Sull’ “antistoricismo” di Arthur Schopenhauer e su alcune sue inattese conseguenze
di Domenico M. Fazio
La tesi secondo la quale la concezione della storia di Arthur Schopenhauer si risolverebbe in una forma di «antistoricismo radicale» risale alla Distruzione della ragione di György Lukàcs,[1] ed è poi divenuta una sorta di topos nella letteratura schopenhaueriana. Dopo Lukàcs, Giuseppe Riconda ha parlato a proposito di Schopenhauer di «polemica contro lo storicismo»,[2] Giorgio Colli ha considerato Schopenhauer come colui il quale «ha liberato l’Occidente dal mito della storia»,[3] Alfred Schmidt ha parlato dell’«aspro antistoricismo» di Schopenhauer,[4] Sandro Barbera ha ripreso la definizione lukàcsiana dell’antistoricismo radicale[5] e, ancora di recente, Jens Lemanski ha adoperato la formula dell’«antistoricismo schopenhaueriano».[6]
In genere, quando si discute della visione “antistoricista” di Schopenhauer, si fa riferimento al testo del capitolo 38 dei Supplementi al Mondo come volontà e rappresentazione, intitolato, appunto, «Sulla storia».[7] Questo testo, tuttavia, se letto sinotticamente con altri due importanti luoghi dell’opera principale di Schopenhauer dedicati allo stresso tema, mi sembra possa riservare alcune sorprese. Così come alcune sorprese provengono dalla Wirkungsgeschichte di questi passi di Schopenhauer. Desidero dedicare la rilettura di questi luoghi schopenhaueriani e la illustrazione di alcune loro conseguenze inattese alla memoria di Giancarlo Magnano San Lio, che dello storicismo è stato studioso attento ed autorevole.[8]
In apertura della sua trattazione dedicata alla storia nei Supplementi del Mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer si ricollega ad un passo del primo volume dell’opera, rammentando che «nel […] primo volume ho ampiamente mostrato come e perché, per la conoscenza dell’essenza dell’umanità, venga fatto molto di più dalla poesia, che non dalla storia».[9]Egli si riferisce al paragrafo 51 del terzo libro del primo volume del Mondo, dedicato alla trattazione dell’estetica, nel quale alla poesia è attribuito il compito di rappresentare l’essenza dell’uomo, con le sue aspirazioni e con le sue azioni. In quel passo, però, Schopenhauer ammette che non solo la poesia, ma anche la storia possa insegnare a conoscere l’uomo. E, «tuttavia più spesso gli uomini, che non l’uomo»,[10] ossia i singoli uomini, ma non l’idea dell’umanità. Perciò, «a chi dunque vuol conoscere l’umanità, nella sua intima essenza identica in tutti i fenomeni e gli sviluppi, nella sua idea, a costui le opere dei poeti grandi e immortali mostreranno un’immagine molto più fedele e chiara di quel che possano mai fare gli storici».[11]
La storia, come Schopenhauer ribadisce nel capitolo 38 dei Supplementi, ha dunque per oggetto gli individui. Ciò comporta importanti ripercussioni concernenti la sua scientificità:
[…] tutte le scienze si pongono l’una accanto all’altra e al di sopra del mondo reale delle cose particolari, che si sono ripartite tra loro. Ma al di sopra di esse tutte sta la filosofia, come il sapere più generale e perciò più importante, che promette quei lumi a cui tutte le altre preparano. Solo la storia non può veramente rientrare in quella categoria, non potendosi vantare dello stesso pregio delle altre: le manca infatti il carattere fondamentale della scienza, la subordinazione delle conoscenze, invece della quale essa può esibire una mera coordinazione. Quindi non si dà nessun sistema di storia, come invece se ne dà di ogni altra scienza. La storia è pertanto un sapere, ma non una scienza. Perché non conosce mai il particolare per mezzo del generale, ma deve afferrare il particolare in modo immediato e continuare così a strisciare per così dire sul terreno dell’esperienza; mentre le vere scienze si librano al di sopra di esso, avendo acquisito concetti comprensivi, mediante i quali dominano il particolare […]. Le scienze, essendo sistemi di concetti, parlano sempre di generi; la storia di individui. Essa sarebbe dunque una scienza di individui, il che suona contraddizione.[12]
La storia è dunque un sapere, non una scienza: rispetto alle scienze in generale, e in particolare rispetto a quella scientia scientiarum che è la filosofia, essa differisce quanto all’oggetto e, di conseguenza, quanto al metodo. La storia ha, infatti, come scopo la conoscenza immediata del singolo, mentre le scienze, e tra esse in primo luogo la filosofia, conoscono il singolo soltanto mediante il generale, mediante, cioè, la sussunzione del particolare, che è ciò che dev’essere trovato, ad una legge universale, secondo un procedimento che Schopenhauer chiama del subordinare. La storia è, dunque, un coordinare, mentre la filosofia è un subordinare: la filosofia della storia, di conseguenza, è una contraddizione.
Ma non è tutto. Il discorso di Schopenhauer, infatti, muove pur sempre dalla distinzione tra la realtà fenomenica e la realtà in sé, tra il mondo come rappresentazione e il mondo come volontà; e la storia, a suo parere, rimane pur sempre un sapere fenomenico, che mostra il continuo mutare delle cose, «ciò che è solo una volta e poi non più»[13] o, come anche scrive Schopenhauer, mostra «le trame fugaci di un mondo umano mobile come le nubi al vento».[14] La filosofia, che si sforza di squarciare il velo di Maja del fenomeno, dice invece che l’essenza della realtà rimane sempre identica a se stessa: «mentre la storia ci insegna che in ogni tempo c’è stato qualcosa di diverso, la filosofia si adopera per farci capire che in tutti i tempi ci fu, c’è e ci sarà esattamente la stessa cosa».[15]
Da questa considerazione muove la critica di Schopenhauer alla filosofia della storia di Hegel, che si palesa così come il vero obbiettivo polemico di questo capitolo dei Supplementi: «Per quanto riguarda infine la tendenza, venuta in voga specialmente ad opera della pseudofilosofia hegeliana, ovunque tanto istupidente e nefasta per lo spirito, a concepire la storia universale come un tutto prestabilito o, com’essi dicono, “a costruirla organicamente”; alla base di essa sta propriamente un rozzo e piatto realismo, che scambia il fenomeno con l’essenza in sé del mondo e presume che quello e le sue figure e vicende siano ciò che conta».[16] Per chi, come Schopenhauer, considera merito immortale di Kant aver distinto il fenomeno dalla cosa in sé,[17] si tratta di un errore imperdonabile. Perciò, secondo Schopenhauer,
bisogna rimandare gli hegeliani, che ritengono addirittura la filosofia della storia il fine principale di ogni filosofia, a Platone, che ripete instancabilmente che oggetto della filosofia è quello che non muta e permane in perpetuo, e non invece quello che ora è così e ora altrimenti. Tutti coloro che si gettano in tali costruzioni del corso del mondo o, com’essi lo chiamano, della storia, non hanno compreso la verità principale di tutta la filosofia, che cioè in ogni tempo c’è la stessa cosa, che ogni divenire e nascere è solo apparente, che solo le idee sono durature, che il tempo ha carattere ideale.[18]
I filosofi della storia, prima ancora che cattivi storici, sono cattivi filosofi, ingenuamente realisti e colpevolmente ottimisti. Essi
riservano quindi alla storia un posto centrale nella loro filosofia, configurandola secondo un presunto piano universale, in conformità del quale tutto viene guidato verso il bene, che si realizzerà quindi finaliter e sarà una grande magnificenza. Perciò prendono il mondo come perfettamente reale e ne ripongono il fine nella miserabile felicità terrena, che, anche se riceve dagli uomini le cure più assidue ed è favorita dalla sorte, rimane sempre una cosa vacua, illusoria, caduca e triste, di cui né le costituzioni, né le legislazioni, né le macchine a vapore e i telegrafi potranno fare qualcosa di essenzialmente migliore. I suddetti filosofi e glorificatori della storia sono dunque scempi realisti, e per di più ottimisti ed eudemonisti; quindi, individui superficiali e filistei incarnati e inoltre propriamente cattivi cristiani; perché il vero spirito e il nocciolo del cristianesimo, altrettanto che del brahmanesimo e del buddhismo, è il riconoscimento della nullità della felicità terrena.[19]
Contrariamente a quanto fa questa cattiva filosofia della storia, che contrabbanda il divenire storico per la vera realtà, cadendo in un ingenuo realismo e in un piatto ottimismo, la vera filosofia della storia dovrà mostrare proprio tutta l’illusorietà del divenire: «una vera filosofia della storia non deve dunque studiare come tutti quelli fanno, ciò che (per parlare la lingua di Platone) sempre diviene e mai è, scambiandolo per la vera essenza delle cose; ma deve avere lo sguardo fisso a ciò che sempre è e mai diviene né perisce».[20] Bisogna distinguere dunque la vera filosofia della storia, che ricerca ciò che permane e non è transeunte, dalla cattiva filosofia della storia, che non solo assume come perfettamente reale il divenire, ma vi attribuisce anche un senso, un significato ed uno scopo ultimo.
Dalla lettura di queste pagine emerge chiaramente come esse siano rivolte contro un bersaglio polemico ben individuabile, ossia la filosofia della storia di Hegel. Si può dire, perciò, che l’antistoricismo di Schopenhauer sia in realtà antihegelismo. Non, dunque, svalutazione del sapere storico tout court e negazione della sua importanza per la cultura, non critica della filosofia della storia in generale, bensì critica di una forma determinata della filosofia della storia, quella hegeliana, in cui «Dio governa il mondo: il contenuto del suo governo, l’esecuzione del suo piano è la storia universale. Compito della filosofia della storia universale è cogliere questo piano».[21]
E, che non si tratti affatto della svalutazione della storia in generale, bensì della critica ad un modello di storia ben preciso, lo confermano anche, da un lato, alcune pagine che Schopenhauer dedica al tema della storia nel paragrafo 35 nel terzo libro del primo volume della sua opera principale e, dall’altro, la svolta inattesa che subisce il capitolo 38 dei Supplementi.
Nel paragrafo 35 del terzo libro del primo volume del suo capolavoro Schopenhauer, pur ribadendo che «la storia del genere umano, l’incalzare degli avvenimenti, il mutare dei tempi, le svariate forme del vivere umano in paesi e secoli diversi, […] è solo la forma casuale del fenomeno», ammette che la storia rappresenta pur sempre «le lettere in cui si può leggere l’idea dell’uomo».[22] In questo modo, chi studia la storia
nelle molteplici forme del vivere umano e nell’incessante avvicendarsi degli avvenimenti, […] considererà come permanente ed essenziale solo l’idea, […], che mostra le sue diverse facce nelle qualità, nelle passioni, negli errori e nei pregi del genere umano, come egoismo, odio, amore, paura, arditezza, leggerezza, ottusità, furberia, spirito, genio, ecc., tutte cose che, concorrendo e coagulandosi in mille forme (individui), rappresentano di continuo la grande e la piccola storia del mondo.[23]
Schopenhauer ammette così che il sapere storico abbia comunque un preciso valore conoscitivo.
Ed infatti, nell’ultima parte del capitolo 38 dei Supplementi Schopenhauer afferma esplicitamente e chiaramente che il suo intento non è voler negare alla storia ogni valore. Al contrario:
Avendo visto nelle considerazioni fin qui fatte che la storia, come mezzo per conoscere l’essenza dell’umanità, rimane indietro rispetto alla poesia; poi, che essa non è in senso vero e proprio una scienza; e infine che la tendenza a configurarla come un tutto unico, con principio, mezzo e fine, oltre che con un nesso logico, è una tendenza vana, che si fonda su un equivoco; sembrerebbe che le volessimo negare ogni valore, se non dimostrassimo in che cosa consiste il suo. Ma in realtà ad essa rimane, dopo esser stata vinta dall’arte e rifiutata dalla scienza, un campo tutto particolare, diverso da entrambe, nel quale occupa un posto onorevolissimo. Ciò che la ragione rappresenta per l’individuo, la storia rappresenta per il genere umano.[24]
Infatti, come la ragione è ciò che permette all’individuo di conoscere gli avvenimenti trascorsi che lo riguardano, e perciò di interpretare il presente e fare illazioni per l’avvenire, così la storia consente al genere umano di conoscere proprio passato e in questo modo di comprendere il proprio presente e progettare il proprio futuro. Senza la storia, l’umanità vivrebbe attaccata al «piuolo dell’istante»,[25] per dirlo con le parole di Nietzsche. Sarebbe come gli animali, che non posseggono la ragione e, come loro, giacerebbe «in stato di ignoranza, di ottusità, di scempiaggine, di debolezza e di dipendenza».[26] Grazie alla storia, invece, la specie umana diviene consapevole di se stessa e solo in virtù della storia «diventa effettivamente un tutt’unico, l’umanità».[27] Perciò, per l’“antistoricista” Schopenhauer, «la storia è da ritenere quindi l’autocoscienza razionale del genere umano», ed è in ciò che consiste il suo «vero valore».[28]
Infine, vanno menzionate le posizioni di Schopenhauer intorno a quel genere particolare di storiografia che è la storiografia filosofica. E va osservato che, anche quando, nei Parerga e paralipomena, Schopenhauer polemizza contro le opere di storia della filosofia ed afferma che «leggere, invece delle opere originali dei filosofi, ogni sorta di esposizioni delle loro dottrine o in genere la storia della filosofia, è come se si volesse far masticare da un altro il proprio desinare»[29], egli ha di mira non già la storia della filosofia tout court, bensì un tipo particolare di storiografia filosofica, ossia la storiografia filosofica del suo tempo, caratterizzata da una marcata impronta hegeliana, la storiografia praticata da coloro i quali egli chiama con scherno i «professori di filosofia». Egli, infatti, protesta che «i pensieri di un grande spirito si devono notevolmente restringere per trovar posto nel cervello da tre libbre di tali parassiti della filosofia»[30]. E pertanto propone che meglio sarebbe, allora, leggere direttamente le opere dei grandi filosofi. Ma la condanna, che sembra senza appello, non riguarda l’intero genere, poiché Schopenhauer esalta esplicitamente il padre fondatore della disciplina, ossia «il prode Brucker»[31] ed egli stesso propone un suo modello di storiografia filosofica, per quanto, com’è stato detto, «sui generis»[32]. Infatti, egli scrive che «molto opportuna sarebbe per contro una raccolta fatta in comune e coscienziosamente da studiosi onesti e intelligenti, dei passi importanti e dei capitoli essenziali di tutti quanti i filosofi principali, riuniti in ordine cronologico pragmatico».[33] Né va dimenticato che lo stesso Schopenhauer si è cimentato col mestiere dello storico della filosofia, nei due saggi dei Parerga e paralipomena intitolati rispettivamente Schizzo di una storia della teoria dell’ideale e del reale e Frammenti di storia della filosofia, oggi editi separatamente in italiano con l’accattivante titolo Controstoria della filosofia.
Veniamo ora alla Wirkungsgeschichte di queste pagine schopenhaueriane sulla storia. Altrove ho mostrato i motivi schopenhaueriani sottesi allo “storicismo” di Nietzsche[34] e alla sua idea secondo la quale il «sovrastorico»[35] dovrebbe costituire l’antidoto contro la malattia storica della «bella e verde hegelianeria».[36] Pertanto, in questa sede non ritornerò ulteriormente sull’influsso esercitato dalle teorie schopenhaueriane sulla storia sull’autore di Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Vorrei invece soffermarmi brevemente su un altro capitolo della Wirkungsgeschichte delle pagine di Schopenhauer appena commentate, ossia sulla profonda influenza che esse hanno esercitato sul grande storico Jacob Burckhardt, per mostrare infine come, tramite Burckhardt, questa influenza giunga sorprendentemente fino ad una delle principali correnti della storiografia contemporanea.
Che Burckhardt debba a Schopenhauer molti motivi ispiratori del suo modo di intendere la storiografia lo ha mostrato magistralmente Fulvio Tessitore.[37] Burckhardt, che discorrendo con Nietzsche definiva Schopenhauer «il nostro filosofo»,[38] segue infatti Schopenhauer su due punti principali: la critica della filosofia della storia, in particolare di quella hegeliana, e l’idea che nella storia quello che conta non è ciò che è meramente transeunte, bensì ciò che in essa c’è di permanente.
Quanto al primo aspetto, nelle sue lezioni sullo studio della storia Burckhardt riprende Schopenhauer praticamente alla lettera quando scrive: «Soprattutto non diamo una filosofia della storia. Quest’ultima è un centauro, una contradictio in adjecto, giacché la storia, vale a dire il coordinare, è non-filosofia, e la filosofia, vale a dire il subordinare è non storia».[39] Perciò egli critica la filosofia della storia di Hegel, prendendo le mosse dal commento al primo capitolo delle Lezioni sulla filosofia della storia, dedicato alla Considerazione razionale della storia, là dove Hegel, definendo il proprio concetto generale di filosofia della storia, sostiene che l’unico pensiero che la filosofia della storia porta con sé «è il semplice pensiero della ragione: che la ragione governi il mondo, e che quindi anche la storia universale debba essersi svolta razionalmente».[40] E Burckhardt commenta: «Egli dice che l’unica idea che la filosofia porta con sé è la semplice idea della ragione, l’idea che la ragione governa il mondo e che quindi anche nella storia del mondo le cose sono andate in modo razionale, e il risultato della storia deve (sic!) essere che essa è stata il corso razionale, necessario dello spirito del mondo, tutte cose che dovrebbero piuttosto essere dimostrate che portate con sé».[41] L’obbiettivo polemico di Burckhardt diviene allora la stessa dialettica hegeliana, attraverso il movimento della quale il divenire storico è pensato, in modo consolatorio, come graduale superamento del negativo. Secondo il commento di Burckhardt, Hegel
«parla dei “fini della saggezza eterna” e spaccia la sua considerazione per una teodicea, mediante la conoscenza del positivo, nel quale il negativo (vulgo: il male) scompare come qualche cosa di subordinato e superato; sviluppa l’idea fondamentale che la storia del mondo sarebbe la rappresentazione di come lo spirito giunge alla consapevolezza di ciò che significa in sé, inoltre, secondo lui, vi sarebbe uno sviluppo verso la libertà in quanto in Oriente era libera una sola persona, nei popoli classici poche persone e i tempi moderni renderanno tutti liberi. Anche la teoria della perfettibilità, vale a dire del ben noto cosiddetto progresso, si trova in Hegel, sebbene introdotta con cautela. Noi però non siamo iniziati ai fini dell’eterna saggezza e non li conosciamo. Questa ardita anticipazione di un piano del mondo induce in errore, perché parte da premesse sbagliate».[42]
Quanto al secondo aspetto, Schopenhauer fornisce a Burckhardt gli strumenti concettuali per delineare un metodo della narrazione storica che gli consenta di non perdere di vista l’essenziale, nella molteplicità dei particolari, di non smarrire ciò che è permanente, nel mobile esercito di ciò che è transeunte e di mettere a fuoco ciò che è tipico, nella caducità di «ciò che è solo una volta e poi non più»[43]. Schopenhauer diceva infatti che la storia «deve avere lo sguardo fisso a ciò che sempre è e mai diviene»[44], e Burckhardt gli fa eco quando scrive: «i filosofi della storia considerano il passato come l’opposto e come il gradino preliminare per arrivare fino a noi in quanto evoluti: noi consideriamo ciò che si ripete, è costante, è tipico come qualche cosa che echeggia in noi ed è comprensibile»[45]. E, proprio perché il passato echeggia in noi e ci è comprensibile, esso può fungere per noi da modello culturale, da trasmettere «ai posteri come notizia imperitura»[46], ovvero, per dirlo con le parole di Nietzsche, come modello da porgere al presente come «lo specchio del classico, dell’eternamente esemplare»[47].
Si tratta, a ben guardare, della stessa esigenza metodologica di non trasformare la storia in cronaca o peggio ancora in aneddotica, che molto tempo dopo ispirerà Fernand Braudel nella sua critica alla histoire événementielle e nella sua teorizzazione della cosiddetta «lunga durata». E non è certo un caso che egli, in quello che è considerato l’articolo manifesto della storiografia delle «Annales», annoveri Burckhardt tra i grandi storici che, sono parole sue, «hanno salvato il nostro mestiere». Scrive Braudel: «Gli storici del xviii e dell’inizio del xix secolo erano stati ben altrimenti attenti alle prospettive dei ritmi lunghi e, in seguito, solo delle grandi personalità come Michelet, Ranke, Jacob Burckhardt, Fustel furono capaci di riscoprirle»[48].
Appare così il filo nascosto e sottile che, attraverso Jacob Burckhardt, lega uno dei principi cardine della storiografia delle «Annales» al pensiero di un filosofo “antistoricista” come Arthur Schopenhauer.
[1] G. Lukàcs, La distruzione della ragione, trad. it. di E. Arnaud, Torino, 1974, vol. I, p. 245.
[2] G. Riconda, Schopenhauer interprete dell’Occidente, Milano, 1969, p. 151.
[3] G. Colli, Dopo Nietzsche, Milano, 1974, p. 35.
[4] A. Schmidt, Idee und Weltwille. Schopenhauer als Kritiker Hegels, München, 1988, p. 109.
[5] Cfr. S. Barbera, Der “Griechische” Nietzsche des Giorgio Colli, «Nietzsche-Studien», 18, (1989), Gedankenband für Mazzino Montinari, pp. 83-102: 84.
[6] J. Lemanski, Evolutionstheorie, in D. Schubbe u. M. Koßler (hrsg.), Schopenhauer-Handbuch, Stuttgart, 2018, p. 336.
[7] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di S. Giametta, Milano, 2006, Supplementi al libro III, cap. 38, «Sulla storia», pp. 1825-1839.
[8] Cfr. G. Magnano San Lio, La Weltanschauungslehre e la Philosophie der Philosophie di Wilhelm Dilthey, Catania, 1996; Filosofia e storiografia. Fondamenti teorici e ricostruzione storica in Dilthey, Soveria Mannelli, 2000; Forme del sapere e strutture della vita. Per una storia del concetto di Weltanschauung. Tra Kant e Dilthey, Soveria Mannelli, 2005; Forme del sapere e strutture della vita. Per una storia del concetto di Weltanschauung. Dopo Dilthey, Soveria Mannelli, 2007; Biografia, politica e Kulturgeschichte in Rudolf Haym, Napoli, 2009; Ninfe ed ellissi. Frammenti di storia della cultura tra Dilthey, Usener, Warburg e Cassirer, Napoli, 2014; Per una filosofia dello storicismo. Studi su Dilthey, Soveria Mannelli, 2017; Preludi, trame, suggestioni. Wilhelm von Humboldt alle origini dello storicismo diltheyano, Napoli, 2023.
[9] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., Supplementi al libro III, cap. 38, «Sulla storia», p. 1825.
[10] Id., Libro III, § 51, p. 487.
[11] Id., Libro III, § 51, p. 491.
[12] Id., Supplementi al libro III, cap. 38, «Sulla storia», pp. 1825-1827. Il corsivo è mio.
[13] Ivi, p. 1827.
[14] Ivi, p. 1831.
[15] Ivi, p. 1829.
[16] Ivi, p. 1831.
[17] Id., Appendice: Critica della filosofia kantiana, p. 805: «Il merito maggiore di Kant è la distinzione del fenomeno dalla cosa in sé».
[18] Id., Supplementi al libro III, cap. 38, «Sulla storia», p. 1833.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. it. di G. Calogero e C. Fatta, Firenze, 1941, p. 65.
[22] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., Libro III, § 35, p. 371.
[23] Ivi, p. 373.
[24] Id., Supplementi al libro III, cap. 38, «Sulla storia», p. 1835.
[25] F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad. it. di S. Giametta, in Opere, edizione condotta su testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, Milano, 1964 e sgg., vol. III, tomo 1, p. 262.
[26] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., Supplementi al libro III, cap. 38, «Sulla storia», p. 1835.
[27] Id., p. 1837.
[28] Ibidem.
[29] A. Schopenhauer, Frammenti di storia della filosofia, Controstoria della filosofia, a cura di S. Giametta, Milano, 2023, p. 55.
[30] Ibidem.
[31] Ibidem.
[32] F. Grigenti, Uno storico “sui generis” della filosofia. Schopenhauer, in Storia delle storie generali della filosofia, 5 voll., Brescia – Padova, 1979-2004, vol. V, pp. 23-29. Cfr. anche G. Riconda, L’idea schopenhaueriana della storia della filosofia, in Schopenhauer interprete dell’Occidente, cit., pp. 38-42.
[33] A. Schopenhauer, Frammenti di storia della filosofia, cit., p. 56.
[34] Cfr. D. M. Fazio, L’Inattuale sulla storia come canone dello “storicismo” di Nietzsche, in Linguaggio, storia, verità. Nietzsche 150, a cura di G. Frilli, G. Garelli, R. Morani, Napoli, 2025, pp. 71-88.
[35] F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, cit., p. 351: «“sovrastoriche” chiamo le potenze che distolgono lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e dell’immutabile».
[36] F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore, trad. it. di S. Giametta, in Opere, cit., vol. III, tomo 1, p. 453.
[37] Cfr. F. Tessitore, Lo storicismo, Bari, 1996, pp. 162-180. Ma cfr. anche A. Negri, J. Burckhardt e la lezione schopenhaueriana, in «Il Protagora», 19 febbraio 1962, pp. 41-67.
[38] F. Nietzsche, Epistolario, edizione condotta su testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, Milano, 1976-2004, vol. II, Epistolario 1869-1874, trad. it. di C. Colli Staude, lettera n. 107, A Carl von Gersdorff, Basilea, 7 novembre 1870, p. 149.
[39] J. Burckhardt, Sullo studio della storia, a cura di M. Montinari, Torino, 1968, p. 16. Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., Supplementi al libro III, cap. 38, «Sulla storia», pp. 1825-1827.
[40] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., p. 7.
[41] J. Burckhardt, Sullo studio della storia, cit., p. 17.
[42] Ibidem.
[43] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., Supplementi al libro III, cap. 38, «Sulla storia», p. 1827.
[44] Id., p. 1833.
[45] J. Burckhardt, Sullo studio della storia, cit., p. 18.
[46] Id., p. 247.
[47] F. Nietzsche, Omero e la filologia classica, Scritti giovanili 1865-1869, a cura di G. Campioni e M. Carpitella, in Opere, cit., vol. I, tomo 2, p. 517.
[48] F. Braudel, Storia e scienze sociali. La “lunga durata” [1958], in A. Tenenti (a cura di), Scritti sulla storia, Milano, 1973, p. 62.
SCHOPENHAUER , ANTISTORICISMO , FILOSOFIA DELLA STORIA
Filosofia
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