A che punto è la notte? Brevi riflessioni sulla politica universitaria

di Elio Franzini

 

 

Al termine della propria vita, accademica e purtroppo non solo, ci si chiede inevitabilmente se sia valsa la pena affrontare l’università non solo come luogo di studi, ma anche come istituzione, rischiosa e densa di trappole, come ogni istituzione. Forse, ci si domanda, si sarebbe potuti vivere nel chiuso dei propri studi, guardando a distanza chi si muoveva tra i corridoi. Per rispondere a tale domanda interiore, ammesso e non concesso che abbia senso rispondervi (poche ore fa mi è giunta la mail di un collega della mia università che, a molti  mesi dalla fine del mio mandato rettorale, mi riteneva ancora in carica…), bisognerebbe partire da lontano, da molto lontano, dalle origini mitiche e mitizzate dell’università, in un medioevo che forse andrebbe considerato per le sue capacità dialogiche, ben più vivaci di quelle attuali, e non per i pregiudizi che, ancor oggi, genera. Sarebbe dunque del tutto sbagliato ritenere che alcune connessioni tra il mondo universitario e altri apparati istituzionali siano soltanto un retaggio di quell’epoca: ancor oggi è ben viva, in questa relazione, l’azione di quella cosiddetta Santa Vehme, che si dice abbia ispirato il Processo di Kafka. D’altra parte, il serio accademico Condorcet fu costretto al suicidio nei mesi del Terrore di Robespierre.[1] E quest’ultimo affermava che le loro guide intellettuali non erano gli accademici, ribadendo che “un nuovo regime non può poggiarsi su una storia antica”. Questo perverso atteggiamento persiste ben saldo, e non vi è riforma alcuna che lo possa abbattere. Si potrebbe tentarne una genealogia, al modo di Foucault, ma si vedrebbe che non vi è nulla che si possa fare, persi in una rete di complicità che a volte hanno degradato la politica, che rinuncia a se stessa nell’ossessione della punizione e della comunicazione. Mostri entrambi insensati, che riportano in un universo kafkiano, appunto in una santa Vehme, in cui, come accade nelle prime righe del Processo, si sente ridacchiare nella stanza accanto. Questi mostri, che assumono costumi tribali, e vesti del medesimo rango, sono quegli stessi che Hegel ben descrive nella Fenomenologia dello spirito e, nel medesimo anno, nel brevissimo articolo Chi pensa astrattamente? Andrebbe sempre consigliata la lettura pubblica di quest’ultimo saggio, in particolare ricordando Giancarlo Magnano san Lio, ripercorrendo le figure di quell’astrattezza che ogni giorno si vede all’opera nei meccanismi della giustizia e della politica: la storia dovrebbe insegnare e invece, purtroppo, funziona solo a posteriori.

In questa imbarazzante astrattezza di alcune istituzioni, in cui l’immane forza del negativo si è ridotta a farsa comunicativa, ci si può chiedere se esista un modo “positivo” per discutere sull’università, per sottrarla al pensiero astratto dei suoi astratti riformatori. Lo si dubita, ed è per questo che si titola qui “a che punto è la notte”?

In momenti di crisi, del pensiero e della politica, è infatti compito primario dell’università interrogare se stessa e il mondo che la circonda. Non è una dinamica autoreferenziale, ma il tentativo di comprendere dove si è persa la strada, dove si è bloccato il cammino, dove l’elogio dei sentieri interrotti si è dissolto in frammenti lontani dai fondamenti stessi del vivere. Conoscere significa mettere in atto operazioni soggettive e intersoggettive in grado di comprendere e ordinare il mondo di cui abbiamo esperienza, così come si manifesta attraverso fenomeni collettivi. Interrogarsi su queste operazioni non significa tipicizzare il mondo e le cose, ma indagare il presupposto di ogni conoscenza possibile e reale, che precede – ne è condizione di possibilità – i singoli atti conoscitivi.

È certo difficile determinare una strategia unitaria: lunica possibile deriva da un approccio che cerchi di trasformare obiettivi specifici in scopi comuni, ritenendo la differenza un punto di forza purché coniugata secondo principi condivisi guidati da ununica ispirazione, senza enfasi e senza ambizioni superiori alle forze. In uno straordinario discorso preparatorio del Concilio Vaticano II (11 settembre 1962), Giovanni XXIII ricorda che la vitalità di unIstituzione si pone nella sua capacità di avere chiari gli obiettivi della propria struttura interiorevitalità ad intra. Ma coglierà davvero lo scopo della sua missione se, e solo se, a essa aggiungerà una vitalità ad extra, attenta cioè “alle esigenze e ai bisogni dei popoli”, a un’etica collettiva. È per tale motivo che l’università deve essere “inclusiva”: perché la qualità dei suoi percorsi interni formativi e scientifici ha come fine ultimo il miglioramento generale di una società e di una cultura. L’università proprio perché inclusiva deve essere un magnete per un nuovo movimento sociale e formativo, che mira a un’identità che è tale solo se raccoglie una molteplicità di differenze. Perché non esiste strategia senza dialogo, nella consapevolezza che ogni università è sempre in costruzione. Ma è proprio qui, nel suo aprirsi all’esterno, che il “sistema università” spesso non ha risposte, e che vede la propria libertà imbrigliata e priva di speranze progettuali.

Perché non esiste strategia senza libertà, senza che vengano dati gli strumenti per poterla costruire. Libertà non è una parola astratta, ma termine che si radica in profondità nella storia millenaria dell’università europea, ed è una condizione di possibilità per il nostro destino.

Max Weber, in un saggio di più di cent’anni fa, Scienza come professione, dove il termine Beruf significa anche vocazione, compito e dunque destino e dovere, ricordava che la scienza non è soltanto, come a volte qualcuno crede, un esercizio di calcolo che viene compiuto nei laboratori o nelle cartoteche statistiche.

È qualcosa cui non si giunge solo con il freddo intelletto, bensì coltivando le idee “con tutta l’anima”. Idee che sorgono soltanto aggiunge Weber, «sul terreno di un duro lavoro».[2]

Non si possono presentare facili soluzioni: ma quel che forse manca oggi alla politica della scienza, travolta da istanze pseudoscientifiche o alla ricerca di pseudoinnovazioni e di miracolose ricette, è la capacità di comprendere che libertà e strategia sono conquiste che l’università non può ottenere da sola.  Non bastano provvedimenti contingenti, anche di buona volontà: l’università non vive, non può vivere, sul piano di provvedimenti “annuali”, ma solo un progetto, un disegno, di pluriennale investimento per il futuro. Ignorarlo significa ignorare la progettualità del Paese, il suo futuro, il suo destino, la sua stessa ragion d’essere in una contemporaneità confusa, dove l’intelligenza, artificiale o naturale che sia, sembra essere sempre distante dal pensiero.

È questa la strada per comprendere in modo autentico quel che luniversità può dare al tessuto sociale e culturale: l’esercizio di uno spirito critico che sempre ha accompagnato la vicenda della cultura, non solo moderna. Si tratta di riflettere, al di là degli episodi, su un’intera situazione concettuale: è forse allora giunto il momento, di fronte al silenzio regressivo di chi, pur dovendo guardare e vedere, non guarda e non vede, di rivolgersi a quella che il poeta Valéry chiama politica del pensiero. Una politica che può nascere, che deve nascere, dalla società civile, dai corpi intermedi, e che deve trovare nella scienza il proprio costante e quasi ossessivo punto di riferimento: l’università non è un mero “gruppo di interesse”, ma un’istituzione che, come tutte le istituzioni solide e serie, deve mirare a interessi collettivi, costruendo un tessuto culturale e sociale all’interno del quale il bene comune e generale soppianti i privilegi contingenti. La ricerca scientifica è questa prospettiva di futuro, l’università è il campo dialogico in cui le scienze diventano anche formazione. E la formazione è appunto la capacità costruttiva di rendere dialogiche e produttive le differenze che abitano il pensiero, e che un’economia senza strategia e senza progetto non coglie. È il terreno su cui è possibile delineare e organizzare le qualità intellettuali dell’uomo, che derivano da molteplici, specifiche ma differenziate, situazioni e influenze storiche.

La scienza è l’elemento nodale e centrale, quello propriamente qualitativo, quell’azione “sottile e potente” cui dobbiamo, ancora a parere di Valéry, «la parte migliore della nostra intelligenza, la sottigliezza, la solidità del nostro sapere”, contrapposto a quel “perfetto e definitivo formicaio»[3] che sta diventando il nostro mondo. È alla scienza che dobbiamo una serie di numerose virtù, come la nettezza, la purezza, la distinzione delle nostre discipline, arti, letterature. In sintesi, l’università è ciò che fornisce un metodo alla ricerca scientifica, mostrandola per quel che è, un sistema di riferimenti capace di costruire un’armonia fra le differenze, in primo luogo fra le differenti esigenze che vivono all’interno dello spirito stesso.

Nel 1809, il grande ispiratore dell’università moderna, Wilhelm von Humboldt, sosteneva un principio che oggi in molti sembrano non comprendere. La conoscenza, la scienza sono sempre “utili”: il sapere è l’orizzonte ultimo che non ha bisogno di giustificazione, perché soltanto entro la sua prospettiva e tramite i suoi strumenti è possibile porre il problema del senso di ogni altra cosa. Proprio per tale motivo, aggiunge Humboldt, gli istituti scientifici superiori sono al vertice della vita culturale e morale di una nazione - aperti alle sollecitazioni di tutti, ma senza essere al servizio di nessuno. Se non si comprende questa esigenza metodica non si vede la strada che il metodo stesso indica.

Senza una strategia per la ricerca, senza fondi per la ricerca, la didattica, il diritto allo studio, l’internazionalizzazione, il progresso e l’innovazione, non è la singola università che muore, ma un Paese, che diventa asfittico, chiuso in dispute talmente ridicole da non meritare neppure la definizione di ideologie. Si ascolta ogni anno la litania delle lamentele, che vanno dai fondi che sono insufficienti a riforme mancate o disattese: tutte verità, e come tutte le verità, formalizzabili, senza che si vada alla loro essenza. Da un lato, infatti, non si tiene conto della storia, che ha visto l’università al centro del PNRR, con un flusso di risorse inimmaginabile e, dall’altro, che è necessario un dialogo, non uno scontro, per comprendere l’impatto delle risorse su un sistema complesso. Un sistema che non vuole, da troppo tempo ormai, “guardarsi dentro”, comprendendo, in cicalecci incompetenti e presuntuosi spesso interni alle università stesse, che ciascun ateneo non è una monade che riflette tutte le altre, bensì una serie di individualità irriducibili, che costituisce un intero credibile se, e solo se, è consapevole di tali differenze e lavora per forme rinnovate di sinergia, che deve essere progettuale ed economica. Rimanere chiusi in se stessi non potrà aprire al futuro, così come non potrà farlo un’acritica cancellazione del passato.

Per cui, appunto, Weber conclude il saggio che ho prima citato ricordando un passo biblico tratto dal libro di Isaia, cui già si è alluso: «Una voce chiama da Seir in Edom: sentinella, a che punto è la notte? E la sentinella risponde: verrà il mattino, ma è ancora notte; se volete domandare, ritornate un’altra volta». Ebbene, noi vogliamo ribadire, con Weber, che «attendere ed anelare non basta» e dobbiamo fare altrimenti se vogliamo davvero essere liberi: ci metteremo al nostro lavoro, uscendo dalla notte, e adempiremo, speriamo non da soli, a quella che Goethe chiama «la richiesta di ogni giorno». Ma ciò è possibile, come ricorda ancora Weber, soltanto «quando ognuno abbia trovato e obbedisca al demone che tiene i fili della sua vita».[4] Trovare, insegnare ai nostri studenti, questo demone positivo e strategico, che renda finalmente le università libere di costruire e progettare.

Nessuno di noi sa dire quando e se arriverà il mattino: ma è importante, costitutivo del suo stesso essere, che un’università sempre si interroghi sul senso del tempo, della storia, della vita. Dobbiamo essere, noi tutti, sentinelle, perché abbiamo a cuore il luogo in cui abitiamo, consapevoli che è nostro compito cercare di avere la visuale più sgombra, quella che la ricerca impone, ricerca che è modello e simbolo di libertà, pace e rispetto, in cui le diversità si toccano e imparano a conoscersi.

Ma non vogliamo avventurarci in profezie, che lasciamo ad altri, bensì ricordare il valore di una crisi, una crisi che induce a non cedere a uno dei grandi mali dell’Occidente, cioè a un “pensiero unico”, a un unico modello di sviluppo, non solo economico, che rischia di rivelarsi subdolamente, e pervasivamente, autoritario: modello che mette in pericolo ciò che invece l’università deve perseguire, cioè un’indagine sul senso degli eventi, che li esamini da molteplici punti di vista possibili. La crisi può essere fonte di giudizio, di consapevolezza: permette di esercitare la pluralità dei modi della ragione, moltiplicando le occasioni di dialogo e confronto, comprendendo che neppure le nozioni che guidano la ricerca universitaria, logos, episteme e mythos, ragione, scienza e racconto, sono sempre state uguali a se stesse.

Tutto ciò che è storico può essere, per sua stessa natura, messo in discussione, argomentato, criticato. La storia e la scienza aprono al domani, a un concreto principio speranza, come scriveva il filosofo Ernst Bloch, a un’ansia costruttiva che va insegnata alle nuove generazioni: anziché aspettare pazientemente di adattarsi alle situazioni, dobbiamo progettare mondi migliori. Come si chiede e ci chiede il titolo di una Biennale veneziana di Architettura di qualche anno fa, “come vivremo insieme?”. Vivremo insieme, è la risposta, solo comprendendo il mondo come unità vitale, un mondo in cui natura e infrastrutture si intreccino, un mondo che recuperi la sua biodiversità e la sua storia, che offra sempre di nuovo elementi per arricchire le nostre vite e le nostre coscienze, un mondo in cui si dia espressione formale ai sistemi nascosti che devono essere protetti e nutriti.
Dobbiamo guardare alla ricerca di base, originario scopo dell’università, senso intrinseco della innovazione e dello sviluppo. Dobbiamo aprirci al territorio come luogo di scambio formativo e tecnologico. Dobbiamo costruire ecosistemi integrati per una ricerca capace appunto di integrare i saperi. Dobbiamo mettere al primo posto il nodo della formazione permanente, autentica progettazione di futuro, aprendoci a realtà nuove, a forme di digitalizzazione che non vanno né enfatizzate né demonizzate. L’università deve saper essere una start-up permanente, non uno specchio banale di se stessa e dei suoi reggitori, a volte desiderosi solo di apparire confondendo l’istituzione con il proprio ego.

L’università, e vado verso la conclusione, è la strada verso l’innovazione, verso la crescita costante della cultura, e dunque della coscienza dei popoli, della loro capacità di riflessione e critica, e suo scopo è far comprendere il senso essenziale della ricerca per la storia, la nostra storia e la nostra identità. Ma essendo una dimensione formativa in essere, deve insegnare in primo luogo i valori della solidarietà, dell’inclusione, del dialogo. Non va mai dimenticato quel che scrive Camus nella Peste: “Ci si stanca della pietà quando la pietà è inutile”. Non bisogna invece stancarsi, facendo nostre le parole che ancora Camus fa dire a un suo personaggio: “io mi sento più solidale con i vinti che con i santi. Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo m’interessa”.  È ciò, in definitiva soltanto ciò, quel che noi tutti vogliamo insegnare ai nostri studenti.

In tutto ciò una sola certezza: non sarà con la sua sola forza che l’università potrà guardare al futuro, ma soltanto confrontandosi con la verità progressiva che plasma la natura delle cose. L’università ha la funzione di invitare alla “saggezza dell’incertezza”, a guardare il mondo come ambiguità, perché la ricerca del concreto si realizzerà soltanto nel momento in cui sapremo affrontare, come scrive Milan Kundera, «una quantità di verità relative che si contraddicono»,[5] ma proprio per costruire insieme un’idea di verità, per «costituire una nuova politica della verità»: non si pretende di cambiare la coscienza collettiva, «ma il regime politico, economico, istituzionale di produzione della verità»[6] (come afferma Michel Foucault).

Il tempo umano, osserva lo storico Marc Bloch, sarà sempre ribelle sia all’implacabile uniformità sia alla rigida ripartizione del tempo dell’orologio: la storia deve essere plastica per adattarsi alle linee stesse del reale. È il simbolo di una continuità che è progressiva costruzione di valori, dove bellezza, libertà, giustizia, parole da cui si è preso avvio, non sono astratte chiuse nei loro formali palazzi, ma dimensioni concrete all’interno delle quali si vive il senso drammatico della storia. I saperi vanno sempre rinnovati non riproducendo un’astratta eternità, bensì costruendo, loro tramite, un sistema di valori civili e sociali. Una visione univoca li distrugge, rende i loro spessori fragili simulacri, disciplinati in forme costrittive e distruttive: è il trionfo del disarmonico, del provvisorio, della violazione dei diritti, di dispositivi incatenati. Di fronte a una perversione comunicativa che sembra voler tutto trasformare in un panottico carcerario, l’università è invece la moltiplicazione degli sguardi, l’attraversamento delle discipline per tenerne vivo lo spessore conoscitivo. Il fondatore dell’università degli Studi di Milano, Luigi Mangiagalli, già nel 1924 affermava che le università nascono per costruire quella che chiamò «una politica della cultura che in Italia fu profondamente trascurata».

Politica della cultura, monito essenziale, in tutte le sue forme e modi, quale base per unire valori individuali, sociali e spirituali a una forza che li tenga sempre vivi, mai formalizzabili.

I valori della scienza, in tutte le loro stratificazioni e modalità, in tutti i loro stessi limiti e contraddizioni, non sono un chiaroscuro di verità e d’inganno, bensì un’autentica costruzione assiologica, che segue un percorso storico, al tempo stesso produzione del nuovo e riproduzione critica e dialettica del passato. Si costruisce con la scienza un orizzonte di libertà.

Ricordo qui, per concludere, la storia di Andrej Rublev, uno tra i più grandi scrittori di icone vissuto nel XV secolo. Il suo viaggio simbolico attraverso la storia drammatica del suo popolo è narrato dal regista russo Tarkovskij interamente in bianco e nero, e solo nelle ultime scene, che ripercorrono le pitture di Rublev nella loro forza sacra e simbolica, si passa al colore, alle sfumature sensibili e concrete delle loro qualità, che esibiscono le ricchezze possibili del mondo, delle rappresentazioni.

Perché l’università ha senso se ricorda la sua missione, che è quella che con  Kant potremmo chiamare una avventura della ragione: ovunque sia in gioco la costruzione di forme, di unità di senso, il nodo del problema, la sfida del futuro è dimostrare che le parti non vivono in una sovreccitata discontinuità, che ogni volta distrugge per ricominciare di nuovo non si sa quale percorso, ma possono e debbono stare insieme, costituendo non un confuso agglomerato, ma, come si è detto, un insieme, un’icona, una forma che abbia uno stile, una possibilità fondativa, nella consapevolezza che uno sguardo costruttivo, simbolico, persino sacrale, non solo non è in contraddizione con un punto di vista razionale, formale, conoscitivo, bensì deve mirare al medesimo fine, ai medesimi principi.

Un compito, tuttavia, che richiede l’uso tormentato della ragione, della sua potenza sovversiva, delle sue descrizioni, dei suoi giudizi, del suo originario simbolico, soli strumenti efficaci per rendere comune il patrimonio di chi non vuole cedere all’inautenticità quotidiana delle cose. Giancarlo Magnano San Lio mi mostrò dove, nel Monastero dei Benedettini, si fermò la lava, dopo l’eruzione dell’Etna del 1669, sul muro di quella che è oggi la meravigliosa sede del Dipartimento di studi umanistici dell’università catanese. Simbolicamente, molto si salvò, altro fu ricostruito. L’università, appunto, contro se stessa e contro chi non cessa di ostacolarne il cammino, vuole essere perenne costruzione di una dignità individuale e collettiva come conservazione di un’anima e sua costante riconquista: ricerca, innovazione, riflessione sono il modo per fondare, per proseguire, per posare ogni giorno, e sempre di nuovo, una nuova pietra, al di là delle persone, ma con le persone.

 

 

 

[1] Cfr. Condorcet, I progressi dello spirito umano, a cura di G. Calvi, Roma, Editori Riuniti, 1974.

[2] M. Weber, La scienza come professione, Torino, Einaudi, 2004, p. 38.

[3] P. Valéry, La crise de l’esprit, in P. Valéry, Oeuvres, t. II, Paris, Gallimard, 1960, p. 994.

[4] M. Weber, La scienza come professione, cit., p. 44.

[5] M. Kundera, L’arte del romanzo, Milano, Adelphi, 1988, p. 20.

[6] M. Foucault, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, p. 27.

 


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Filosofia

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