerata il dato di partenza e la base di ogni successiva riflessione. In questo senso, il fatto che Burckhardt potesse rilevare alcuni elementi decisivi nella cultura e nella politica rinascimentali italiane era certamente condizionato e stimolato, in maniera probabilmente determinante, dalla sua appartenenza ad un contesto storico nel quale i grandi rivolgimenti che si andavano profilando, con particolare riferimento alla situazione italiana, potevano essere più facilmente ricollegati ad antiche istanze, per dir così, nazionali:[7]
Anche l’orizzonte dello storico è delimitato e determinato dalla posizione che gli attribuisce la storia contemporanea. Così, gli ultimi avvenimenti dovevano dare all’Italia del quindicesimo e del sedicesimo secolo una luce interamente nuova, almeno per coloro che – come la maggior parte dei nostri storici – vivono nella speranza che l’Italia saprà consolidarsi e un giorno liberarsi anche dall’influenza francese. A questi appartiene anche Burckhardt. Per lui quel periodo che va da Dante fino alla Controriforma rappresenta la fondazione della politica e della letteratura nazionale italiana; il successivo periodo dell’influenza spagnola, per quanto annoveri anch’esso figure brillanti ed elementi influenti, la violenta interruzione di tale sviluppo; il movimento che va dall’irruente intervento della politica napoleonica fino alla fine del secolo scorso, con il relativo e coerente rinnovamento della poesia e della scienza italiane, soltanto la ripresa di quel filo interrotto.[8]
Burckhardt si mostra capace di individuare il carattere nazionale della situazione politico-culturale dell’Italia rinascimentale, ridimensionando in qualche modo anche l’idea di una sua totale riconduzione agli ideali della classicità, che potevano e dovevano essere certamente considerati come un fattore importante per la formazione della cultura italiana ma soltanto nella misura in cui essi vennero di fatto profondamente rimeditati ed assimilati, nell’ambito del Rinascimento italiano, in forme rinnovate:[9]
Egli vede nella cultura del Rinascimento, essenzialmente, una cultura nazionale. Se lo comprendiamo correttamente, egli vuole mostrare, prima di tutto, che questa cultura, per la sua origine come per il suo carattere, è essenzialmente italiana e che l’antichità classica costituisce, nell’ambito della medesima, soltanto il secondo fattore.[10]
Dilthey sottolinea come nell’articolata ed attenta rilettura del Rinascimento italiano da parte di Burckhardt un ruolo di primo piano spettasse all’arte figurativa, che certamente aveva a quel tempo registrato sviluppi fondamentali ed aveva visto susseguirsi, con ritmo considerevole, autori e personalità di primissimo rilievo:[11]
Anche lo studio dell’arte figurativa italiana, la produzione assolutamente più originale di questo Rinascimento, lo doveva spingere verso tale concezione. Perché il presente libro è, nello stesso tempo, la fondazione della storia dell’arte figurativa di quell’epoca.[12]
Ma le notazioni certamente più rilevanti sono quelle che Dilthey, con grande attenzione ma senza alcuna forma di soggezione rispetto all’importante opera in discussione ed al suo autore, rivolge al metodo storico di Burckhardt, che considera come la prima forma, in Germania, di indagine storica di declinazione marcatamente kulturgeschichtlich:[13] «Forse, poi, anche il suo metodo storico, che per ogni storico deve essere di estremo interesse, potrà essere apprezzato meglio. Esso rappresenta, in Germania, la prima coerente realizzazione di una trattazione storico-culturale […]».[14] Qui Dilthey chiarisce un punto molto importante per quel che sarà, in modo via via sempre più compiuto e convinto, la sua specifica declinazione della teoria e della pratica storiografica, vale a dire l’idea di una storia della cultura che certo gli appare per molti aspetti assolutamente fondamentale ma che, però, non deve mai essere snaturata nella forma, che le sarebbe inesorabilmente fatale, della mera acquisizione di informazioni e del semplice assembramento di dati ed elementi del mondo spirituale e dell’epoca ogni volta indagati. Questo perché, ed è questo il dato fondamentale, la storiografia non può fare a meno della connessione (un concetto per lui essenziale e che egli stesso svilupperà in modo complesso ed articolato negli anni successivi), cioè del legame strutturale tra gli eventi che lo storico deve ogni volta (sebbene mai in modo rigido e dogmatico) rintracciare e proporre, se non vuole ridurre a mera cronaca la propria attività di studio e di ricerca. La Kulturgeschichte deve essere intesa in questa prospettiva, vale a dire al di fuori da ogni improbabile e tutto sommato improduttivo modello di mera raccolta e classificazione di quanto risulta a vario titolo attribuibile all’orizzonte spirituale:
Quando viene dissolto l’intreccio temporale e causale dei momenti di un evento sembra di disgregare la storia in atomi, nel migliore dei casi in atomi raggruppati sotto punti di vista generali. Questo è, in realtà, il caso abituale nell’ambito delle cosiddette storie della cultura: esse diventano raccolte di notizie sotto titoli di capitoli generali, come ‘vita di corte’, ‘abbigliamento’, ‘vita domestica’ e simili. Questa maniera non rappresenta, come certi signori si immaginano, l’inizio di una nuova trattazione storica, ma la dissoluzione di tutta la storia. Perché la connessione causale è la sua struttura compatta, senza di questa essa rimane certamente, per quanto riempita di tratti individuali, massa informe.[15]
Qui il riferimento è, nello specifico, alla connessione causale, cioè proprio quella che Dilthey riferirà in modo sempre più marcato alle Naturwissenschaften ed alla quale affiancherà, come cifra specifica delle oramai rifondate Geisteswissenschaften, la connessione dinamica (altro concetto fondamentale nell’economia complessiva della speculazione diltheyana), che assai meglio si presta alle esigenze dello storiografo e dell’umanista in genere. Da questo punto di vista, è certo degno di nota che egli avesse già in mente, fatta salva la necessità del ricorso, per la fondazione di ogni tipo di sapere, alla connessione, una forma ulteriore della stessa, che qui ancora non accenna, però, in modo più specifico:
Perciò quando la storia della cultura dissolve quella connessione originaria essa può soltanto avere l’intenzione di produrne una più profonda. Essa può fare soltanto questo per ricondurre le situazioni alle loro cause nel medesimo modo in cui lo fa la storia politica con gli eventi.[16]
Qui ancora, come si è detto, il riferimento alla connessione rimanda essenzialmente alla sua forma causale, che rimane comunque fondamentale per evitare il dissolversi della Kulturgeschichte entro un orizzonte meramente descrittivo e semplicemente cronachistico:
Burckhardt tiene apertamente in considerazione questo obiettivo. Se si teme di seguire il nesso causale anche attraverso operazioni più astratte, un timore che per l’appunto ci si deve lasciar dietro, se si fa affidamento sulla forma narrativa, non di rado ci si accontenta del raggruppamento estetico di singoli tratti: a colui che procede in profondità interesseranno certamente più di tutto proprio le parti in cui egli si occupa seriamente del metodo della storia della cultura, le altre hanno l’interesse più di un’opera d’arte che di un’opera scientifica. Perché quello si accontenta del raggruppamento, mentre questo spinge verso la ricerca della cause e dei fondamenti.[17]
Tale inequivocabile richiamo alla forma connettiva del sapere storiografico non significa, però, disconoscere la rilevanza di altre forme di trattazione, comunque capaci di dischiudere orizzonti di sicura suggestione:
Ciò non esclude che noi sappiamo sentire ed apprezzare, anche bene, la compiuta formazione della visione che guarda alle cose e agli uomini più eterogenei con la più raffinata sensibilità per la loro peculiarità, così come essa viene fuori proprio in tali parti puramente descrittive. Su questa storia dell’epoca, nel mondo moderno, più bella per l’arte e forse anche – vi è reciproca interazione – per la vita sociale aleggia il profumo della più raffinata cultura estetica e sociale, come si può sentire negli scritti di Kugler, Ranke ed Heyse, soltanto talvolta vi è qualcosa di troppo artistico.[18]
Anche l’aspetto estetico, certamente uno dei punti di forza della rappresentazione burckhardtiana del Rinascimento italiano, ha, dunque, il suo fascino e un indubbio valore, e tuttavia, come Dilthey ribadisce, «ciò che ai nostri occhi conferisce al libro il suo valore non è, però, questo aspetto artistico, ma quello scientifico già ricordato: il tentativo di rappresentare la connessione autentica e rigorosa della multiforme vita di questo periodo».[19]
Il problema, semmai, è che tale connessione strutturale, assolutamente determinante per riannodare in un tessuto connettivo le singole fila delle forme culturali, rimane spesso sullo sfondo e non viene resa con chiarezza, così che il testo burckhardtiano si rivela, sotto questo profilo, di difficile lettura, nel senso che il lettore ha spesso più di qualche perplessità a rintracciarvi le idee ultime dell’autore ed a scorgervi i legami di fondo che egli ha voluto e saputo individuare:
Burckhardt non ha reso per niente facile, per i suoi lettori, comprendere questo aspetto. […] Tutto appare soltanto nel profilo generale, come in lontananza, nulla nella tranquilla e brutale estensione del primo piano. Questo metodo di rendere soltanto il fiore purissimo delle cose risulta faticoso persino per la lettura: la piena comprensione di ciò che lo storiografo pensa riesce quasi impossibile. Così spesso si riprende il libro, si mostrano nuovi punti di vista, seguiti attraverso diversi elementi particolari; persino le idee fondamentali mantengono sempre qualcosa di quella apparente chiarezza e prossimità con cui i monti remoti ingannano il viandante.[20]
Questo modo di procedere rende ad un tempo la complessità dell’ordito dell’opera e, come suo rovescio in qualche modo inevitabile, la difficoltà che esso si renda immediatamente manifesto al lettore, che spesso sembra restare ammaliato e rapito dalla ricchezza e dalla abbondanza della descrizione e finisce per non cogliere il nesso che ne sta in qualche modo a fondamento.
È interessante, però, se non altro come cifra della sicura autonomia intellettuale dell’ancor giovane storico e filosofo, che Dilthey non attribuisca tale difficoltà di lettura soltanto alla complessità strutturale dell’opera ma anche ad una qualche oscillazione di fondo da parte dell’autore, il quale da una parte gli sembra del tutto convinto della centralità della connessione, e dunque dei concetti generali, come cifra del metodo storiografico, ma dall’altra talvolta appare, per così dire, in una qualche misura dubitare della loro effettiva praticabilità:
La più grande difficoltà consiste nella singolare oscillazione della visione storica di Burckhardt tra la riconduzione dei fenomeni a concetti generali e la diffidenza che sempre di nuovo irrompe nei loro confronti. […] Ma i concetti sintetici attraverso i quali egli cerca di esprimere tale significato sono in sé così generali e, nello stesso tempo, da egli stesso così poco chiariti da volatilizzare il fenomeno, invece di fissarlo in una visione chiara.[21]
Qui il rilievo critico di Dilthey, pur nell’apprezzamento generale per il metodo teorizzato ed almeno in parte seguito da Burckhardt, è chiaro ed evidente, laddove egli ritiene che questi abbia spesso omesso di chiarire in modo adeguato taluni concetti generali ai quali, però, ha inteso certamente fare riferimento.
La tesi di fondo del testo burckhardtiano è che «l’uomo moderno nasce dapprima in modo pieno e completo nell’Italia del Rinascimento. È come se lo storiografo disponga di ogni fenomeno di quest’epoca e lo renda comprensibile soltanto quando lo riconduce a tale immagine complessiva che sta sullo sfondo».[22] Si tratta, quindi, di un’idea generale che funge da struttura per l’intero argomentare, anche se, come si è detto, con qualche limite, peraltro esplicitamente dichiarato: «[…] nello stesso tempo Burckhardt è assolutamente diffidente rispetto alla costruzione storico-filosofica, egli le concede di “potere chiaramente dimostrare nel complesso” la necessità degli eventi di ampia portata, ma il “singolo” ovunque le si sottrae».[23] Anche a questo proposito appare sullo sfondo un altro dei grandi temi dello storicismo, non solo diltheyano, vale a dire quello del rapporto, ora inteso soprattutto nella prospettiva gnoseologica, tra universale e particolare: ma anche su questo non posso qui soffermarmi.
Tale idea di fondo alla base dell’opera è sostenuta da Burckhardt a partire da alcuni elementi ritenuti a suo dire tipici dell’uomo italiano del Rinascimento,[24] tra i quali ne spiccano soprattutto due, vale a dire «la formazione completa dell’individualità e, similmente, la relazione obiettiva con la società e con la natura»,[25] che «stanno davanti agli occhi dello storiografo, insieme con il concetto dell’uomo moderno, quasi costantemente nei singoli fenomeni».[26] L’autore, soprattutto per il tramite di questi due elementi ritenuti fondamentali, riconduce con sicura perizia ed abilità il lettore alla tesi di fondo sopra ricordata, esercitando su di lui una sorta di suggestione e di fascinazione (anche a questo proposito si possono intravedere importanti spunti teorici che saranno poi ampiamente sviluppati da Dilthey: basti accennare, per esempio, al Verstehen come metodo storico fondamentale o alla convinzione circa la dimensione non meramente intellettualistica delle scienze umane, e così via), seppur sempre a partire dal rigoroso riferimento a dati e ad elementi concreti:
In questo intero ambito di visioni vi è qualcosa di seducente. Si crede di avvertire il significato di questo periodo in modo completamente diverso quando i singoli fenomeni vengono ricondotti a questo schema composto non in modo intenzionale ma, per così dire, attraverso un percorso psicologico che si ripete, in modo sicuramente infallibile, nell’autore e nel lettore.[27]
Ma, in realtà, se ci si tira fuori da tale condizione, per dir così, di fascinazione psicologica, ci si rende conto che i riferimenti usati da Burckhardt per caratterizzare in modo pregnante e decisivo l’uomo italiano del Rinascimento non sono di fatto così chiari e, soprattutto, esclusivi, se non altro perché possono essere riferiti anche a numerosi altri uomini e contesti tra loro assai eterogenei:
Soltanto quando ci si trae d’impaccio da questo cerchio magico nel quale lo storico risospinge sempre di nuovo attraverso una parola, un’allusione, una locuzione si nota come proprio il significato specifico del periodo non sia fissato in questa proposizione. Perché tutti questi concetti generali si lasciano applicare in modo parimenti eccellente ad analoghi periodi culturali, come l’Atene del dopo Pericle o la Roma dell’epoca di transizione verso l’impero e nel primo periodo dello stesso.[28]
Quest’ultima notazione non poteva che avere, in modo peraltro assolutamente prevedibile, conseguenze assai più ampie e generali, come Dilthey non manca di rilevare:
E se si è dapprima osservato questo, allora alcuni punti ottengono una nuova luce, nella quale viene fuori un particolare scetticismo storico. Ne accenno soltanto due, vale a dire gli atteggiamenti di questo periodo rispetto alla poesia drammatica e alla Riforma. Entrambi indicano limiti precisi di questa forma di cultura. Tali limiti si sono finora ritenuti, sostanzialmente, alla base della medesima.[29]
Dilthey argomenta ampiamente, immediatamente di seguito, tale presunta difficoltà scaturita dalla tesi burckhardtiana, con particolare riferimento ai due punti appena richiamati, sottolineando come l’autore, quando pone «la questione perché l’Italia non abbia avuto alcuno Shakespeare e nessuna Riforma»,[30] si rivolga
forse a ragione, contro la separazione esagerata delle forme di cultura romaniche e germaniche che è recentemente diventata un tipo di moda filosofica, ma nello stesso tempo, tuttavia, ne mette in dubbio i limiti assolutamente reali in un modo che costituisce nuovamente, per l’appunto, una costruzione filosofica arbitraria. Che l’epoca dell’Ariosto non abbia prodotto alcuno Shakespeare perché nel suo sviluppo in una tale direzione sarebbe stata drasticamente frenata dalla Controriforma spagnola o perché la curiosità sarebbe già stata soddisfatta in altre forme ed avrebbe sottratto al teatro la sua semplicità – questo resterà sempre, per il chiaro tatto della visione storica, un dato paradossale.[31]
In definitiva, dunque, secondo Dilthey «questi concetti generali non colgono assolutamente in modo preciso la particolarità delle forme culturali del Rinascimento. E anche nella misura in cui lo fanno, essi hanno assolutamente bisogno di una spiegazione più arguta rispetto a quelle che Burckhardt ha voluto dare, essi non dovevano confondere, invece di chiarire».[32] Si ritorna, dunque, sull’uso in qualche modo equivoco e scarsamente argomentato di alcuni concetti generali che Burckhardt utilizza per dimostrare, soprattutto attraverso le caratteristiche fondamentali sopra ricordate, la sua idea di fondo circa la specificità e la particolarità dell’uomo rinascimentale italiano: i caratteri individuati come pregnanti e specifici di tale uomo rinascimentale italiano possono essere facilmente attribuiti, infatti, anche ad individui appartenuti a contesti storici assai diversi, come Dilthey rimarca in modo del tutto esplicito.[33]
L’uso di alcuni concetti generali da parte di Burckhardt appare a Dilthey, dunque, per certi aspetti improprio ed inadeguato: «Difficilmente Hegel si è preso gioco dei concetti generali in modo così arbitrario come, in alcuni punti, Burckhardt. A dire il vero, in questo gioco Burckhardt vuole soltanto toccare argutamente, come in modo accidentale, le relazioni di questo periodo storico».[34] Ma questo non ne sminuisce, tuttavia, l’importanza dell’intenzione di fondo, vale a dire il tentativo di mostrare la particolarità nazionale, per l’Italia, di quel periodo storico attraverso una fitta rete di relazioni e di dati, indagati con perizia storica comunque certamente degna di nota:
Lo abbiamo già detto: questa intenzione autentica consiste nella dimostrazione, fornita, in modo riuscito ed inconfutabile, a partire da una mirabile ricchezza in ordine alla ricerca dei particolari, che il Rinascimento si è sviluppato in Italia come fenomeno assolutamente spontaneo, a partire dal carattere e dalle relazioni dell’Italia; che l’antichità portò soltanto a maturazione, in modo rapido e potente, tale situazione e la colorò a suo modo. Essa consiste nella rappresentazione dei fondamenti e delle relazioni interne di questo fenomeno spontaneo, che qui per la prima volta viene seguito, con il più fedele senso storico, in tutte le sue diramazioni.[35]
E così, dunque, l’originalità del lavoro, come pure il suo sicuro rilievo scientifico, non vengono certo disconosciuti da Dilthey, dal momento che
esso contiene, fittamente ordinati e connessi, i risultati di studi quanto mai ampi e raffinati. I nostri lettori potranno godere di questo libro, scritto in modo brillante. Chi procede lungo vie tanto personali susciterà sempre contraddizioni e dubbi di varia natura. Ma non può mancare neppure che egli istilli l’interesse più grande ed incrementi veramente la scienza.[36]
La recensione di un importante testo storiografico come quello di Burckhardt è certamente servita, al giovane Dilthey, al di là delle considerazioni più specifiche, per procedere ad un significativo confronto su alcuni grandi temi che egli poi riprenderà e svilupperà ampiamente nel corso della sua importante parabola speculativa: è questo, probabilmente, uno degli elementi di maggiore interesse di questo pur breve testo.
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Nota alla traduzione
La traduzione è stata condotta sulla seconda edizione invariata del testo, dal titolo Die Kultur der Renaissance in Italien, ein Versuch von Jacob Burckhardt, contenuto in Wilhelm Dilthey, Gesammelte Schriften, vol. XI: Vom Aufgang des geschichtlichen Bewußtseins, a cura di E. Weniger, Stuttgart, Teubner, 1960, pp. 70-76.
Il testo originale apparve anonimo in «Berliner Allgemeine Zeitung», Nr. 420, del 10.9.1862, pp. 1-2.
La cultura del Rinascimento in Italia, un saggio di Jacob Burckhardt[37]
di Wilhelm Dilthey
Quando Ranke cominciò a rappresentare, a partire dagli storiografi e dai resoconti diplomatici italiani, gli storici d’Italia, il coinvolgimento degli stati italiani nella politica europea del sedicesimo secolo ed infine i papi, allora l’acume politico di questa nazione e la sua lucida visione della vita individuale e delle vere forze trainanti dell’azione politica vennero posti in una luce completamente nuova. Ranke, con la sua mirabile arte, diede a questi resoconti, per lungo tempo inutilizzati e seppelliti negli archivi, una seconda vita. La politica dei papi e il giudizio penetrante ed arguto degli ambasciatori trovarono piena comprensione, dapprima, nel suo spirito. Nel frattempo il suo interesse fu essenzialmente orientato all’ascesa della potenza spagnolo-asburgica: perciò dapprima egli seguì, dandone una rappresentazione esauriente, la storia interna dell’Italia a partire dalla Controriforma ad essa legata. Ancora la fioritura della cultura italiana appariva soltanto come un fermento dello sviluppo culturale più generale: a quel tempo nessuno poteva ancora considerarla come impronta di un carattere nazionale, come preparazione di un’indipendenza politica. Certamente sembrava, per così dire, di dovere annoverare l’Italia tra i pensionati del bilancio pubblico europeo.
Anche l’orizzonte dello storico è delimitato e determinato dalla posizione che gli attribuisce la storia contemporanea. Così, gli ultimi avvenimenti dovevano dare all’Italia del quindicesimo e del sedicesimo secolo una luce interamente nuova, almeno per coloro che – come la maggior parte dei nostri storici – vivono nella speranza che l’Italia saprà consolidarsi e un giorno liberarsi anche dall’influenza francese. A questi appartiene anche Burckhardt. Per lui quel periodo che va da Dante fino alla Controriforma rappresenta la fondazione della politica e della letteratura nazionale italiana; il successivo periodo dell’influenza spagnola, per quanto annoveri anch’esso figure brillanti ed elementi influenti, la violenta interruzione di tale sviluppo; il movimento che va dall’irruente intervento della politica napoleonica fino alla fine del secolo scorso, con il relativo e coerente rinnovamento della poesia e della scienza italiane, soltanto la ripresa di quel filo interrotto.
Questo radicale cambiamento del modo di argomentare diviene palese quando si confronta con il presente libro la Wiederbelebung der klassischen Altertums di Voigt, che uscì nel gennaio del 1859. Del resto, proprio perché entrambe queste rappresentazioni si incontrano su molte idee essenziali, il contrasto diventa tanto più evidente. Il punto di vista generale del libro di Voigt a proposito di questo movimento rimanda, fin dal principio, ad una propulsiva ripresa dell’antichità, così esso conclude con la “propaganda dell’umanesimo al di là delle Alpi”. Il valore duraturo, per l’Italia, di questo movimento non viene sfiorato neppure con un’occhiata di traverso.
Per far questo vi è, innanzi tutto, Burckhardt. Egli vede nella cultura del Rinascimento, essenzialmente, una cultura nazionale. Se lo comprendiamo correttamente, egli vuole mostrare, prima di tutto, che questa cultura, per la sua origine come per il suo carattere, è essenzialmente italiana e che l’antichità classica costituisce, nell’ambito della medesima, soltanto il secondo fattore.
Anche lo studio dell’arte figurativa italiana, la produzione assolutamente più originale di questo Rinascimento, lo doveva spingere verso tale concezione. Perché il presente libro è, nello stesso tempo, la fondazione della storia dell’arte figurativa di quell’epoca. Se Kugler, ancora così poco apprezzato per le sue intenzioni più profonde, ha abbozzato il grande progetto “di delineare le caratteristiche delle nazioni venute fuori, decadute ed ancora rifiorite secondo la loro forza creativa in tutti gli ambiti dell’arte”, allora si può sperare che per lo meno questa parte di quell’imponente progetto verrà degnamente realizzata, nel suo spirito e secondo la sua intenzione, dal suo amico. Heyse poteva di recente dedicargli il suo elegante canzoniere italiano, stimolato dal rapporto con Kugler, come a colui “che ha assunto tale così importante eredità spirituale del nostro amico”. Soltanto quando sarà apparsa questa rappresentazione dell’arte figurativa di quell’epoca si potrà abbracciare pienamente con lo sguardo l’intera interpretazione burckhardtiana del periodo.
Forse, poi, anche il suo metodo storico, che per ogni storico deve essere di estremo interesse, potrà essere apprezzato meglio. Esso rappresenta, in Germania, la prima coerente realizzazione di una trattazione storico-culturale, se si eccettua, forse, la rappresentazione della più antica cultura tedesca ad opera di Rückert. Supposto che l’essenza di questa trattazione sia costituita dal fatto che essa dappertutto sostituisce ai singoli eventi lo stato di fatto, allora salta agli occhi quale sia il grande rischio di tale cambiamento. Quando viene dissolto l’intreccio temporale e causale dei momenti di un evento sembra di disgregare la storia in atomi, nel migliore dei casi in atomi raggruppati sotto punti di vista generali. Questo è, in realtà, il caso abituale nell’ambito delle cosiddette storie della cultura: esse diventano raccolte di notizie sotto titoli di capitoli generali, come ‘vita di corte’, ‘abbigliamento’, ‘vita domestica’ e simili. Questa maniera non rappresenta, come certi signori si immaginano, l’inizio di una nuova trattazione storica, ma la dissoluzione di tutta la storia. Perché la connessione causale è la sua struttura compatta, senza di questa essa rimane certamente, per quanto riempita di tratti individuali, massa informe. Perciò quando la storia della cultura dissolve quella connessione originaria essa può soltanto avere l’intenzione di produrne una più profonda.
Essa può fare soltanto questo per ricondurre le situazioni alle loro cause nel medesimo modo in cui lo fa la storia politica con gli eventi.
Burckhardt tiene apertamente in considerazione questo obiettivo. Se si teme di seguire il nesso causale anche attraverso operazioni più astratte, un timore che per l’appunto ci si deve lasciar dietro, se si fa affidamento sulla forma narrativa, non di rado ci si accontenta del raggruppamento estetico di singoli tratti: a colui che procede in profondità interesseranno certamente più di tutto proprio le parti in cui egli si occupa seriamente del metodo della storia della cultura, le altre hanno l’interesse più di un’opera d’arte che di un’opera scientifica. Perché quello si accontenta del raggruppamento, mentre questo spinge verso la ricerca della cause e dei fondamenti. Ciò non esclude che noi sappiamo sentire ed apprezzare, anche bene, la compiuta formazione della visione che guarda alle cose e agli uomini più eterogenei con la più raffinata sensibilità per la loro peculiarità, così come essa viene fuori proprio in tali parti puramente descrittive. Su questa storia dell’epoca, nel mondo moderno, più bella per l’arte e forse anche – vi è reciproca interazione – per la vita sociale aleggia il profumo della più raffinata cultura estetica e sociale, come si può sentire negli scritti di Kugler, Ranke ed Heyse, soltanto talvolta vi è qualcosa di troppo artistico. Dovunque si avverte lo sguardo sensibile, artistico, appagato dalle visioni di quel supremo periodo dell’arte moderna, dappertutto il modo di parlare di una formazione estetica compiuta, forse fin troppo sublimata, e talvolta la manifesta espressione, che irrompe attraverso l’obiettività artistica, di una maniera di pensare libera da pregiudizi e di profonda sensibilità.
Ma ciò che ai nostri occhi conferisce al libro il suo valore non è, però, questo aspetto artistico, ma quello scientifico già ricordato: il tentativo di rappresentare la connessione autentica e rigorosa della multiforme vita di questo periodo. Burckhardt non ha reso per niente facile, per i suoi lettori, comprendere questo aspetto. Per non oltrepassare la misura di una totalità chiaramente dominante, muovendo da un tipo di istanza artistica, egli ha raggiunto, dove non superato, il limite estremo della rappresentazione che tratteggia e connette. Tutto appare soltanto nel profilo generale, come in lontananza, nulla nella tranquilla e brutale estensione del primo piano. Questo metodo di rendere soltanto il fiore purissimo delle cose risulta faticoso persino per la lettura: la piena comprensione di ciò che lo storiografo pensa riesce quasi impossibile. Così spesso si riprende il libro, si mostrano nuovi punti di vista, seguiti attraverso diversi elementi particolari; persino le idee fondamentali mantengono sempre qualcosa di quella apparente chiarezza e prossimità con cui i monti remoti ingannano il viandante.
La più grande difficoltà consiste nella singolare oscillazione della visione storica di Burckhardt tra la riconduzione dei fenomeni a concetti generali e la diffidenza che sempre di nuovo irrompe nei loro confronti. Per il profondo spirito contemplativo di questo storico è decisivo il bisogno di comprendere il significato interiore di questo periodo del Rinascimento in connessione con la cultura occidentale. Ma i concetti sintetici attraverso i quali egli cerca di esprimere tale significato sono in sé così generali e, nello stesso tempo, da egli stesso così poco chiariti da volatilizzare il fenomeno, invece di fissarlo in una visione chiara. L’uomo moderno nasce dapprima in modo pieno e completo nell’Italia del Rinascimento. È come se lo storiografo disponga di ogni fenomeno di quest’epoca e lo renda comprensibile soltanto quando lo riconduce a tale immagine complessiva che sta sullo sfondo. Non si può dire che in ciò consista l’idea fondamentale del suo libro; nello stesso tempo Burckhardt è assolutamente diffidente rispetto alla costruzione storico-filosofica, egli le concede di “potere chiaramente dimostrare nel complesso” la necessità degli eventi di ampia portata, ma il “singolo” ovunque le si sottrae. Ma dappertutto tale immagine, come una sorta di schema, lascia vedere attraverso la caratteristica dei singoli fenomeni. Come è messa insieme! Fenomeni di diverso tipo vengono posti in un’indefinita connessione con essa; come si intrecciano, essi dapprima danno allo schema un determinato contenuto. L’uomo moderno si manifesta, nell’Italia del Rinascimento, attraverso la formazione completa dell’individualità, la relazione obiettiva con la società e con la natura, l’universalità, lo sviluppo di una vita privata autonoma, la nascita della società come sfera neutrale che livella le classi, l’elevazione del personale senso dell’onore in luogo dell’eticità obiettiva. Tra queste ed altre simili caratteristiche emergono ora, in modo assolutamente più marcato, entrambe le prime; la formazione completa dell’individualità e, similmente, la relazione obiettiva con la società e con la natura, che è affine, stanno davanti agli occhi dello storiografo, insieme con il concetto dell’uomo moderno, quasi costantemente nei singoli fenomeni. In questo intero ambito di visioni vi è qualcosa di seducente. Si crede di avvertire il significato di questo periodo in modo completamente diverso quando i singoli fenomeni vengono ricondotti a questo schema composto non in modo intenzionale ma, per così dire, attraverso un percorso psicologico che si ripete, in modo sicuramente infallibile, nell’autore e nel lettore. Soltanto quando ci si trae d’impaccio da questo cerchio magico nel quale lo storico risospinge sempre di nuovo attraverso una parola, un’allusione, una locuzione si nota come proprio il significato specifico del periodo non sia fissato in questa proposizione. Perché tutti questi concetti generali si lasciano applicare in modo parimenti eccellente ad analoghi periodi culturali, come l’Atene del dopo Pericle o la Roma dell’epoca di transizione verso l’impero e nel primo periodo dello stesso. E se si è dapprima osservato questo, allora alcuni punti ottengono una nuova luce, nella quale viene fuori un particolare scetticismo storico. Ne accenno soltanto due, vale a dire gli atteggiamenti di questo periodo rispetto alla poesia drammatica e alla Riforma. Entrambi indicano limiti precisi di questa forma di cultura. Tali limiti si sono finora ritenuti, sostanzialmente, alla base della medesima. Non ci si è impelagati in congetture su cosa sia questa connessione interna; ma è, per così dire, il tatto immediato della visione storica a reputare come essenziali, cioè fondati nella natura interna della medesima, i tratti così radicali che separano questa forma di cultura da quelle dell’Inghilterra e della Germania. Burckhardt nega più o meno apertamente questo in rapporto al primo fenomeno e lo riconosce per il secondo soltanto con quattro tipi di riserve scettiche. Ci sbagliamo? Ma ci sembra guidarlo, in entrambi i casi, il fatto che il suo concetto di formazione completa dell’individualità richieda, in realtà, anche fenomeni di questo tipo. Quando dà rilievo a questo concetto e solleva, in connessione con questo, la questione perché l’Italia non abbia avuto alcuno Shakespeare e nessuna Riforma, egli si rivolge, forse a ragione, contro la separazione esagerata delle forme di cultura romaniche e germaniche che è recentemente diventata un tipo di moda filosofica, ma nello stesso tempo, tuttavia, ne mette in dubbio i limiti assolutamente reali in un modo che costituisce nuovamente, per l’appunto, una costruzione filosofica arbitraria. Che l’epoca dell’Ariosto non abbia prodotto alcuno Shakespeare perché nel suo sviluppo in una tale direzione sarebbe stata drasticamente frenata dalla Controriforma spagnola o perché la curiosità sarebbe già stata soddisfatta in altre forme ed avrebbe sottratto al teatro la sua semplicità – questo resterà sempre, per il chiaro tatto della visione storica, un dato paradossale.
Per ricapitolare: questi concetti generali non colgono assolutamente in modo preciso la particolarità delle forme culturali del Rinascimento. E anche nella misura in cui lo fanno, essi hanno assolutamente bisogno di una spiegazione più arguta rispetto a quelle che Burckhardt ha voluto dare, essi non dovevano confondere, invece di chiarire. O non significa in qualche modo confondere, quando, trattando di Benvenuto Cellini, viene fatta l’allusione che segue circa il concetto di uomo moderno? “Benvenuto è un uomo che può tutto, osa tutto ed ha in se stesso la propria misura. Che lo sentiamo volentieri o meno, in questa figura vive un modello assolutamente riconoscibile di uomo moderno”. Si è detto parimenti dei sofisti; si può sostenere lo stesso a proposito di qualche audace signore del Medioevo; di contro, noi tedeschi, per lo meno nel periodo di Kant e in quello odierno, “che lo sentiamo volentieri o meno”, siamo in questo senso sicuramente molto meno moderni che, per esempio, Alcibiade o gli avventurieri dell’ultimo periodo repubblicano di Roma, come Silla e Curio, o uno qualunque dei capi tedeschi dei lanzichenecchi. Difficilmente Hegel si è preso gioco dei concetti generali in modo così arbitrario come, in alcuni punti, Burckhardt. A dire il vero, in questo gioco Burckhardt vuole soltanto toccare argutamente, come in modo accidentale, le relazioni di questo periodo storico. Ma sembra quasi come se tale gioco avesse ottenuto su di lui una forza, e i lettori più inesperti scorgeranno sicuramente qui l’intenzione autentica del suo lavoro. Questo stesso nel frattempo gli sfuggirà.
Lo abbiamo già detto: questa intenzione autentica consiste nella dimostrazione, fornita, in modo riuscito ed inconfutabile, a partire da una mirabile ricchezza in ordine alla ricerca dei particolari, che il Rinascimento si è sviluppato in Italia come fenomeno assolutamente spontaneo, a partire dal carattere e dalle relazioni dell’Italia; che l’antichità portò soltanto a maturazione, in modo rapido e potente, tale situazione e la colorò a suo modo. Essa consiste nella rappresentazione dei fondamenti e delle relazioni interne di questo fenomeno spontaneo, che qui per la prima volta viene seguito, con il più fedele senso storico, in tutte le sue diramazioni.
Noi volevamo guardare al modo in cui viene qui mostrata, nel carattere degli stati italiani, la radice del modo di sentire del Rinascimento, come questa viene seguita nel suo influsso sulla scienza e sull’arte, così come sulla vita privata, come vengono dimostrati lo stimolo e la coloritura che l’antichità diede a tutto questo: così dovevamo rendere il libro. Perché esso contiene, fittamente ordinati e connessi, i risultati di studi quanto mai ampi e raffinati. I nostri lettori potranno godere di questo libro, scritto in modo brillante. Chi procede lungo vie tanto personali susciterà sempre contraddizioni e dubbi di varia natura. Ma non può mancare neppure che egli istilli l’interesse più grande ed incrementi veramente la scienza.
(traduzione italiana di Marica Magnano San Lio)
[1] In questa sede non posso ovviamente soffermarmi sulla figura e l’opera di Burckhardt, che rimangono estremamente complesse, interessanti e capaci di suscitare, nel corso del tempo, dibattiti e prese di posizione di diversa natura. Mi limito a segnalare un solo titolo bibliografico, riferendosi al quale si può però ricavare un’idea assai approfondita e convincente della biografia intellettuale dello storico svizzero, del suo profilo bibliografico e del dibattito storiografico che lo ha riguardato: si tratta di M. Ghelardi, Le stanchezze della modernità. Una biografia intellettuale di Jacob Burckhardt, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016.
[2] Si tratta di Die Cultur der Renaissance in Italien, Basilea, Schweighauser, 1860. Di tale opera si sono succedute diverse traduzioni ed edizioni italiane, facilmente reperibili, a partire da quella a cura di D. Valbusa (La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, Sansoni, 1876), poi variamente rivista ed integrata. Non va taciuto che l’opera, nonostante l’indubbio spessore, non riscosse all’inizio grande successo, vendendo soltanto poche centinaia di copie, per essere poi più ampiamente apprezzata soltanto dopo un certo tempo. Lo scritto diltheyano cui qui faccio riferimento è: Die Kultur der Renaissance in Italien, ein Versuch von Jacob Burckhardt, originariamente apparso, in forma anonima, nella Berliner Allgemeine Zeitung, del 10.9.1862, n. 420, pp. 1-2, ora in Id., Gesammelte Schriften, vol. XI: Vom Aufgang des geschichtlichen Bewußtseins, a cura di E. Weniger, Stuttgart, Teubner, 19602, pp. 70-76.
[3] Evito qui di tornare, anche soltanto per cenni, sull’opera di Dilthey nel suo complesso, data anche la diffusione, e dunque la facile reperibilità, della relativa bibliografia primaria e secondaria.
[4] Non è inutile ricordare che lo stesso Burckhardt aveva frequentato, a Berlino, le lezioni di Ranke, maturando sempre più l’idea di un metodo storico basato sull’analisi critica delle fonti, sebbene poi la metodologia da egli stesso adottata dovesse conseguire forma nuova ed autonoma.
[5] W. Dilthey, Die Kultur der Renaissance in Italien, ein Versuch von Jacob Burckhardt, cit., p. 70.
[6] Ibidem.
[7] Burckhardt aveva soggiornato in Italia per un biennio, a partire dal 1846, maturando definitivamente soprattutto l’interesse per la cultura rinascimentale che successivamente diede origine, tra l’altro, al lavoro di cui qui si tratta.
[8] W. Dilthey, Die Kultur der Renaissance in Italien, ein Versuch von Jacob Burckhardt, cit., pp. 70-71.
[9] Uno dei punti dell’opera più dibattuti e controversi fu certamente il rapporto del Rinascimento con il periodo medievale, rapporto che Burckhardt vedeva in termini di deciso distacco ma che altri leggevano, invece, in termini di sostanziale continuità
[10] W. Dilthey, Die Kultur der Renaissance in Italien, ein Versuch von Jacob Burckhardt, cit., p. 71.
[11] Non va dimenticato che la storia dell’arte, oltre che un preciso interesse di studio, rappresentò per Burckhardt un punto di attenzione e una passione fondamentali: ad essa affiancò, senza mai abbandonarla, quella per la storiografia. A Berlino, infatti, egli si mantenne sempre in contatto con diversi importanti storici e critici d’arte, con i quali ebbe una certa consuetudine anche grazie alla frequentazione della casa di Franz Kugler, sicuro punto di riferimento in tale ambito, con il quale egli stesso collaborò e che riponeva in lui più che qualche speranza in ordine alla prosecuzione di alcuni suoi importanti progetti storico-artistici.
[12] W. Dilthey, Die Kultur der Renaissance in Italien, ein Versuch von Jacob Burckhardt, cit., p. 71.
[13] Come è noto, Burckhardt, restandogli sostanzialmente estranee le prospettive idealistiche e storicistiche, allora di grande eco anche nel mondo accademico (rispetto al quale egli rimase per lo più ai margini: una valutazione più diffusamente positiva della sua opera si avrà solo più tardi, soprattutto a partire dal periodo compreso tra le due guerre mondiali), si dedicò alla Kulturgeschichte, che egli intendeva come vera e propria analisi della civiltà, all’interno della quale grande rilevanza era attribuita all’arte. Sarebbe certo interessante (ma qui assolutamente impraticabile: spero di dirne altrove) guardare alla specificità del metodo storicistico rispetto a quello burckhardtiano, cosa che peraltro costituisce, seppur in modo per certi versi ancora generico, lo sfondo di questo lavoro giovanile diltheyano.
[14] W. Dilthey, Die Kultur der Renaissance in Italien, ein Versuch von Jacob Burckhardt, cit., p. 71.
[15] Ivi, p. 72.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem.
[18] Ibidem.
[19] Ivi, p. 73.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem.
[22] Ibidem.
[23] Ibidem.
[24] Ivi, pp. 73-74.
[25] Ivi, p. 74.
[26] Ibidem.
[27] Ibidem.
[28] Ibidem.
[29] Ibidem.
[30] Ibidem.
[31] Ivi, pp. 74-75.
[32] Ivi, p. 75.
[33] Ibidem.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem.
[36] Ivi, p. 76.
[37] Jacob Burckhardt, Die Cultur der Renaissance in Italien, Basel, 1860.
METODO STORICO , STORIOGRAFIA , CULTURA , DILTHEY , BURCKHARDT
Filosofia
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