Uomini, maghi e profeti. Giordano Bruno e la forza della natura umana
di Maurizio Cambi
I.
Giordano Bruno è convinto di vivere in un secolo avvolto dalle tenebre, una stagione di crisi corrispondente al punto più basso toccato dalla ruota, ora lenta ora più veloce, del tempo.[1] I segni della crisi sono evidenti: il mondo è rinversato e, pertanto, la verità è negletta, la giustizia langue, la virtù è derisa. A causa della confusione regnante nelle menti[2] – denuncia malinconicamente il filosofo nello Spaccio de la bestia trionfante – sono sempre meno coloro in grado di distinguere il vero dal falso. Il desolante scenario presenta ignobili ciarlatani ritenuti potenti taumaturghi, asini illetterati insigniti col lauro accademico, spregiudicati avventurieri ammirati come sapienti e prudenti governanti etc.
La maggior parte degli individui ha smarrito ogni capacità critica avendo rinunciato, per indolenza o mancanza di coraggio, alla propria autonomia di pensiero. Conformando la propria azione alla tradizione e obbedendo con eccessiva devozione alle (credute) autorità del passato, essi, asini mansueti, si accontentano di essere «quelli che sono agiti e non […] quelli che agiscono».[3]
Il rifiuto di una vita activa appare a Bruno un intollerabile tradimento dell’essenza umana. Per celebrare la propria dignità non è necessario rischiare la propria esistenza per ricercare la verità fino all’estremo come Atteone; è sufficiente per ogni singolo attivare, almeno in parte, le facoltà ricevute in dotazione dalla natura. Queste sono davvero ingenti ma spesso gli uomini ne ignorano la potenza. Essi dovrebbero indagare le profondità del sé per assumere contezza delle proprie risorse prima di rinunciare a obiettivi per conseguire i quali si sentono inadeguati. Nessuno può produrre «opere mirabili e difficili a credersi»[4] se non sa di poterlo fare.
Bruno stima l’individuo pari a qualsiasi altra forma di vita animata dal medesimo spiritus universalis. Tuttavia, ciò non esclude che la peculiarità dell’uomo lo renda, tra tutti gli esseri, più capace di realizzare i suoi progetti.[5] Sotto il profilo ontologico, l’uomo non vale più «de le mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trove animata o abbia anima».[6] La differenza tra i vari enti è sancita dalla complessione e, in particolare dal possesso delle mani, che permettono all’uomo di operare e incidere sulla realtà naturale e sulla storia. Senza le mani «dove sarrebono le instituzioni de dottrine, le invenzioni de discipline, le congregazioni de cittadini, le strutture de gli edificii, e altre cose assai che significano la grandezza et eccellenza umana, e fanno l’uomo trionfator veramente invitto sopra l’altre specie?».[7] Se un serpente si trasformasse in uomo e un uomo in serpente – immagina il Nolano nella Cabala del cavallo pegaseo,[8] – il primo agirebbe come attualmente fa il secondo, e l’uomo imprigionato nel corpo angusto del rettile, pur conservando vivido ingegno, sarebbe costretto ad agire limitatamente «per penuria d’instrumenti».[9] Ma l’uomo – come aveva già ipotizzato Giovanni Pico della Mirandola – riassume in sé tutte le caratteristiche presenti separatamente nelle altre creature.[10] «La specie umana» – si legge nel De la causa, principio et uno – «particularmente ne gl’individui suoi, mostra de tutte l’altre la varietade; per esser in ciascuno più espressamente il tutto, che in quelli d’altre specie».[11] L’uomo, dunque, dispone di tutti gli «instrumenti» per tradurre in azione i parti migliori della mente. E la mente sembra accreditata, in alcuni passaggi delle opere bruniane, di capacità illimitate. Essa, scrive il filosofo nel De umbris idearum, è capace di percorrere «tutte le realtà dell’universo»,[12] di ricondurre all’unità il molteplice delle infinite declinazioni dell’essere e di introdurci «in quelle dimore in cui con un atto di apprensione possiamo comprendere assai più di quanto non si conosca altrove con innumerevoli atti di conoscenza».[13] Grazie alla mens possiamo sia «discutere, esaminare, argomentare» i contenuti «raziociabili», sia conoscere le «specie intelligibili quelle per cui, abbandonando ogni procedimento discorsivo, in un unico atto tutto possediamo, viviamo beati imitando il modo di conoscere della mente eterna». Quando essa si leva «ben al di sopra degli intelligibili […] con perfetto possesso tutta e in un solo tempo totalmente comprende tutto, senza essere minimamente offuscata dall’ombra delle vicissitudini».[14] E se si spinge fino al proprio limite, può perfino condurre alla visione intellettuale di Dio:
in questo stato dove non possemo veder Dio se non come in ombra e specchio, e però non ne può esser oggetto se non in qualche similitudine; non tale qual possa esser abstratta et acquistata da bellezza et eccellenza corporea per virtù del senso; ma qual può esser formata nella mente per virtù de l’intelletto.[15]
Tutte le cognizioni acquisite sono custodite da una memoria resa portentosa dalla riforma che Bruno ha promosso del metodo lulliano. Nel “laboratorio” della mente, la memoria non è più solo retentio ma anche moltiplicazione infinita di dati in modo da emulare l’incessante produttività naturale e, perfino, anticipare combinazioni non ancora manifestatesi nella realtà.[16]
Nel Sigillus sigillorum, Bruno espone la dottrina delle contractiones (materia già trattata da Ficino nel XIII libro della Theologia platonica[17]), le prassi per «chiamare a raccolta le potenze vitali e la concentrazione delle funzioni cognitive», necessarie per «rendere più efficace la ricerca e la contemplazione della verità».[18] Nel trattato, il filosofo precisa le condizioni (tempi, modi e circostanze) che favoriscono negli uomini l’emersione delle forze più recondite. Nella solitudine e nel silenzio, alcuni individui compresero di possedere eccezionali talenti sfruttando i quali divennero «iniziatori di altrettante arti, scienze, virtù e buoni costumi, maestri, guide e pastori di popoli». Pitagora scoprì i segreti della natura dopo essersi astenuto «per dieci anni dal frequentare altri uomini», «in venti anni di solitudine Zoroastro affinò la conoscenza di ogni magia e arte divinatoria», altrettanto fecero «Zamolxi, Abaride e altri». Perfino Gesù iniziò «a predicare e operare cose mirabili […] dopo la lotta sostenuta contro il diavolo nel deserto».[19]
Da quelle potenze giacenti nell’interiorità più profonda possono scaturire energie poderose: grazie ad esse – proclama Bruno – «comanderemo anche alle montagne».[20] Sull’io, esse hanno effetti impensabili: ad esempio, «per una contrazione derivante da un improvviso timore, che fa concentrare o raccogliere lo spirito nella cittadella del cuore e in altre parti interne, accade che i malati guariscano da moltissime malattie»; [21] per una «contrazione dell’animo […] Anassarco sostenendo i colpi feroci infliggeva al tiranno Nicreonte una sofferenza maggiore di quella da cui lui stesso era tormentato»; [22] «per una contrazione del sentimento commosso della pietà verso il padre il figlio muto di Creso sciolse la lingua a proferire parole […] mai udite».[23]
Il sapiente deve, però, conoscere tutte le contractiones per escludere dalle proprie scelte quelle “perverse” atte a conseguire obiettivi miserevoli, che alterano lo spirito rendendo i soggetti «folli o fanatici».[24]
II.
Solo grazie all’acquisizione di una conoscenza pansofica («una teoria universale delle cose»[25]) si apre per il sapiente la prospettiva di un dominio su di sé, sugli altri e sulle cose: per Bruno «niente è difficile a chi veramente intende».[26]
È il caso del mago. Nelle prime pagine del De magia naturali, Bruno illustra le varie forme di magia specificando, per ognuna di esse, caratteristiche ed effetti. Lascia per ultima la definizione del ministro di arte occulta che sente propria: «Quando viene usato dai filosofi e tra i filosofi, il termine mago indica il sapiente dotato della capacità di agire».[27] Qualche anno dopo, agli inquisitori romani il filosofo avrebbe precisato che «la assolutamente magia non è altro che una cognitione dei secreti della natura con facoltà d’imitare la natura nell’opere sue, e fare cose maravigliose agl’occhi del volgo».[28] Per sostituirsi alla natura e operare in sua vece bisogna carpirle i principi all’origine dei suoi processi e trovare il modo di attivarli assecondando le dinamiche dell’attrazione e della repulsione nei rapporti tra piante, pietre, metalli etc.[29] e individuare i mezzi tecnici (i vincula) che, caso per caso, consentono al mago di estendere la propria influenza sugli individui.[30] In quest’ultimo caso, il mago-sapiente deve essere consapevole che la propria azione diventa transitiva solo quando ad essa corrisponde un’apertura ad accoglierla da parte del soggetto cui è destinata. In assenza di fiducia[31] – «primo e massimo principio della magia e della medicina» – le contrazioni e i tentativi vincolanti si rivelano inefficaci. Perfino «gli dèi talora non possono produrre effetti mirabili in quanti non manifestano affetti opportuni di timore, amore, speranza, letizia, tristezza e, in generale, di consenso»[32]. Anche del Cristo – «il potentissimo figlio di Dio» – narrano «che non fu capace di compiere alcun miracolo in patria “per incredulità” dei concittadini, mentre vediamo che spessissimo restituì la salute agli infermi “per la loro fede”».[33]
Gli elementi che il mago (o il medico) è chiamato a selezionare per compiere magnalia devono appartenere all’ordine naturale. Tutte le forme di magia richiedenti l’ausilio e l’intervento di forze metafisiche sono bandite dall’orizzonte bruniano. La teurgia (o magia «transnaturale o metafisica»), ad esempio, promette di produrre effetti grazie al «culto o l’invocazione di intelligenze ed efficienti esterni o superiori, con preghiere, consacrazioni, fumigazioni, sacrifici, specifici paramenti e cerimonie dedicati agli dèi, ai demoni e agli eroi». In tal modo, però, «il mago diviene vaso e strumento, nella propria persona» delle entità agenti per suo conto. Da tale “scambio” il mago riceve un guadagno risibile: una «sapienza» apparente, tanto effimera e transitoria da essere eliminata «facilmente con un semplice farmaco, assieme allo spirito». «Questa è la magia dei disperati» – è il giudizio di condanna di Bruno – «che divengono ricettacoli di cattivi demoni, alla quale si cerca di arrivare per mezzo dell’arte notoria; oppure, ciò avviene al fine di dominare e comandare ai demoni inferiori con l’autorità dei principi dei demoni superiori, onorando e allettando questi, vincolando con formule e scongiuri quelli».[34]
Sotto il profilo religioso, la pratica della magia teurgica si configura come un imperdonabile affronto a Dio, al suo disegno provvidenziale minacciato dalla superbia dell’uomo che tenta di sovvertirlo alleandosi (e sottomettendosi) a Satana e ai suoi adepti. Una scelta scelerata passibile della condanna dell’anima a bruciare in eterno tra le fiamme dell’inferno. Tuttavia, per Bruno, in quel patto faustiano c’è un peccato altrettanto grave nei confronti della meravigliosa natura dell’uomo. I disperati pur di sembrare potenti cedono volontariamente il proprio corpo, abdicando, di fatto, al proprio arbitrio e al controllo delle proprie azioni. Accettando l’invasamento annullano la propria dignità relegando loro stessi al ruolo di strumento.[35]
In fondo, per il filosofo, tutti i fenomeni esulanti dall’ordine naturale, sono meritevoli di derisione. Perfino i miracoli attribuiti al Cristo o ai santi sono, a suo giudizio, narrazioni fantasiose per ingenui creduloni.[36] Ogni evento positivo, straordinario e inatteso verificatosi nella storia, si deve alla tensione, al bene e all’impegno degli umani. «Spendersi per la libertà della patria, moderare e plasmare spigolosità e intemperanze dei singoli potenzialmente nocive per la “civil conversazione”, placare rivolte senza soffocarle nella brutalità e nel sangue […] sono le vere magie e i veri miracoli».[37]
L’uomo, dunque, è “prodigioso” per quanto sa realizzare con le proprie risorse e il proprio talento. In un passaggio del De immenso et innumerabilibus, il filosofo sceglieva la metafora del viaggio conoscitivo per compiere il quale l’uomo possiede già tutto quanto serve: anima, senso, ragione, intelletto, memoria.
Orsù concentriamo lo sguardo all’onniforme immagine dell’onniforme dio, ammiriamo la sua vivente e grande immagine; da questo luogo, allora, come nella prora dell’anima, il faro del senso della vista esplora innanzi, la ragione tiene il timone della poppa, la luce dell’intelletto s’innalza in vedetta, affinché la memoria ripercorra su tutto quanto l’orizzonte i fatti trascorsi, mediti i presenti, preveda i futuri. Allora l’uomo da Trismegisto sarà definito un grande miracolo, l’uomo che si trasforma in dio, quasi che fosse egli stesso dio, che tenta di divenire tutto, come dio è tutto; si rivolge all’oggetto senza limite (che talvolta tuttavia necessita di un limite), come infinito è dio, immenso, dovunque tutto.[38]
III.
Bruno adotta medesime categorie critiche quando vaglia la presunta attendibilità dei profeti.[39] Più di un’analogia emerge nella sua comparazione tra i praticanti di magia teurgica e i sedicenti veggenti. Nel Cinquecento, i falsi profeti si trovano in ogni dove mentre fanno proseliti tra gli sprovveduti, con i loro vaticini oscuri.[40] Nella Cabala del cavallo pegaseo, il filosofo lancia l’allarme:
siamo dovenuti a tale ch’ogni satiro, fauno, malenconico, imbreaco et infetto d’atra bile, in contar sogni e dir de pappolate senza construzzione e senso alcuno, ne vogliono render suspetti de profezia grande, de recondito misterio, de alti secreti et arcani divini da risuscitar morti, da pietre filosofali et altre poltronarie da donar volta a quei chi han poco cervello a farli dovenir al tutto pazzi con giocarsi il tempo, l’intelletto, la fama e la robba, e spendere dì misera et ignobilmente il corso di sua vita.[41]
Alcuni tra i pronosticatori si vantano di aver ricevuto visioni del futuro dall’alto. Per Bruno, il loro vaneggiamento è verosimilmente provocato da una disfunzione fisica; più precisamente da «un vitto nocivo […] a causa del quale negli individui peggio nutriti si accumula in prossimità delle parti vitali del corpo un umore che li rende folli e fanatici per l’alterazione del proprio spirito».[42] Macilenti, allucinati e «tormentati da una specie di puzzolentissima malinconia» si presentano come detentori di inaccessibili verità. «Questi stolti» sono oltremodo perniciosi poiché «non si limitano a nutrire la propria turpissima follia, ma alimentano nel frattempo anche quella di altri ignoranti e asini, cui appaiono profeti e rivelatori di pietà».[43] Altri «sempliciotti» indovini dichiarano di aver acquisito la preveggenza per essersi dedicati a «pratiche di superstiziosa contemplazione» seguendo le esecrabili prescrizioni «dell’arte notoria».[44] «Indemoniati per l’intervento di uno spirito estraneo»[45] costoro sono proprio come i “disperati” cessionari di corpo e anima ai demoni perché operino in loro. Lo «spirito di sapienza» che ostentano «non è […] lo spirito originariamente presente in loro, ma gli viene congiunto d’imperio».[46] La loro fatua prescienza sparirà «repentinamente» com’è venuta: anche in questo caso basterà un purgante. Al proposito, Bruno ricorda di aver fatto diretta esperienza «di come simili spiriti ugualmente generatori di furore e di intelligenza vengono eliminati insieme a certi escrementi animali appropriati al temperamento saturnino».[47] Il Nolano confessa di aver vestito i panni dell’investigatore smascherando un finto profeta:
a Brescia, in mia presenza e proprio per le mie cure, un monaco che valendosi di quest’arte sembrava improvvisamente diventato profeta, gran teologo e conoscitore di tutte le lingue, gettato egli stesso in carcere per deliberazione dei monaci, che riconducevano all’opera di un malvagio principio una sapienza così grande, per il potere dell’acetabolo temperato con il succo di polipodio tritato tornò ad apparire, una volta evacuati lo spirito e gli umori melanconici, il solito asino di sempre.[48]
Anche sui profeti “attestati” dalla tradizione religiosa e sul valore delle loro capacità predittive, Bruno nutre più di una perplessità. Affida le sue considerazioni alle voci di Tansillo e Cicada i quali, all’inizio del dialogo III De gli eroici furori, si interrogano sulle caratteristiche di «due specie» di oracoli. La prima è rappresentata da quelli che si sono «fatti stanza de dèi o spiriti divini» e grazie a ciò «dicono et operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri intendano la raggione». Come chi ospita in sé demoni maligni, anch’essi sono «come vòti di proprio spirito e senso, come in una stanza purgata, s’intrude il senso e spirto divino». E lo spirito, non a caso, sceglie per «stanza» il corpo (e la voce) degli individui incolti e gretti «perché tal volta vuole ch’il mondo sappia certo che se quei non parlano per propri studio et esperienza come è manifesto, séguite che parlino et oprino per intelligenza superiore: e con questo la moltitudine de gli uomini in tali degnamente ha maggior admirazion e fede».[49] La seconda specie di profeti è composta da coloro i quali
per essere avvezzi o abili alla contemplazione, e per aver innato uno spirito lucido et intellettuale, da uno interno stimolo e fervor naturale suscitato da l’amor della divinitate, della giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell’intenzione acuiscono gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade accendono il lume razionale con cui veggono più che ordinariamente: e questi non vegnono al fine a parlar et operar come vasi et instrumenti, ma come principali artefici et efficienti.[50]
IV.
Alla domanda di Cicada («Di questi doi geni quali stimi megliori?»), Tansillo-Bruno risponde che «gli primi hanno più dignità, potestà et efficacia in sé: perché hanno la divinità» ma
gli secondi son essi più degni, più potenti et efficaci, e son divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li sacramenti: gli secondi come una cosa sacra. Nelli primi si considera e vede in effetto la divinità e quella s’admira, adora et obedisce. Ne gli secondi si considera e vede l’eccellenza della propria umanitade.[51]
Bruno non eccepisce sulla bontà o sulla malignità dello spirito che abita nel mago “disperato” o nel profeta “ispirato”: in entrambi i casi reputa inammissibile la cessione di sé a una presenza estranea che, divenuta egemone, li ha ridotti alla passività e all’inconsapevolezza.
L’uomo – sia esso mago o profeta – celebra «l’eccellenza della propria umanitade» solo se resta libero[52] e intraprendente praticando «tra le specie della filosofia, […] la meglior che più comoda et altamente effettua la perfezzion de l’intelletto umano, et è più corrispondente alla verità della natura, e quanto sia possibile [ne renda] cooperatori di quella». Così il mago-sapiente si sostituirà alla natura e il vero profeta potrà scrutare il futuro
divinando (dico per ordine naturale, e raggione di vicissitudine; non per animale istinto come fanno le bestie e que’ che gli son simili; non per ispirazione di buoni o mali demoni, come fanno i profeti; non per melanconico entusiasmo, come i poeti et altri contemplativi), o ordinando leggi e riformando costumi, o medicando, o pur conoscendo e vivendo una vita più beata e più divina.[53]
Conoscendo i ritmi vicissitudinali della ruota del tempo[54] saprà anzitempo che quando negli
stati del mondo […] ritroviamo nelle tenebre e male, possiamo sicuramente profetizar la luce e prosperitade; quando siamo nella felicità e disciplina, senza dubio possiamo aspettar il successo de l’ignoranze e travagli: come avvenne a Mercurio Trismegisto che per veder l’Egitto in tanto splendor de scienze e divinazioni, per le quali egli stimava consorti de gli demoni e dei, e per conseguenza religiosissimi, fece quel profetico lamento ad Asclepio, dicendo che doveano succedere le tenebre de nove religioni e culti, e de cose presenti non dover rimanere altro che favole e materia di condannazione.[55]
[1] G. Bruno, De la causa, principio et uno, in Id., Dialoghi filosofici italiani, edizione a cura di M. Ciliberto, Milano, Mondadori 2000, p. 177. Sul tema, si veda: A. Montano, Aspetti di una storia della filosofia non dialettica e non continuistica, «Rivista di storia della filosofia», III, 2003, pp. 437-457.
[2] Cfr. A. Masullo, Il confusissimo secolo, in Id., Giordano Bruno maestro di anarchia, Caserta, Edizioni Saletta dell’Uva, 2016, pp. 17-44.
[3] G. Bruno, Sigillus sigillorum, in Id., Opere mnemotecniche, edizione a cura di M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi, Milano, Adelphi 2009, t. II, p. 253. Cfr. M. Ciliberto, La ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, Roma, Editori Riuniti 1986, pp. 24-65; M. Matteoli, Teorie della conoscenza e filosofia nella prima età moderna. Cusano, Fracastoro, Bruno, Roma, Carocci 2022, p. 154.
[4] G. Bruno, Lampas triginta statuarum, in Id., Opere magiche, edizione diretta da M. Ciliberto, Milano, Adelphi 2000, p. 1189.
[5] Ivi, p. 1053-1059.
[6] G. Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 717.
[7] Ivi, pp. 718-719. Su questo passo si veda: A. Montano, La mente e la mano. Aspetti della storicità del sapere e del primato del fare in Giordano Bruno, Napoli, La città del Sole 2000, pp. 92-93.
[8] G. Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, cit., pp. 717-718.
[9] Ivi, p. 718.
[10] All’atto della creazione dell’uomo, «l’ottimo Artefice prese questa decisione. Colui al quale nulla poteva esser concesso di proprio, avrebbe avuto parte in tutto ciò che era stato assegnato agli altri singolarmente»: G. Pico della Mirandola, La dignità dell’uomo, edizione a cura di R. Ebgi, Torino, Einaudi 2021, p. 7. Cfr. al proposito M. Ciliberto, Giordano Bruno. Il teatro della vita, Milano, Mondadori 2007, pp. 421-422.
[11] G. Bruno, De la causa, principio et uno, cit., p. 181. Cfr. anche De vinculis in genere, Id., Opere magiche, cit., p. 415-417.
[12] Id., De umbris idearum, in Id., Opere mnemotecniche, edizione a cura di M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi, Milano, Adelphi 2004, t. I, p. 89.
[13] Id., Sigillus sigillorum, cit., p. 291.
[14] Ibidem (anche per la citazione precedente).
[15] Id., De gli eroici furori, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 812. M. Ciliberto, Giordano Bruno: un ritratto, in Id., «Academico di nulla academia». Sette studi su Giordano Bruno, Edizioni della Normale, Pisa 2023, pp. 12-13.
[16] Sull’Ars memoriae e sulle modifiche bruniane apportate ai sistemi lulliani oltre ai “classici” (Yates, Garin, Rossi) si veda almeno: M. Matteoli, Nel tempio di Mnemosine. L’arte della memoria di Giordano Bruno, Pisa, Edizioni della Normale 2019.
[17] E. Scapparone, ‘Raptus’ e ‘contractio’ tra Ficino e Bruno, in Letture bruniane I-II del Lessico Intellettuale Europeo 1996-1997, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali 2002, pp. 1-23. Si veda anche R. Sturlese, Le fonti del Sigillus sigillorum del Bruno, ossia: il confronto con Ficino a Oxford sull’anima umana, in Ead., Dio, universo, uomo. Studi e ricerche su Giordano Bruno, Pisa, Edizioni della Normale 2020, pp. 271-307.
[18] Cfr. M. Matteoli, ad vocem: Concentrazione, in Giordano Bruno. Parole concetti immagini, Pisa, Edizioni della Normale 2014, vol. I, p. 397. Sull’argomento cfr. P. Rossi, Il tempo dei maghi. Rinascimento e modernità, Milano, Cortina editore 2006, pp. 146-155.
[19] G. Bruno, Sigillus sigillorum, cit., p. 227. Sulla solitudine e sulle altre condizioni che favoriscono l’attivazione delle potenze recondite del soggetto, Bruno ritorna nel De magia mathematica, in Id., Opere magiche, Milano, Adelphi 2000, pp. 57-61. Cfr. M. Matteoli, Teorie della conoscenza e filosofia nella prima età moderna. Cusano, Fracastoro, Bruno, cit., pp. 151-152. S. Bassi, Lo spazio della profezia fra Bruno e Campanella, in Ead. (a cura di), Costellazioni concettuali tra Cinquecento e Settecento. Filosofia, Religione, politica, Firenze, Olschki, mmxix, p. 29.
[20] G. Bruno, Sigillus sigillorum, cit., p. 233.
[21] Ivi, p. 237.
[22] Ivi, p. 251.
[23] Ivi, p. 235.
[24] Ivi, p. 249. Cfr. al proposito M. Matteoli, Teorie della conoscenza e filosofia nella prima età moderna. Cusano, Fracastoro, Bruno, cit., p. 151; G. Gisondi, «Profonda magia». Vincolo, natura e politica in Giordano Bruno, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi filosofici 2020, pp. 91-92.
[25] G. Bruno, De vinculis in genere, in Id., Opere magiche, cit., p. 415.
[26] Id., Sigillus sigillorum, cit., p. 233.
[27] Id., De magia naturali, in Id., Opere magiche, cit., p. 167.
[28] L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, Roma, Salerno Editrice 1993, p. 275.
[29] G. Bruno, De magia mathematica, cit., p. 81; De magia naturali, cit., pp. 259-261; De vinculis in genere, cit., p. 445.
[30] Id., De magia mathematica, cit., pp. 89-93. Cfr. al proposito: S. Bassi, Metamorfosi della magia in Giordano Bruno, in F. Meroi, E. Scapparone, La magia nell’Europa moderna. Tra antica sapienza e filosofia naturale, Atti del convegno (Firenze, 2-4 ottobre 2003), Firenze, Olschki 2007, vol. II, pp. 384-385.
[31] G. Bruno, De magia mathematica, pp. 9-11: «Fondamento primo di ogni unione con cui ci vincoliamo o vincoliamo a noi le virtù superiori sono dunque fede e credulità, che devono mostrarsi vigorose non solo in noi e nelle nostre operazioni, ma anche in quanti le recepiscono. Questa condizione è a tal punto indispensabile che senza di essa nessuna virtù può manifestare efficacia […]. Fede e credulità – accompagnate dalla speranza di conseguire la cosa e portare a buon fine il progetto – saranno dunque particolarmente vivaci in colui che opera: dovrà infatti suscitare i medesimi sentimenti in chi desidera beneficare, ma indurre artificiosamente timore e orrore in chi invece vuole affliggere con mali e avversità». Cfr. anche De magia naturali, cit., pp. 280-284 e Theses de magia, in Id., Opere magiche, cit., pp. 395-397.
[32] Id., Sigillus sigillorum, cit., p. 233.
[33] Id., De magia mathematica, cit., p. 11.
[34] Id., De magia naturali, cit., p. 163. Si veda anche Sigillus sigillorum, cit., pp. 263-265. Cfr. P. Rossi, Il tempo dei maghi. Rinascimento e modernità, cit., pp. 138-139; N. Tirinnanzi, Eroi e demoni tra Ficino e Bruno, in Ead., L’antro del filosofo. Studi su Giordano Bruno, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2013, pp. 287-289.
[35] I demoni, precisa Bruno in accordo con Psello e Calcidio, «non possono muovere ed alterare molte cose quanto noi, a motivo della loro complessione più spirituale» (De magia naturali, cit., p. 239). Cfr. anche ivi, p. 277.
[36] Cfr. E. Scapparone, s.v. Miracolo, in Giordano Bruno. Parole concetti immagini, vol. II, pp. 1239-1241.
[37] Ivi, p. 1239.
[38] G. Bruno, L’immenso e gli innumerabili, in Opere latine di Giordano Bruno, edizione a cura di C. Monti, Torino, Utet 1980, p. 422.
[39] Sulla profezia nel Rinascimento si vedano almeno le pubblicazioni più recenti: G. Frilli - M. Lodone, La profezia nel pensiero del Rinascimento e della prima età moderna, Pisa, Ets 2022; G. Barbuto - F. Seller (eds.), Profezia e politica all’alba dei tempi moderni, Napoli, Federico II University Press 2023.
[40] Nella Cabala del cavallo pegaseo (cit., p. 727), Bruno ironizza pesantemente sulla strumentale incomprensibilità dei testi profetici: «Sebasto. La intese bene un certo mio amico, il quale avendo non so se un certo libro de profeta enigmatico o d’altro, dopo avervisi su lambiccato alquanto dell’umor del capo, con una grazia e bella leggiadria andò a gittarlo nel cesso dicendogli: “Fratello tu non vòi esser inteso; io non ti voglio intendere”; e soggionse ch’andasse con cento diavoli, e lo lasciasse star con fatti suoi in pace».
[41] Ivi, p. 726.
[42] G. Bruno, Sigillus sigillorum, cit., p. 249. A medici e religiosi impegnati a individuare le cause dei poteri magici e profetici improvvisamente manifestatisi in soggetti privi di ogni talento, Bruno raccomanda di non trascurare gli influssi demoniaci e le disfunzioni umorali. «Per quanto concerne gli invasati o indemoniati, che, superando le capacità del proprio ingegno, parlano varie lingue, e dimostrano disposizione verso varie scienze, sbagliano i medici che, per una specie di rozza pertinacia, negano l’esistenza dei demoni e di intelletti esterni; ma errano anche quei religiosi che si rifiutano di ricondurre tale fenomeno alla qualità degli umori, riferendo tutto, invece, all’opera di un demone» (G. Bruno, Theses de magia, cit., p. 389).
[43] Id., Sigillus sigillorum, cit., p. 245. Cfr. S. Bassi, Lo spazio della profezia tra Bruno e Campanella, cit., p. 30.
[44] Ivi, p. 249. Cfr. anche p. 245.
[45] Ivi, p. 249.
[46] Ivi, pp. 249-251.
[47] Ivi, p. 251.
[48] Ibidem. Sulla vicenda si veda quanto scrive S. Bassi, Lo spazio della profezia tra Bruno e Campanella, cit., p. 30.
[49] G. Bruno, De gli eroici furori, cit., p. 805.
[50] Ibidem.
[51] Ivi, p. 806. S. Bassi, Lo spazio della profezia tra Bruno e Campanella, cit., p. 31.
[52] Di sé stesso, Bruno afferma: «Io non parlarò come santo profeta, come astratto divino, come assumpto apocaliptico, […] non raggionarò come inspirato da Bacco […] o come una fatidica Cassandra, né qual vate illuminato nell’oraculo, o delfico tripode; né come Edipo esquisito […] ma parlarò per l’ordinario e per volgare, come uomo che ho avuto altro pensiero che d’andarmi lambiccando il succhio de la grande e picciola nuca, con farmi al fine rimanere in secco la pia madre; come uomo dico che non ho altro cervello ch’il mio» (G. Bruno, De la causa, principio et uno, cit., pp. 183-184).
[53] G. Bruno, De la causa, principio et uno, cit., pp. 244-245; F. Papi, La costruzione delle verità. Giordano Bruno nel periodo londinese, Milano, Mimesis 2010, pp. 58-59; G. Gisondi, «Profonda magia» .Vincolo, natura e politica in Giordano Bruno, cit., p. 94.
[54] M. Ciliberto, Infinito e tempo nel pensiero di Giordano Bruno, in L. Ruggiu (a cura di), Filosofia del tempo, Milano, Bruno Mondadori 1998, p. 103.
[55] G. Bruno, De gli eroici furori, cit., p. 879.
GIORDANO BRUNO , MAGO , SAPIENZA , PROFEZIA
Filosofia
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