Adrian Leverkühn e la cerchia Kridwẞ nel «Doctor Faustus» di Thomas Mann. Con uno sguardo alla «grandezza»
di Domenico Conte
I.
Nel Doctor Faustus (1947) di Thomas Mann c’è un capitolo, il trantaquattresimo, che vi assume – già solo per motivi di composizione e per così dire “strutturali” – una posizione particolare. Questo capitolo è infatti l’unico, nell’intera opera, a essere diviso in parti (per la precisione in tre parti).[1]
Nella prima e nella terza parte Serenus Zeitblom ricostruisce la genesi e il significato del capolavoro immortale di Adrian Leverkühn, l’Apokalypsis cum figuris. Nella seconda parte vengono invece illustrate le discussioni che, a partire dalle 9 di sera, si svolgevano con una certa regolarità in un appartamento della Martiusstraße di Schwabing, il pittoresco quartiere di Monaco. A riunirsi era un determinato gruppo di rappresentanti apparentemente distinti della vita culturale della capitale bavarese. Il nome dell’anfitrione e padrone di casa è Sixtus Kridwiß.
Già nelle prime pagine del capitolo in questione Thomas Mann fa sorprendentemente osservare all’io narrante del romanzo, Serenus Zeitblom, l’umanista al tramonto, che l’Apokalypsis cum figuris «non mancava di certi audaci e profetici rapporti con quelle discussioni, anzi le confermava e incarnava su un piano più alto e più creativo».[2]
Nella Genesi del «Doctor Faustus» (1949), il «romanzo di un romanzo» in cui lo scrittore lubecchese ricostruisce come in un diario monografico la storia del capolavoro della sua vecchiaia, questo nesso viene sottolineato ancora con più forza: mi era chiaro – scrive in questa circostanza Thomas Mann – che la descrizione dell’oratorio apocalittico di Leverkühn poteva essere realizzata
solo in una serie di tre capitoli, poiché avevo già stabilito di intrecciare l’analisi di quell’ultima tremenda opera con la descrizione delle inquietanti e affini esperienze che l’epoca aveva imposto al buon Serenus (le conversazioni ultrafasciste nella cerchia di Kridwiss).[3]
L’impolitico Adrian viene dunque collegato direttamente al fascismo. Si tratta di un’importante traccia ermeneutica, che trova una sua conferma laconica e suggestiva in un appunto diaristico del giugno 1946 (Thomas Mann viveva già da alcuni anni in California, a Pacific Palisades, non lontano da Hollywood): «Per il tè Adorno, che ha perduto il padre. Preso nota di passi da eliminare. Fascismo di Adrian».[4]
II.
Chi sono i rappresentanti della cerchia Kridwiß e quali argomenti discutono? Trattando il Kridwiß-Kreis Thomas Mann si basa sulla sua celebre tecnica del «montaggio» (Montage Technik). Sixtus Kridwiß reca i tratti di Emil Preetorius, il ben noto disegnatore, grafico, scenografo e collezionista con cui Mann era stato in rapporti amichevoli. Nel corso del tempo il rapporto si era però allentato per motivi politici.
«Caro Pree» («Pree» sta per Preetorius): così, confidenzialmente, cominciano molte delle lettere scritte da Mann. Con «caro Pree» comincia anche la lettera dell’aprile 1948 con la quale Mann cerca di schermirsi minimizzando, nel caso della cerchia-Kridwiß, l’utilizzazione della tecnica del montaggio. Ma si trattava di lacrime di coccodrillo, come anche in altri casi (quello forse più conosciuto riguarda l’utilizzazione di Gerhard Hauptmann come modello per la figura di Mynheer Peeperkorn nella Montagna incantata):
Caro Pree, naturalmente è stata una vera indegnità mandarLe le trascrizioni di quei singoli passi, cosicché Lei li dovette leggere nudi e crudi, isolati dal contesto, senza l’illuminazione che viene loro dall’insieme dell’opera. Non potevano inviarle tutto il libro? Avrei dovuto farlo io stesso da un pezzo, ma esito sempre a spedir libri in Germania, perché in genere ci mettono mesi ad arrivare, se addirittura non li rubano. Le esperienze di Serenus Zeitblom in casa «Sua» (Kridwiß è un personaggio marginale, più che disegnato, appena sommariamente abbozzato, e risulta così poco riconoscibile che un tale di Monaco mi domandò se volevo alludere a Wolfskehl, immagino perché ha la pronuncia di Darmstadt) si svolgono parallele alla genesi dell’opera più inquietante dell’amico di lui, un’Apocalypsis cum figuris, e atterriscono quell’anima candida allo stesso modo. Discussioni come quelle cui egli assiste non hanno mai avuto luogo da Lei, e nel descrivere i presenti ho riecheggiato la realtà in maniera così vaga e imprecisa, che nulla corrisponde a puntino, tranne Nadler, che però non era presente, per cui ogni ricerca della “chiave” non porta a nessun risultato. Non c’erano, da Lei, né un Breisacher né un Bullinger né un zur Höhe: quest’ultimo, del resto, appare già tale e quale in una mia antichissima novella intitolata Dal profeta.[5]
Quali idee, quali immagini propagano i rappresentanti della cerchia Kridwiß? L’appena citato poeta Daniel zur Höhe (una figura ricalcata su quella di Ludwig Derleth) ha scritto un’unica opera, le Proclamazioni. Queste proclamazioni gli sarebbero state dettate da un’entità chiamata Christus imperator maximus, un’«energia comandante» che «arruolava truppe pronte alla morte per la conquista dell’orbe terraqueo». «Soldati!» – così terminava il poema – «vi affido il saccheggio… del mondo intero!».[6]
Da Kridwiß compare anche Egon Unruhe, il «paleozoologo filosofo» (i tratti sono in questo caso quelli di Edgar Dacqué). Nel Doctor Faustus, Unruhe-Dacqué non fa una bella figura: nella sua dottrina, una sorta di «darwinismo sublimato», «diventava vero e reale tutto ciò che l’umanità evoluta aveva da un pezzo cessato di credere seriamente»[7]. Ma in altri scritti manniani il giudizio su Dacqué è molto più positivo: così ad esempio nel grande saggio freudiano del 1929 (La posizione di Freud nella storia dello spirito moderno), dove Dacqué viene presentato come uno dei più significativi rappresentanti della «nuova scienza».[8]
Dacqué era importante per lo scrittore lubecchese perché anche attraverso di lui Mann si munì degli strumenti per aprirsi l’accesso allo «Ur», al mondo primordiale delle religioni antiche, dei miti, delle prime apparizioni della vita sul pianeta Terra. L’influsso di Dacqué è evidente nel grande Prologo della tetralogia biblica, la Discesa agli inferi (Höllenfahrt). Gli uomini che incontriamo nelle ultime, indimenticabili pagine di questo testo straordinario, irto di difficoltà e tuttavia suggestivo al massimo grado, quegli uomini che, muniti di occhi in mezzo alla fronte e di corazze di corno, lottano contro dinosauri e «lucertole volanti», sono un omaggio di Thomas Mann a Edgar Dacqué.
Dacqué ha giocato un ruolo anche nell’ideazione della figura del Professor Kuckuck nelle Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull. Non a caso, nel Krull il Professor Kuckuck viene presentato come direttore del museo di storia naturale di Lisbona. Ed era stato in un altro museo di storia naturale, quello di Chicago, visitato più volte da Thomas Mann insieme con la figlia minore, Elisabeth (Medi) Mann Borgese, che lo scrittore aveva vissuto un momento di rara intensità, un vero e proprio Erlebnis. Di ciò rende testimonianza un appunto diaristico dell’ottobre 1951:
Uscito in auto con Medi. Nel Museo di Scienze Naturali. Impressione estremamente viva e fruttuosa. La vita primordiale. Spugne che sono sopravvissute per 50 milioni di anni. Sezioni di antichissime conchiglie dai finissimi disegni. Gli albori della vita (vegetale) nelle profondità del mare. Lì è cominciato tutto. La terra ancora vuota, con felci simili ad alberi, soffici. Meravigliosi modelli zoologici di tutti i tipi. Scheletri dei rettili-mostri e delle gigantesche masse animali che, goffe, dominavano la terra. Mammiferi partorienti uova, con marsupi. Scimmie antropomorfe. Caverne con uomini di Neanderthal. L’uomo, goffamente nudo, col ginocchio sanguinante, non molto peloso. Il neonato in braccio alla madre la cosa più attuale. Scosso. Qualcosa come ebbrezza biologica. Impressione che tutto ciò stia al fondo del mio scrivere e amare e soffrire, della mia umanità.[9]
Era un umanesimo dai confini molto dilatati, un umanesimo “biologico”, si potrebbe forse dire, fondato sull’idea di vita e su ciò che, in una determinata occasione, Mann chiamò splendidamente «cameratismo terrestre», Erdenkameradschaft.
Tuttavia l’esponente di gran lunga più importante del Kridwiß-Kreis non è Unruhe, ma il dottor Chaim Breisacher, l’«ebreo fascista». Nel Doctor Faustus Breisacher risulta da una combinazione fra Oswald Spengler e Oskar Goldberg. Il rapporto di Thomas Mann con Spengler è complesso. All’inizio, allorché lo scrittore lubecchese lesse il Tramonto dell’Occidente, i giudizi furono decisamente positivi, anzi entusiastici. Di ciò recano abbondanti testimonianze i diari. Così, ad esempio, nell’annotazione del 26 giugno 1919:
A sera ho continuato con la grande opera di Spengler, ho finito l’introduzione e ho sempre più l’impressione di aver fatto qui una grande scoperta, che probabilmente farà epoca nella mia vita.[10]
E pochi giorni più tardi, il 2 luglio:
Sempre meno respingo la possibilità che il libro di Spengler possa fare epoca nella mia vita come vent’anni fa Il mondo come volontà e rappresentazione. Non sempre riesco a seguire tutto, ma non me ne faccio un problema. Ciò non mi impedisce di assorbire cupido l’essenza a priori familiare del libro.[11]
Ma dopo la svolta manniana verso la Repubblica di Weimar la situazione cambia completamente e Spengler diventa uno dei più pericolosi rappresentanti dello spirito prefascistico. Ciò si vede con chiarezza nel saggio di Mann programmaticamente dedicato al filosofo del tramonto (Sulla dottrina di Spengler, 1924), dove questi appare come «disfattista dell’umanità» e le sue previsioni sono definite come «profezie da iena».[12]
Nelle parti del Doctor Faustus in cui Thomas Mann attribuisce a Breisacher tratti spengleriani l’identificazione è molto chiara:
Era un polistorico che sapeva parlare di qualunque argomento, un filosofo della civiltà, i cui sentimenti erano però contro la civiltà in quanto pretendeva di scorgere in tutta la sua storia nient’altro che un processo di decadenza. Il vocabolo più spregiativo sulle sue labbra era: “progresso”. Aveva un modo schiacciante di pronunciarlo.[13]
È come un identikit. Ma vi sono poi le parti del Doctor Faustus dove la fisionomia di Breisacher appare ricondotta sui tratti di Oskar Goldberg, un esperto di problemi veterotestamentari e l’autore di un libro sulla Realtà degli Ebrei[14] ben noto a Mann, che se ne servì ampiamente nella stesura del Giuseppe. Qui l’intervenuta idiosincrasia manniana verso l’ideologia da rivoluzione conservatrice si acuisce ulteriormente attraverso la dura stigmatizzazione degli aspetti primitivistici e arcaistici presenti in Goldberg. Ma anche nel caso di Goldberg, come già in quello di Spengler, va sottolineato come la «svolta» abbia esercitato un ruolo significativo nel mutamento di posizioni che in origine erano state molto più favorevoli.[15]
III.
I rappresentanti della cerchia Kridwiß sono tutti esponenti della rivoluzione conservatrice. Nella loro ideologia, che è un’ideologia che contiene elementi anche assai particolari, sconcertanti, astrusi, e tuttavia comunque politicamente pericolosi, si mischiano insieme vecchio e nuovo. Nella Martiusstrasse si riuniscono scrittori, poeti, artisti, intellettuali, professori: tutta gente, da cui ci si potrebbe aspettare che coltivi un contatto stretto con la sfera dello spirito e dell’umanità. Ma è vero il contrario: invece che dallo spirito essi sono attratti dall’antispirito, da ciò che è contrario allo spirito; al posto dell’umanità e dell’umanesimo subentrano inumanità e antiumanesimo.
Costoro ironizzano sui metodi tradizionali e faticosi della scienza oggettiva («mio Dio, la scienza, la verità!»[16]), preferendo a ciò qualcosa di più immediato e più bello: la vista, la visione, lo sguardo, l’occhio.
Perché ancora parole? Il pedagogo del gruppo pensa a una riforma dell’istruzione scolastica dove si rinuncerà senz’altro alle parole e ai numeri, poiché per gli alunni sarà molto meglio ritornare alla «visione concreta delle cose».[17] «Perché ancora parole, perché scrivere, perché il linguaggio?», chiede a sé stesso, tra ironia e preoccupazione, Serenus.[18] «Un’oggettività radicale dovrebbe legarsi alle cose e a nient’altro che a alle cose».[19] Ed egli si ricorda di una satira di Swift, in cui certi eruditi vogliosi di riforme decidevano che
per proteggere i polmoni e per sfuggire alla frase, le parole e i discorsi andavano assolutamente aboliti e che bisognava conversare unicamente mostrando le cose, le quali, però, nell’interesse della reciproca comprensione, ciascuno doveva portarle con sé, sulla schiena, nella maggior quantità possibile.[20]
E questo non è ancora tutto, poiché i rappresentanti della cerchia Kridwiß salutano con soddisfazione la morte dell’individuo borghese, un relitto del passato, centro ormai fragile ed obsoleto di un mondo giustamente al tramonto. Al suo posto deve subentrare il «tipo», così come profetizzato nell’Arbeiter di Ernst Jünger.[21]
IV.
Adrian Leverkühn, il musicista geniale che ha venduto l’anima al Diavolo, si muove nelle coordinate della rivoluzione conservatrice. È vero, l’Apokalypsis cum figuris è un’opera avanguardistica, profondamente influenza dalla tecnica dodecafonica (la polemica di Arnold Schönberg contro Thomas Mann, che lo avrebbe plagiato, è ben nota). Questo sembrerebbe collocarla al di fuori del perimetro della konservative Revolution, magari dentro l’entartete Kunst. Ma l’Apokalypsis è anche fortemente caratterizzata da elementi primitivistici e arcaici. Essa è strutturata infatti secondo il modello dell’oratorio medievale; il testis ripete continuamente le stesse parole fatali: «viene la fine, la fine viene», testimonianza di una mentalità apocalittica antichissima, che ritorna nel mezzo del Novecento. E ci si potrebbe chiedere: non anche all’inizio del nostro secolo attuale, il ventunesimo?
L’Apokalypsis è composta in una disposizione che – così dice Serenus – «corrispondeva esattamente ai giudizi sprezzanti dei miei interlocutori della Martiustraße sulla situazione dell’individuo e di qualsivoglia individualismo nel mondo».[22] Per attestare la morte dell’individuo borghese c’è bisogno di una musica che – proprio come la musica di Adrian – rinunci al balsamo dell’armonia, così ripristinando durezze polifoniche.
«Ascolta l’accordo estinto»:[23] così dice il Diavolo ad Adrian nella prima delle sue trasformazioni, quella da lenone in critico musicale che porta sul naso ricurvo occhiali cerchiati di corno (sono gli occhiali di Adorno). La differenza fra Beethoven e Bach viene di conseguenza interpretata come contrasto fra due mondi, dove il mondo apparentemente più nuovo (il mondo di Beethoven) appare come il mondo in realtà più vecchio e ormai al tramonto, mentre quello più vecchio si rivela come il mondo più moderno e gravido del futuro. Beethoven viene interpretato così – a farlo è Wendell Kretschmar, l’antico maestro di musica di Adrian, l’unico all’altezza del suo genio – come il rappresentante di «un Io dolorosamente isolato nell’assolutezza».[24] Ma la soggettività deve essere sostituita da una più alta oggettività.
Il do diesis che sta alla fine dell’Arietta della sonata 111 viene descritto da Kretschmar come una dolorosa «carezza», come «un ultimo sguardo negli occhi», come «la frase terribilmente inseguita e umanizzata», che scende nel cuore dell’ascoltatore «come un addio, un addio per sempre, così dolce che gli occhi si empiono di lacrime».[25] Ma per poter ascoltare davvero il preludio della suite per violoncello di Bach, che sta dentro una precedente dimensione musicale, a Kretschmar più gradita, il cuore dev’essere «spazzato con la scopa».[26] Ovvero deve essere completamente svuotato di tutte le sue incrostazioni sentimentali, soggettivistiche, psicologiche, così come deve essere svuotato il cuore del mistico per accogliere Dio.
V.
Il Kridwiß-Kreis è un gruppo, Adrian Leverkühn è invece un grande uomo, un esponente della grandezza. Gruppo e grande uomo o – forse meglio – grande uomo e gruppo: da ciò si sviluppa un nesso di estremo interesse. La grandezza di Leverkühn si fonda sulla sua genialità: è la genialità a fare di lui un grande uomo. Ma questa grandezza non è salutifera; al contrario, essa è pericolosa, perché Adrian è una nascosta personalità di capo, è un Führer.
Nel Doctor Faustus questo elemento è occultato: Thomas Mann non ama rendere la vita facile ai suoi lettori. Adrian non è il tipo di personalità carismatica che trae alimento dal contatto con la massa, le masse di seguaci. Questo elemento tipico del Führer novecentesco gli è estraneo, e questa assenza contribuisce a rendere più difficile la sua identificazione come capo.
Egli vive infatti del tutto isolato, come un monaco. Non ha seguaci, non vuole allievi. Il contatto con il pubblico lo turba. Non è adatto alla carriera di solista, non può mettersi a fare il virtuoso. Per far ciò vi sarebbe stato bisogno di avvertire fortissimi dentro di sé impulsi che non gli appartenevano: «il desiderio di amoreggiare con la folla, di ricevere corone d’alloro, di fare inchini servili e di mandar baci in mezzo all’uragano degli applausi».[27] Né Adrian avrebbe potuto diventare direttore d’orchestra, perché non gli si addiceva di fare «la prima donna in frac».[28] Non restava altro che «la musica come tale, il fidanzamento con essa, il laboratorio ermetico», ovvero la composizione.[29] Dunque la composizione e il «compositore», il compositore «tedesco».
Malgrado ciò, e proprio per ciò, Adrian è una personalità carismatica e finanche un dominatore. Come si esprime allora l’impulso ad essere un capo, dove si colloca il suo Führertum? Il punto centrale sta nella volontà di riorganizzare ex novo la musica, di raggiungere un «nuovo ordine», «eine neue Ordnung» (!) nella musica: è qui che appare con chiarezza il tratto autoritario e totalitario di Adrian Leverkühn. Nella musica c’è bisogno – così dice Adrian a Serenus, che lo ascolta sbigottito – di un «padrone del sistema», di un «maestro di scuola dell’oggettività e dell’organizzazione»,[30] geniale al punto da riuscire a fondere insieme gli elementi arcaici con quelli rivoluzionari. Questo «maestro di scuola arcaico-rivoluzionario» viene definito come il «redentore dell’arte».[31]
Queste argomentazioni culminano in una frase famosa. Nella composizione veramente rigorosa – così profetizza Adrian – non vi sarà più «nessuna nota libera».[32] «Nessuna nota libera»: l’espressione è impressionante, e paurosa. «Nessuna nota libera» nella musica di Adrian Leverkühn, il compositore che ha venduto l’anima al Diavolo. Ma «nessun uomo libero» nella Germania nazista, il paese che ha a sua volta venduta l’anima al diavolo del XX secolo.
VI.
Il grande uomo e la grandezza storica da un lato, dall’altro il nesso fra il grande uomo e i suoi gruppi di riferimento, che possono essere piccoli (ad esempio la famiglia) o anche molto grandi (la nazione): temi che Thomas Mann ha sempre osservato con bruciante interesse per poi elabolarli letterariamente. Il ricercatore che si decidesse ad analizzare questi temi nell’opera dello scrittore lubecchese non avrebbe che l’imbarazzo della scelta.
In una ricostruzione siffatta ci si imbatterebbe sempre in una costante: la forte inclinazione di Thomas Mann a mettere in rilievo gli aspetti oscuri e tenebrosi del grande uomo, della grande personalità, della «grande natura», come egli anche dice con espressione significativa. In Mann, il volto del grande uomo non è mai rischiarato dalla luce del sole, la notte e la luna vi giocano un ruolo importante, ovunque vi sono ombre (e proprio questo fa parte del fascino che il grande uomo ha esercitato su di lui).
È così nel caso del Savonarola manniano (il racconto giovanile Gladius Dei, il dramma Fiorenza). È ancora così nel caso dell’ipnotizzatore Cipolla in Mario e il mago, il racconto in cui Mann, basandosi sull’esempio dell’Italia fascista, mette sotto osservazione i fenomeni di suggestione che si originano dalla personalità carismatica.
È di nuovo così in La legge, il racconto con protagonista Mosè, dove finanche il grande patriarca ebreo, fondatore della religione vetero-testamentaria, viene caratterizzato attraverso tratti dispotici e totalitari.[33]
Anche Mynheer Peeperkorn nello Zauberberg è una personalità carismatica. Peeperkorn parla male e in modo confuso, ma basta che unisca pollice e indice in ciò che il narratore definisce come «cerchio dell’attenzione» perché Settembrini e Naphta, gran parlatori e chiacchieroni, vengano improvvisamente ridotti alla statura di nani.
Nel caso di Hitler, Mann non ha mai parlato di grandezza. Tuttavia, egli non ha mai negato la perversa forza di suggestione e i tratti carismatici della personalità di Hitler, né la presenza dell’elemento demonico-diabolico in lui (si pensi proprio alla struttura del Doctor Faustus, fondata sull’idea del patto con il Diavolo). Né va dimenticato il fatto che Mann abbia sorprendentemente parlato di Hitler come di un «fratello» (così in Fratello Hitler, 1938).
Un’opera in cui il nesso tra grande uomo e gruppo emerge nel modo più chiaro è il romanzo goethiano Carlotta a Weimar (1939).[34] In Goethe si è assai spesso visto il rappresentante più cospicuo della «Germania buona». Ma non è questa la prospettiva di Thomas Mann. Beninteso, per Mann Goethe è senza dubbio un grande genio, forse persino il più grande di tutti. Ma – come molto di frequente nello scrittore lubecchese – la sua genialità contiene più ombre che luci. «Grandezza e tenebre».[35]
E, così, la vicinanza a Goethe non appare più come dono e privilegio, bensì come una punizione. Nel milieu familiare di Goethe per come descritto da Mann, ciò si manifesta nei casi del segretario Riemer e del figlio August. Riemer è stato al servizio di Goethe per lunghi anni; ne ha ricavato il tratto «dolente» della bocca, che è come squarciata, una bocca che in determinate situazioni – così nel colloquio con Carlotta – diventa simile a una «maschera tragica».[36] Questo è il prezzo per la vicinanza con un grande genio.
Il figlio August, alcolista e sessodipendente, è un figlio e nient’altro che un figlio. Ha sempre vissuto nell’ombra del grande padre; in ciò rischia di esaurirsi la sua esistenza, che è funzionalizzata a quella del padre, grande e potente. Della potenza del padre, August è ben consapevole. «Non rinuncio ad affermare che anche mio padre è un dominatore ed un potente», dice egli infatti a Carlotta subito dopo aver parlato (l’accostamento è significativo) di Napoleone, ormai «inchiodato allo scoglio nell’oceano», sorta di novello Prometeo.[37] Ma August (come Thomas Mann) sa anche quanto potente e dominante possa essere l’influenza di un grande scrittore sulla sua nazione:
E l’animo mi s’allarga di terrore (...) nel considerare che il grande poeta è un dominatore la cui sorte, le cui decisioni nell’opera e nella vita hanno un’efficacia che di gran lunga oltrepassa il suo destino personale, ma plasmano la cultura, il carattere, l’avvenire della nazione.[38]
Le ultime parole di August mettono in luce la pluridimensionalità del nostro argomento: dall’ambito della famiglia siamo stati trasportati nell’ambito della nazione. Qualcosa di simile avviene alla fine del romanzo, allorché viene descritto il banchetto in onore di Carlotta a casa di Goethe. Tra i prominenti di Weimar si discute di una presunta sentenza buddistica, che proprio in presenza di Goethe appare completamente assurda: il grande uomo sarebbe «una pubblica calamità».[39] Tutti i commensali, a questo punto, ridono sonoramente, ad attestare al grande anfitrione la palese assurdità di una sentenza buona solo a suscitare ilarità. Tutti, tranne Carlotta, che, invece, «sedeva rigida, come impietrita, mentre i suoi occhi color nontiscordardimé erano sbarrati dal terrore».[40]
VII.
È tempo di concludere. In un possibile ampliamento futuro di quanto si è analizzato in questa sede, ci si potrebbe chiedere se la problematica messa alla base del presente contributo potrebbe essere direttamente applicata anche a Thomas Mann. E si vuole intendere: non solo alla sua opera (che è quanto si è qui fatto, per quanto brevemente), bensì alla sua vita stessa.
Thomas Mann ha giocato un ruolo estremamente rilevante all’interno dei suoi gruppi di riferimento: nella famiglia, ma anche nella nazione (si pensi alla sua funzione nell’emigrazione americana). E si è confrontato sempre, lungo l’arco di tutta la sua esistenza, con l’idea di grandezza. «Sono io “grande”?»: spesso egli si è posto questa domanda. La risposta era oscillante, non un chiaro sì, non un chiaro no, come si può vedere in alcune lettere dell’inverno 1905-1906 al fratello maggiore, Heinrich, il «fratello grande», come Tommy anche diceva, lettere in cui il minore ventilava il progetto di scrivere un romanzo su Federico il Grande: «per questo servono conoscenze intorno alla grandezza, molte esperienze, l’esperienza della grandezza […]. Io ce l’ho?».[41] Importante è anche un tardo appunto diaristico del maggio del 1954. Vogliamo chiudere il nostro discorso citandolo, anche perché in questo appunto ironia e autoironia mostrano non solo la loro dimensione serena, ma anche il loro volto serio, la presenza di una problematica profonda e dolorosa, forse mai davvero risolta:
Davvero, io non sono stato grande. Ma una certa intimità infantile nel mio rapporto con la grandezza ha portato nella mia opera un sorriso che vi allude.[42]
[1] T. Mann, Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico, trad. it. di Ervino Pocar, Milano, Mondadori, 1964, da cui si citerà anche in seguito. Il capitolo XXXIV si legge alle pagine 671-720. Molto più recente è la traduzione del Faustus procurata da Luca Crescenzi, che si segnala anche per i ricchi apparati: T. Mann, Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico, a cura di Luca Crescenzi, Milano, Mondadori, 2016. Questa edizione contiene anche La genesi del Doctor Faustus. Romanzo di un romanzo.
[2] T. Mann, Doctor Faustus, cit., p. 673.
[3] T. Mann, La genesi del Doctor Faustus. Romanzo di un romanzo, nuova edizione tradotta e commentata da Luca Crescenzi, in T. Mann, Doctor Faustus, cit., p. 858.
[4] T. Mann, Tagebücher 1946–1948, Frankfurt am Main, Fischer Taschenbuch Verlag, 2003, p. 19. Anche gli altri volumi dei Tagebücher che verranno citati nel prosieguo rientrano nell’edizione Fischer Taschenbuch Verlag 2003.
[5] T. Mann, Lettere, a cura di Italo Alighiero Chiusano, Milano, Mondadori, 1997, pp. 691-692.
[6] T. Mann, Doctor Faustus, cit., p. 693.
[7] Ivi, p. 691.
[8] T. Mann, La posizione di Freud nella storia dello spirito moderno (1929), in Id., Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di Andrea Landolfi, con un saggio di Claudio Magris, Milano, Mondadori, 1997, pp. 1349-1375, qui soprattutto p. 1363: «Quando un libro come Urwelt, Sage und Menschheit di Daqué viene oggi respinto dalla scienza ufficiale, “severa” e “corretta”, per un senso di superiorità del tutto fuori luogo, al punto di rovinare la carriera accademica del suo autore, nessuno può dubitare da quale parte ci schieriamo: se dalla parte del libro, che è vera rivoluzione, o dalla parte di quell’accademico “rifiuto”, che in realtà non risolve proprio nulla». In rapporto a Daqué e ai suoi compagni di strada Mann parla di «genializzazione della scienza». Cfr. D. Conte, «In dote per la vita ho ricevuto lo sguardo». Immagini e politica nella «neue Wissenschaft», in Immagine e immaginazione, a cura di Leonardo V. Distaso, Anna Donise, Edoardo Massimilla, Napoli, FedOAPress, 2020, pp. 83-103.
[9] T. Mann, Tagebücher 1951–1952, pp. 112-113 (annotazione del 4 ottobre 1951).
[10] Id., Tagebücher 1918-1921, p. 274.
[11] Ivi, pp. 276-277.
[12] T. Mann, Sulla dottrina di Spengler (1924), in Id., Nobiltà dello spirito e altri saggi, cit., pp. 1339-1348, qui p. 1342.
[13] T. Mann, Doctor Faustus, cit., p. 533.
[14] O. Goldberg, Die Wirklichkeit der Hebräer. Einleitung in das System des Pentateuch, Berlin, Verlag David, 1925.
[15] Ancora nel 1931 il libro di Goldberg viene positivamente annoverato fra quei libri innovativi rispetto ai quali il romanzo tradizionale non riuscirebbe più a reggere il passo: «Esiste oggi un genere di libri col quale il romanzo, inteso come finzione narrativa, fa estrema fatica a competere. Non è semplice definirlo; per far capire a che cosa mi riferisco, potrei citare Mondo primigenio, saga e umanità di Daqué, Lingua del Pentateuco di Yahuda, La realtà degli Ebrei di Goldberg, Totem e tabù di Freud, La posizione dell’uomo nel cosmo di Max Scheler, gli stimolanti saggi di Gottfried Benn raccolti sotto il titolo Bilancio delle prospettive… Ma si tratta di un genere? Titoli così disparati possono stare insieme? Sul piano formale non sembrerebbe possibile, e neanche dal punto di vista del contenuto. Ma alla loro base c’è un’omogeneità psicologica, dettata dal grado di intensità con cui oggi ci toccano e dalle profonde motivazioni umane che vi agiscono. Non aggiungo altro». In realtà, Mann avrebbe potuto aggiungere (solo motivi di eleganza glielo impedivano) che l’opera a cui stava lavorando, Giuseppe e i suoi fratelli, andava inserita in questo nuovo genere di libri, gli Ur-Bücher, si potrebbe anche dire, ovvero i libri che andavano programmaticamente nel passato lontanissimo, alle origini, ricercandovi il fondamento. Come avrebbe potuto aggiungere che era solo a causa dell’intervenuta ostilità anche politica che dal gruppo degli Ur-Bücher era stato espunto il Tramonto dell’Occidente di Spengler, che vi sarebbe altrimenti senza dubbio rientrato. Cfr. T. Mann, Ur e il diluvio universale (1931), in appendice a Id., Giuseppe e i suoi fratelli, a cura e con un saggio introduttivo di Fabrizio Cambi, trad. it. di Bruno Arzeni, voll. 2, Milano, Mondadori, 2001, qui vol. II, pp. 1456 sg., da cui è tratta la citazione precedente. «Chi conosce qualcosa di più interessante da leggere, lo dica. Solo non venga a proporci un romanzo qualsiasi». Nel corso del pluriennale lavoro al Giuseppe Mann lesse per ben tre volte la Wirklichkeit der Hebräer di Goldberg.
[16] T. Mann, Doctor Faustus, cit., pp. 698-699.
[17] Ivi, p. 702.
[18] Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] Ivi, p. 703.
[21] D. Conte, Albe e tramonti d’Europa. Su Jünger e Spengler, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009.
[22] T. Mann, Doctor Faustus, cit., p. 707.
[23] Ivi, p. 459.
[24] Ivi, p. 97.
[25] Ivi, p. 123.
[26] Ibidem.
[27] Ivi, p. 250.
[28] Ivi, p. 251.
[29] Ibidem.
[30] Ivi, p. 362.
[31] Ivi, p. 614.
[32] Ivi, p. 368.
[33] D. Conte, «Non avrai altro Dio fuori di me». Thomas Mann e La legge, «Archivio di Storia della Cultura», XXXIV, 2021, pp. 151-174.
[34] T. Mann, Carlotta a Weimar (1939), trad. it. di Lavinia Mazzucchetti, Milano, Mondadori, 1948, da cui si cita. Recente è la nuova traduzione di Luca Crescenzi, che si legge in T. Mann, Romanzi. Volume secondo: Charlotte a Weimar, L’eletto, Confessioni dell’impostore Felix Krull, a cura di Luca Crescenzi, Milano, Mondadori, 2021.
[35] D. Conte, Grandezza e tenebre. Thomas Mann interprete di Goethe, in Id., Viandante nel Novecento. Thomas Mann e la storia, cit., pp. 343–363.
[36] T. Mann, Carlotta a Weimar, cit., p. 112.
[37] Ivi, p. 295.
[38] Ivi, p. 299.
[39] Ivi, p. 501.
[40] Ibidem.
[41] T. Mann, Briefe I (1889–1913), Frankfurt am Main, Fischer, 2002, p. 343 [= Große kommentierte Frankfurter Ausgabe, Band 21].
[42] Id., Tagebücher 1953–1955, cit., p. 241.
THOMAS MANN , GRANDEZZA , FAUSTUS
Filosofia
Scarica il PDF